Italia, niente di nuovo
Profezia fascista
Il 25 ottobre 1932, davanti al Duomo di Milano, Mussolini urlò una delle sue profezie più violente: “Fra un decennio, l’Europa sarà fascista o fascistizzata”. Indispensabili corollari seguivano questo proclama. Il secolo XX sarà un secolo italiano: il terzo primato dell’Italia nella storia. Sarà un secolo fascista. L’antitesi tra New York e Mosca si supera solo “…con la dottrina e la saggezza di Roma”. Nel 1937, mentre perfezionava la morsa della vacuità, del cinismo e della crudeltà insieme ad Adolf Hitler, il Duce trovava il tempo per intrattenere Ciano – suo genero, presunto successore e Ministro degli Esteri – sulla intenzione di scrivere un libro di profezie intitolato “Europa 2000”. A quella data, diceva, solo quattro popoli conteranno nel mondo: italiani, tedeschi, giapponesi e russi. Gli americani saranno spazzati via: rosi internamente dalla presenza di negri ed ebrei (Diari di Galeazzo Ciano, 6 settembre 1937). Questo atteggiamento si accorda a puntino col fatto che nell’anno seguente, il 1938, emanerà le leggi che cominciavano a eliminare i “bianchi non ariani” di religione ebraica; mentre, in quello precedente, il 1936, con bombe e gas tossici l’aviazione italiana aveva già disboscato un po’ di Etiopia da foreste e da razze inferiori perché “negre”.
Mussolini a volte aveva ragione, altre volte no
Mussolini, insomma, era riuscito a prevedere l’esatto contrario dell’anno 2.000: che, nella storia moderna, fu uno dei pochi momenti dominato da un nettissimo monopolarismo del potere nel mondo, proprio quello detenuto dall’America. Ma dire che sbagliava tutto sarebbe una conclusione affrettata. Pur con questi colossali errori di valutazione, il Duce restava un manipolatore della folla non ingenuo. Potremmo quasi considerarlo uno dei fondatori delle teorie sulla massa, insieme a Ortega y Gasset, Freud e Le Bon.
Intorno al 2024 – una data ben più lontana di quelle annunciate – la sua convinzione che l’Europa sarebbe divenuta fascista, o fascistizzata, ha finito col dimostrarsi non così falsa: sia nelle elezioni europee che in diverse votazioni nazionali, partiti populisti, di estrema destra e perfino di derivazione dichiaratamente postfascista si sono avvicinati ai posti di governo. Certo, per quanto riguarda l’equilibrio dei poteri nel mondo la profezia geopolitica mussoliniana rimane capovolta: la gerarchia delle grandi e medie potenze è molto cambiata. Già Napoleone aveva previsto l’arrivo della Cina sul palcoscenico, il Duce non la prendeva neppure in considerazione perché popolata da una razza inferiore (anche se dalla civiltà probabilmente più antica). Da quanto sappiamo oggi, ma sostanzialmente si sapeva già allora, l’unica protagonista ininterrotta dal secolo XX al XXI sembra l’America: che il moderno Cesare escludeva, di nuovo per motivi razziali. Nel valutare i ruoli internazionali di ogni paese, il dittatore ha “proiettato” la propria posizione provinciale come se fosse l’occhio centrale del mondo. Da relativi, ha reso assoluti il proprio razzismo, insieme al suo egocentrismo, all’italocentrismo e all’eurocentrismo. L’uomo della strada commette questi errori in ogni epoca. Ma i dati fondamentali delle nazioni sono conoscibili e un capo di Stato dovrebbe tenerne conto: così dovrebbero fare anche le classi dirigenti, che nella maggioranza accettarono il Duce come male minore. Nella seconda parte dell’Ottocento e nella prima del Novecento, gli Stati Uniti raddoppiavano il loro Prodotto Lordo ogni 30 anni o anche più rapidamente: mentre all’Italia l’uscita vittoriosa dalla Prima Guerra Mondiale e il ventennio successivo di fascismo avevano portato solo una crescita modestissima. Di questo, però, si teneva poco conto, probabilmente perché si adottava una prospettiva storica “lunga”: che differenza fa una generazione un po’ sonnacchiosa all’interno dei millennii di Roma?
Notiamo a questo punto una netta divaricazione tra due Mussolini.
Il velleitario statista, che pensa di inaugurare una politica di forte consenso all’interno e di proiettare forza in quella estera, si rivela un sentimentale accecato dalle adulazioni. Al tempo stesso, non va però disprezzato quale conoscitore della psicologia di massa, o per esser più precisi come profeta del populismo. Soprattutto in un paese come l’Italia corrisponde al proverbiale nano salito in spalla ai giganti, che può vedere da lontano l’inconscio collettivo del XXI secolo.
In modo semicosciente, anche Mussolini sentiva infatti che l’Italia non è tanto una entità istituzionale dell’Europa mediterranea, e forse neppure un preciso e rispettato soggetto politico moderno, quanto un insieme geostorico più identificabile di qualunque altro; contemporaneamente, è una realtà culturale rispettata e ammirata in modo forse più incondizionato di ogni altro paese nell’intero Occidente: cioè nell’intero globo, che si è riplasmato in una sua appendice (il processo chiamato globalizzazione). A sua volta, il resto del mondo, anche quando a parole lo odia e lo vuol distruggere, ha in pratica l’Occidente come suo riferimento: l’Iran si atteggia a contropolo degli Stati Uniti, ma per essere credibile la sua priorità è possedere l’arma nucleare, proprio la creazione che ha attribuito all’America lo status di superpotenza.
Dopo il fascismo
Dopo il fascismo, tanto è cambiato. Non il fatto che, nella relazione tra l’Italia e il resto del mondo, per gli stranieri le qualità estetiche del paese e l’amabilità della popolazione siano fra le più valutate; mentre lo Stato italiano, la sua politica, le sue istituzioni siano considerati fra i meno affidabili. Poiché il fascismo fu la prima fra le dittature di estrema destra del secolo scorso, in quasi tutta la storiografia esse sono riassunte nell’appellativo “I fascismi”. Poiché oggi i populismi paiono il punto di arrivo di uno spostamento a destra di tutti gli equilibri politici dagli anni ’70-’80, si è tentati di considerare non casuale il fatto che l’Italia sia stato nel XXI secolo il primo dei paesi maggiori a farsi guidare da un governo che include un gruppo di derivazione posfascista.
Ciò che in Italia un secolo fa ha fatto da apripista al fascismo e oggi lo fa al populismo corrisponde a quello che, già nell’Ottocento, il grande linguista Ascoli chiamava scarsa “densità” della cultura. Come in tutti i paesi sviluppati, in Italia sono presenti dei grandi pensatori. Ma sotto di loro non sta un “denso” ceto di intellettuali – meno celebri o semplicemente più giovani – che li colleghino alla maggioranza della popolazione, assicurando un rinnovamento vivace e costante del pensiero. La cosa è riflessa nei decenni dalla vendita dei libri. Come in ogni paese, esiste in Italia una classe di lettori forti. Scarso è invece un “ceto medio” della lettura che faccia da ponte fra queste persone colte e quella grande massa che legge un libro all’anno o anche meno. Una fragilità dell’amalgama culturale che si riflette in un suo ricambio più lento. Scorrendo i cognomi dei partecipanti ai convegni, degli autori nei cataloghi delle case editrici o quelli delle produzioni cinematografiche e teatrali è ancor più facile che in altri paesi notare che molti si ripetono. Si tratta del conservatorismo sostanziale della trasmissione ereditaria del potere, non espresso in cifre economiche, noto come dinamica del nepo baby.
La precarietà degli anelli di congiunzione tra l’alto e il basso dell’insieme sociale in Italia si ripete in campi diversi. Dalla storiografia militare apprendiamo che, con forze armate incomparabilmente inferiori a quelle italiane, nella Grande Guerra l’Austria sorprese il mondo resistendo per anni. Anzi, sfondò il fronte a Caporetto soprattutto per un motivo: insieme a quelli tedeschi, i suoi corpi ufficiali e sottufficiali – il ceto medio dell’esercito – funzionavano decisamente meglio soprattutto per un motivo: non erano separati dalla truppa come in Italia, vi si accedeva per titoli di studio o per merito.
Paradossalmente, lo scarso amalgamarsi culturale della popolazione italiana in un insieme coesiste con una stabile strutturazione socio-geografica apparentemente opposta. Quello che chiamiamo Italia ha una identità definita e costante nei secoli a causa di realtà territoriali che producono attaccamento e qualità della vita soprattutto locali, malgrado le debolezze e la instabilità delle istituzioni. Italia vuol dire da secoli prevalenza dei ceti medi nelle città di medie dimensioni. Dove si vive bene, o persino molto bene: quindi, dove non è diffuso molto desiderio di cambiamento.
A queste specificità che rendono l’Italia relativamente paciosa e vi attraggono turisti, va poi aggiunta una involuzione che riguarda invece tutto il globo. All’incirca dal passaggio del millennio, tutti i paesi che lo misurano segnalano nei loro abitanti una continua diminuzione del Quoziente di Intelligenza (I. Q.). Non è nostro compito ora ricordare che lo I. Q. misura delle abilità, e non precisamente quella cosa poco afferrabile che chiamiamo intelligenza. Tanto meno entrare nella irrisolvibile discussione sulle sue cause: trattandosi di un crollo che riguarda tutta l’umanità, è ridicolo pensare di assegnarle una causa. Tuttavia, con sufficiente ragionevolezza possiamo fare una constatazione. Questo calo del Quoziente di Intelligenza, insieme a molti indici di difficoltà scolastiche dirompenti degli ultimi decenni, se non conseguenti sono quanto meno contemporanee alla diffusione di internet. E, ancor più, dei “social”. È stato verificato anche sperimentalmente come gli indici di lettura tradizionale (giornali e libri cartacei), i tempi di concentrazione o di attenzione in attività mentali non meccaniche, siano inversamente proporzionali al tempo passato davanti agli schermi. Pur non potendo dimostrarlo letteralmente in laboratorio, ha senso considerare le nuove patologie giovanili – dal “ritiro sociale” alla massiccia “recessione sessuale” (ne ho trattato in Il declino del desiderio. Perché il mondo sta rinunciando al sesso, Einaudi, 2022) – esplose nel XXI secolo siano estensioni del Paradosso di Internet già segnalato alla fine del XX: in una fase iniziale, l’avvento di internet ha esteso enormemente e a basso costo le conoscenze degli uomini. Superata una certa soglia, però, i suoi contenuti e impieghi (soprattutto i social usati individualmente) si sono fatti così numerosi e pervasivi da accrescere invece la confusione.
A questo punto possiamo trarre con relativa sicurezza due conclusioni.
1. In Italia il populismo e la svolta verso una destra radicale hanno caratteristiche più precoci e nette che nella maggior parte dell’Occidente perché vi si trova anche il loro precedente storico assoluto: il fascismo, che privilegiava l’azione rispetto alle analisi politiche. Anche il populismo si comporta così: lancia urla e insulti piuttosto che programmi. Un comportamento che richiama tanto le “squadracce” del ventennio quanto l’uso rapido e aggressivo dei social nei giovani ansiosi di oggi
2. Nella maggioranza dei paesi, l’indipendenza mentale si è fatta più fragile, soprattutto fra i più giovani. Più isolati, insicuri e dipendenti di un tempo, essi rischiano di aver competenze politiche sempre più fragili, quindi di favorire i populisti sia votandoli direttamente, sia indirettamente, attraverso l’assenteismo.
Con la crisi ambientale senza precedenti, col disfacimento dei legami occidentali che avevano assicurato un certo livello di benessere e stabilità, una nazione non autosufficiente come l’Italia avrebbe bisogno di accrescere la sua integrazione europea e la collaborazione internazionale. La svolta populista porta invece in direzione opposta, verso localismi e addirittura ritorni di nazionalismo, accentuando i mali e la dipendenza del paese dagli equilibri altrui.
Populismo oggi
Populismo è antipsicologia e antistoricità.
È strutturalmente contrario alla psicologia perché non si dirige al pubblico con ragionamenti, ma con un invito alla semplificazione che eviti al populista la fatica di pensare in modo autonomo. L’analisi politico-sociale è ridotta al minimo.
In quello che è considerato il fondamento critico dello studio moderno sulle nazionalità (Ernest Renand, Che cos’è una nazione? In: Che cos’è una nazione? e altri saggi, Donzelli, 2004), Renand aveva messo subito le cose in chiaro. Una nazione comincia a formarsi quando un gruppo ha molte memorie in comune: ma, al tempo stesso, quando condivide anche molte dimenticanze. Non solo il ricordo, ma insieme ad esso l’oblio sono le condizioni necessarie per il formarsi di un gruppo nazionale.
Restando nella grande tradizione francese, anche il filosofo della storia Ricoeur ha attribuito un ruolo fondamentale all’oblio. Nella sua ispirazione di cristianesimo vissuto, dimenticare e perdonare sono le due dinamiche che accompagnano lo scorrimento del tempo storico (Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003, Parte Terza).
Non solo oblio, ma alterazione. Non da oggi, ma da sempre
Di nuovo, sono ben lontano dal parlarne per dibattere i processi di storicizzazione. È sufficiente ricordare che due fra i più citati commenti di filosofia della storia, questi di Renand e Ricoeur, prevedano già come sua piattaforma che la elaborazione della storia consista anche nell’oblio.
Fra i grandi paesi dell’Occidente, proprio la memoria ufficiale dell’Italia si distingue per essere molto manchevole su temi centrali che servono a chiarire il presente. Non esiste un museo della colonizzazione italiana: anche se essa fu attuata con procedure e detenzioni che storici autorevoli hanno chiamato genocidari; e che avrebbero dovuto trovare il loro sbocco in un “Processo di Norimberga all’Italia”, evitato al paese non perché fosse innocente, ma per attrarlo dalla parte degli Alleati quando iniziava la Guerra Fredda. Non esiste un museo del fascismo, anche se la Costituzione su cui si basa il paese dice che la sua riorganizzazione è vietata in qualsiasi forma: e il cittadino avrebbe il diritto di sapere perché. Leggi successive vieterebbero l’esposizione pubblica di simboli fascisti. Ma mentre ricordo di aver visto da bambino eliminare con lo scalpello addirittura i minuscoli fasci che decoravano le cassette della posta, quelli più maestosi sono esibiti dall’autorità pubblica. Al centro della città, il Monumento alla Vittoria di Bolzano è sorretto da colonne neoclassiche alte come diversi multipli della persona umana e costruite a forma di fascio. Questo monumento è stato inaugurato nel 1928. Terminato il fascismo, vi è stato cancellato il nome di Mussolini, ma il resto è rimasto intatto. Musei o esposizioni complete sul fascismo sono dunque mancati da quando è andato al potere ad oggi. Nel 1989 la Televisione Britannica (BBC), spesso considerata la più obiettiva del mondo, ha mandato in onda una serie in due puntate denominata Fascist Legacy (Eredità fascista). In essa, con filmati e reperti d’archivio originali del fascismo, si documentavano i crimini di guerra da processare nella “Norimberga italiana” e i motivi per cui questa non si era mai svolta. La Rai ha acquistato il documentario: ma per non trasmetterlo mai.
Dalla fine della Prima Guerra Mondiale, l’urbanistica delle città italiane ha subito un radicale rovesciamento di denominazioni per commemorare quella che papa Benedetto XV aveva chiamato “inutile strage”. Per quanto i nomi geografici in sé non possano essere né falsi né veri, il loro significato è insincero. Vittorio Veneto si chiama così per celebrare l’ultima battaglia e l’ultima vittoria: ma in sostanza non vi furono né l’una né l’altra. Più onnipresente di ogni altra manipolazione è il Bollettino della Vittoria del generale Diaz: secondo il più autorevole degli storici del fronte italiano, un “falso resoconto che non venne mai messo in discussione” (M. Thompson, La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1918, il Saggiatore, 2009, p. 385).
Riassumo osservando che, come tutti i rapporti col proprio passato collettivo, anche quello degli italiani è composto tanto di memoria quanto di oblio. In un certo senso, l’intera sezione dal capitolo 19 al 29 del mio ultimo libro Narrare l’Italia. Dal vertice del mondo al Novecento (Bollati Boringhieri, 2024) presenta cerca di mostrare – citazioni alla mano – come raramente si alterò il passato per semplice e umano oblio, ma piuttosto per puntellare costruzioni immaginarie che facevano comodo. Certo, questo avvenne anche in altri paesi dell’Occidente: ma mai al punto che la costruzione immaginaria divenisse l’unica narrazione del paese.
L’attuale governo italiano è formalmente molto nuovo perché ispirato a una coalizione di destra senza precedenti. Ma qualunque simbolo fascista che esso possa impugnare non va addebitato ad esso: non è stato recuperato in una cantina, perché esisteva alla luce del sole. Il Rapporto sulla libertà di stampa nel mondo di RSF situa l’Italia al 46esimo posto: non solo dopo i paesi europei, ma preceduta anche da diversi stati dell’Africa e dell’America Latina. In una posizione così discutibile non si scivola dall’oggi al domani. Il populismo italiano di oggi si sviluppa sullo stesso terreno poco profondo che aveva alimentato il fascismo. Sincronizzata con un frequente attendismo italiano, questa composizione del terriccio in cui ogni pianta mette radici non è variata molto rispetto a quella che un secolo fa lo ha generato, dunque produce frutti molto simili:
«… Il populismo coagula, in virtù di una particolarissima e specifica combinazione di circostanze interne e internazionali, tutta una serie di elementi sparsamente reperibili nella tradizione italiana [...] nulla è nel populismo quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella politica italiana, tranne il populismo stesso».
(Parafrasi da: G. Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983, p. 125. Mi sono limitato a sostituire la parola “fascismo” con “populismo”.)