Il tumore metafora di tutto
Quello che serve di Massimo Cirri e Chiara D'Ambros (ed. Manni, 2022) non è un racconto e non è una storia, non è un saggio e non è un romanzo.
Succede a tante persone ogni giorno di ammalarsi di tumore e raccontare le loro storie. Spesso è complicato anche per la naturale riservatezza che questo comporta. Sarebbe importante invece riflettere sulle storie delle persone con criteri simili a quelli della Medicina Narrativa, non soltanto per imparare a convivere con la malattia, ma anche per riflettere sul sistema di cure presente nel nostro Paese. Quando tutto questo accade a un giornalista il risultato può essere straordinario come nel caso di questo libro. Il libro accompagna uno degli autori nel racconto del suo male, lo analizza a posteriori, quando la guarigione è ormai cosa assodata, e lo rinforza costruendo un sistema di interviste che passano attraverso la scrittura ma anche dalla produzione di un video documentario.
Il protagonista lavora per una Radio pubblica e si fa accompagnare in questo percorso da una collega che tenta di garantire una neutralità molto difficile, perché è naturale il coinvolgimento dei familiari e degli amici durante un viaggio attraverso una malattia cronica dolorosa come quella di un tumore. Un viaggio dunque dentro al Sistema Ospedaliero Italiano, medici e infermieri, la macchina organizzativa che ti prende, ti trasporta, a volte non ti chiede nemmeno un parere, possibilmente per arrivare al buon risultato finale. Molto spesso, se si guarisce, si vorrebbe solo dimenticare e invece, con l’aiuto di Chiara e dei tanti medici e professionisti incontrati durante questo viaggio, Massimo è costretto a ricordare e ricostruire quanto accaduto.
Il libro è scritto molto bene, si legge volentieri e non rasenta mai la pesantezza del saggio, anche se inevitabilmente le riflessioni che vengono stimolate comportano un’analisi di organizzazioni e di comportamenti all’interno del Sistema Sanitario Pubblico. Oltre dunque un plot cronologico, gli autori scelgono il metodo (evidentemente più caro a un giornalista) delle interviste, che spezza il racconto e permette di riprenderci dall’apnea che una lucida analisi di fatti, reazioni e sentimenti più profondi crea nel lettore. "Il tumore si sa è la più grande macchina produttrice di dubbi, angosce, incertezze, titubanze e tentennamenti che noi umani abbiamo mai conosciuto".
Adesso che sono passati molti anni l'autore si domanda chi era in quel periodo, quali erano i suoi pensieri, che cos'è rimasto, cos’era, una gara di scacchi? Per esempio, perché non riusciva a mangiare per tanto tempo, perché tutto sapeva di alluminio in polvere durante la chemioterapia e la dottoressa gli diceva allora che se non avesse fatto uno sforzo per mandare giù il Meritene al cacao sarebbe stata costretta a mettere il sondino. “È come giocare una partita di calcio su un campo ostile e in più come se ogni tanto l'erba del campo si attorcigliasse attorno alle caviglie proprio mentre stava tentando di crossare una bella palla”. Ma le metafore non aiutano del tutto a capire che cosa uno ha dentro in quei momenti, il tumore è una metafora di tutto!
Dieci anni dopo, la dottoressa che lo ha curato lo chiama per invitarlo a una tavola rotonda durante un convegno di oncologia; per riconoscenza decide di accettare l’invito e pensare alla malattia non solo come un problema personale e della sua famiglia, un momento di riservatezza e intimità e a volte anche di vergogna da tenere nascosto, ma anche a una condivisione, un discorso pubblico. Poi arriva Chiara D’Ambros che lo convince che non solo si può, ma si deve “Se si può raccontare, attraversare la malattia non è un dramma... non facciamone una tragedia...”
Massimo Cirri, scrittore, psicologo, giornalista per Radio 2, a un certo punto della sua vita viene aggredito dal cancro, deve affrontare la malattia, esce dall’incubo e non dimentica che lo ha potuto fare senza rovinarsi economicamente lui e la sua famiglia perché non ha dovuto pagare costosissime cure mediche, dal momento che in Italia esiste il Sistema Sanitario Nazionale che può garantire salute, universale e gratuita, a tutti i cittadini. In questo libro racconta la quotidianità di chi vive dentro alla malattia, ma apre anche lo sguardo attorno, a chi lo ha sostenuto, lo accompagnato, lo ha curato, gli è stato vicino durante questo viaggio. Il libro in realtà nasce da un documentario che Chiara D’Ambros, collaboratrice di Rai Play, giornalista di Report e documentarista a sua volta ha voluto fare proprio per stigmatizzare questo aspetto delle cure.
A un certo punto della tua vita arriva la frase “Mi spiace, lei ha un tumore!” Questa cosa pare che accada mille volte al giorno in Italia ed è una frase che pronuncia un medico con le parole giuste o con le parole sbagliate, un medico stanco, un medico a fine turno e queste parole cambiano la vita di un cittadino, tante volte per sempre. Il cittadino fa quello che si deve fare, si interroga molto sulla sua vita, sulla qualità della sua vita, sul futuro e sull'assenza del futuro.
Durante questo viaggio nella malattia le cure sembrano più pesanti della malattia stessa, perché a volte la malattia non sta ancora insorgendo e le cure rendono manifeste tutte le controindicazioni e gli effetti collaterali che sono più perniciosi della malattia vissuta fin lì; ma il cittadino italiano non si è mai dovuto preoccupare di chi paga le cure. In molte parti del mondo questo non accade e il cittadino si può rovinare economicamente per potersi curare.
Certo, da una malattia come questa si esce male e quasi sempre si vuole solo dimenticare, leggere il giornale, fare le cose di tutti i giorni e godersi quel po' di vita che ti è rimasta dopo un'esperienza così terribile; ma qui subentra la documentarista che ti dice che, laddove questo succede, c’è un disegno di mondo diverso e cioè là dove esiste il SSN, pur con tutte le sue disgrazie, le sue attese infinite, la sua mala sanità, i suoi personaggi discutibili, forse c'è un'idea di mondo diversa, forse perché laddove non devi pagare niente o quasi, c’è un mondo dove la salute è un tuo diritto.
Il libro parla però anche di tutte le difficoltà che sta attraversando il SSN: una bellissima creatura che soffre, che non è forse in grado di garantirsi un futuro. E ne parla attraverso i suoi interpreti, i medici, gli infermieri, le altre figure professionali che hanno dovuto fare scelte diverse, anche abbandonando il sistema pubblico. Nella analisi del perché di queste scelte (che il libro, non essendo un saggio, non affronta nei dettagli) e nelle decisioni conseguenti è nascosto il futuro di questa straordinaria creatura.
Nonostante tutto, il cittadino Massimo Cirri va in motorino a portare la provetta con il suo sangue a un laboratorio in periferia, non sa cosa dire ai figli, continua a lavorare. Tutte le preoccupazioni gli stanno cascando addosso, ma quella dei soldi per curarsi no. Questa se la può risparmiare. Lo dà per scontato. Tutti lo danno per scontato.
Viene facile pensare agli Stati Uniti, dove ti chiedono la carta di credito anche solo per chiamare l’ambulanza, dove una cura per il cancro può costare 300 mila dollari all’anno. Eppure assistiamo a un continuo attacco politico al nostro SSN. Sì, certo, i politici se ne vantano quando serve, ma gli investimenti sono sempre insufficienti. Certo ci vogliono molti soldi per investire in tecnologie, ma spesso si trascura il capitale umano; i luoghi della salute pubblica sono esteticamente brutti e pure trascurati. Perché li abbiamo lasciati disegnare e costruire in questo modo? La dignità, la bellezza del bene pubblico viene messa in secondo piano e così, automaticamente, viene considerato un bene di seconda classe.
Un intero capitolo è dedicato alla nascita del Sistema Sanitario Nazionale, alle sue radici, a una storia della medicina libera dai soldi che appassiona. Probabilmente è stata un'idea europea: hanno cominciato i tedeschi e poi sono andati avanti gli inglesi e noi siamo venuti dopo, ma abbiamo cercato di perfezionare il modello e abbiamo avuto all'inizio grandi santi protettori, come la ministra Tina Anselmi, che ha creduto nella legge che porta il suo nome, la legge di Riforma Sanitaria, ma soltanto nel 1978 siamo stati in grado di mettere in piedi questo articolato sistema di cure che nasce fondamentalmente dalla Resistenza e dalla nostra Costituzione. Come ci si ritrova, come si riscopre e ricostruisce il bene comune come concetto, come idea, come valore, come atto concreto in un contesto in cui ciascuno è sempre più disabituato al costruire insieme e sempre più estraneo al corpo dell'altro? Questa è una grande domanda che attraversa tutto il libro.
“Siamo più propensi a vedere un ospedale come luogo di sofferenza piuttosto che di cura, ma, come abbiamo potuto vedere in modo dirompente in questi ultimi anni di pandemia, sono le persone, la loro professionalità, competenza e passione a far la differenza nel funzionamento delle strutture sanitarie." Con questa premessa nascono le interviste e il racconto di esperienze che occupano gran parte del libro. In mezzo a tanti eroi quotidiani sconosciuti ai più, ci sono anche personaggi famosi: il dottor Atul Gawande, dell’Università di Harvard, scrittore del New York Times, che racconta le esperienze di salute in un mondo difficile come quello americano. Gino Strada, fondatore di Emergency, che tra le tante lucide intuizioni sul diritto alla salute, si permette di definire (da fuori dal tempo, come potrebbe essere giudicato) la figura del medico, che dovrebbe essere antitetica all'idea di chi guadagna sulla salute degli altri.
L'epidemiologo inglese Sir Michael Marmot che spiega come la vita media sia più lunga in Costa Rica che negli Stati Uniti anche se il reddito pro capite è un terzo e ci sono ancora tante disuguaglianze sociali. Accade perché in quel Paese si è deciso di abolire l'esercito e di investire in salute. Per di più, mai come ora ci accorgiamo che lo sviluppo tecnologico, che ha migliorato il livello delle cure, non è stato accompagnato sempre da quello della gestione delle relazioni di cura, che riguarda la parte umana ed emotiva investita dalla malattia.
Nell’intreccio tra storia privata e storia collettiva, il racconto procede senza strappi. Le relazioni con il mondo esterno diventano sempre più difficili, anche con gli amici perché “Tu, in quella condizione, cominci ad essere ai margini della vita. Sei in una terra di frontiera, ti senti guardato dagli altri come uno che è destinato a diventare cadavere”. E poi l’attesa: una delle caratteristiche di quando stai male. “Aspetti una visita, aspetti l’appuntamento per gli esami, aspetti l’esito, aspetti mentre ti fanno le cure, aspetti di guarire, nel migliore dei casi. Se no, aspetti di morire”.
Nelle pagine conclusive, oltre a una lucida analisi, guidata dalle riflessioni della giornalista Milena Gabanelli, sulla deriva a cui sta andando incontro il nostro SSN, Massimo Cirri si chiede che cosa sia rimasto: “mi è rimasta una secchezza delle fauci… un segno rosso sul corpo... qualche volta non riesco a deglutire… ma non mi è rimasto alcun cambiamento del carattere in meglio. Nessuna capacità di essere più umano, riflessivo, emotivamente intelligente, meno cialtrone.” Al termine del viaggio cosa rimane? “Rimane qualcosa che è tornato fuori violentemente dopo la pandemia: l’angoscia.”
PS Il documentario che nasce insieme al libro si può facilmente scaricare da RAI PLAY.