Desiderio / L’economia è psicologia o non è
Un articolo di Nicole Janigro su Doppiozero si intitola Quando l’economico è psichico. Non ho nulla da aggiungere al contenuto, che condivido in modo completo. Mi permetto solo una correzione al titolo. Quando l’economico è psichico sottintende che i fatti economici possano essere tutt’uno con quelli psicologici, oppure non esserlo. Penso si debba invece togliere il “quando” e affermare, semplicemente: L’economico è psichico. Anche più direttamente: L’economia è psicologia o non è.
Il valore e il prezzo di un bene derivano dal fatto che lo desideriamo. E il desiderio – come ricordava Janigro – è un evento psichico. Lo studio dell’economia può esser diviso in due filoni: quello di Adam Smith che indica la via del libero mercato e quello di Karl Marx che propone un controllo statale dei mezzi di produzione, chiamato comunismo.
Facciamo una prima osservazione che riguarda la cronologia. L’economista scozzese vive nel settecento; quello tedesco nell’ottocento, con l’industrializzazione già in atto. Potremmo pensare che capisca meglio la modernità. Invece, nella post-modernità sembra che il libero mercato stravinca. Aggiungiamo una seconda osservazione. Dove è stato applicato, il comunismo marxiano è scomparso (Dei comunismi pre-marxiani, quello platonico non venne tentato neppure dai contemporanei perché troppo utopico, mentre quelli delle società precolombiane sono stati annientati con le loro culture dalla invasione europea).
Due società totalitarie hanno percorso il XX Secolo: quella comunista e quella fascista. È vero che la prima è arrivata a dominare mezzo mondo: ma in breve tempo è implosa per disfunzionalità interne e non ne è pensabile una ricostruzione (La Cina, che diverrà la maggiore economia del mondo fra pochi anni, si chiama ancora “comunista”: ma, se osservate la faccia di chi la conosce, noterete un impercettibile sorriso quando aggiunge questo aggettivo).
I fascismi, invece, sono esplosi sotto la più devastante sconfitta militare di ogni tempo: eppure, confermando l’atroce aggettivo eterno con cui li ha qualificati Umberto Eco, man mano che la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale si allontana nel tempo, vengono sostanzialmente resuscitati in ogni continente e sotto ogni regime. Nella stessa Russia viene glorificato un passato comunista: di cui però si ripropone non l’economia solidale, ma la tirannide di governo staliniana, che ricalcava (v. Bullock, Souvarine, Tucker, Schlögel) il modello nazi-fascista.
Qui siamo oggi, al finale del secondo decennio del terzo millennio. Dei due ideali economici – ugualitario e liberoscambista – il primo è sprofondato, lasciando il mondo orfano nella sua ricerca di equilibrio. Proprio come ci direbbe il modello proposto da Jung, separare troppo due polarità causa squilibrio psichico, sia nell’individuo sia nella collettività. Il mondo comunista si era rivelato sempre più inadeguato: eppure la sua esistenza attivava costantemente nel discorso politico fantasie mentali correttive del “mercato selvaggio”. Siamo dunque oggi non solo squilibrati nelle singole politiche economiche, ma impoveriti nell’immaginario collettivo su cui esse crescono.
Fino al 1989, i paesi scandinavi appartenevano all’Occidente e ne godevano le libertà, ma avevano realizzato correttivi sociali e fiscali così incisivi da svuotare qualunque desiderio (ancora desiderio) di appartenere al blocco comunista. Anche l’Italia, prima dello stesso centro-sinistra, viveva in una economia mista, con forti correttivi statali: l’azienda pubblica ENI controllava il mercato degli idrocarburi già sotto De Gasperi e competeva vittoriosamente per il mercato mondiale con le Sette Sorelle, spezzando il loro oligopolio. Chi se lo permetterebbe oggi? Persino gli Stati Uniti avevano sperimentato, apprezzato e a lungo mantenuto le proposte di Keynes: una terza via in cui lo stato corregge il mercato con immensi investimenti. Negli anni ’30 la “mano invisibile del mercato” – principio centrale di Smith, che è a sua volta essenzialmente psicologico – era guidata da una mano più forte e posta più in alto: quella di Roosevelt. Oggi, invece, i programmi che chiedono rinunce per dare la precedenza al sociale sono popolari come quelli che prevedono la castità.
Le più importanti rilevazioni sullo stato del mercato sono quelle che misurano non tanto le quantità dei beni, quanto il sentiment (parola inglese profondamente psicologica, ben più del banale feeling) degli operatori. Dunque, anche il grande capitalista investirà il suo denaro dove si è convinto che si getterà il desiderio di molti. Cos’altro fecero Valletta e Agnelli se non prevedere che l’italiano medio era pronto a disertare le chiese, ma per entrare dai concessionari auto? Si trattò di una predizione/profezia corretta, benché antireligiosa: la seicento non era mai esistita prima, eppure intuirono che il proseguimento della libertà dal fascismo non stava tanto in una società più giusta quanto in una libertà di movimento.
Ora l’auto sta tramontando nella gerarchia dei desideri. Ce ne sono anche troppe. L’economia di mercato ipotizza le utilità marginali decrescenti. Una idea semplice. L’utilità di ogni dose aggiuntiva (detta quindi “marginale”) di un bene diminuisce con il loro accumularsi. In un paese che ha fame, un piatto di pasta al giorno è fondamentale. Fino a tempi non lontani, in Italia era così. Ma due piatti? Sono meno essenziali, ma importanti. Tre, dieci, cento? Diventano una seccatura, quindi uno stato d’animo negativo: un anti-desiderio. Questa reazione, però, varia a seconda del tipo di beni: paradossalmente, gradisco grandi quantità di quelli meno utili. L’oro non si mangia: ma se, invece di un grammo, ne accumulo cento comincerò a conoscere l’avidità.
La scuola economica classica fece un altro passo e postulò: l’utilità marginale di un bene decresce, più o meno rapidamente (una persona vanitosa può apprezzare una grande quantità di scarpe anche se ha solo due piedi). Ma quella del denaro – e dei mezzi di pagamento – rimane costante: chi lo possiede sa sempre cosa farsene. Come molte astrazioni delle teorie liberoscambiste, questa schematizzazione, che ritiene di includere la psicologia, è in realtà piuttosto rigida, quindi antipsicologica (la psiche è base auto-conoscitiva della individualità: per questo si trova in sintonia con le libertà di scelta, mentre prima o poi contraddice i modelli uguali per tutti). Con i loro immensi mezzi, i superricchi del XX Secolo hanno comprato altre aziende, effettuato altri investimenti, diventando sempre più ricchi (mentre per loro le tasse e gli altri ostacoli diminuivano, come ho spiegato nel testo Utopie minimaliste). A un certo punto, però, hanno cominciato a soffrire di nausea (altra condizione che spiega come l’economia sia un evento più psicologico che contabile). Da qui è nata la Pledge di Buffett, Gates ed altri: doneremo il 99% del nostro patrimonio in beneficenza. Il loro ragionamento – quindi il processo psicologico retrostante – è abbastanza sensato. La figlia di Zuckerberg riceverà solo 450 dei 45.000 milioni di dollari raggiunti dal patrimonio del padre. Tuttavia il suo rischio principale resterà il soffrire di una nausea da benessere, più che di mancanze: in sostanza, di nuovo di un problema psicologico.
La teoria dell’utilità marginale, costante per il denaro, non è tanto un elemento tecnico e asettico, quanto un pilastro ideologico del mondo liberista che abbiamo ereditato dalla Scuola di Chicago, poi dal potere di Reagan e Thatcher. Suppone che il denaro sia neutro e che, con la loro esperienza, i miliardari sappiano usarlo meglio della media della popolazione, così ne beneficerà la società: crede quindi che sia meglio porre loro pochi limiti, per esempio poche tasse se vogliono lasciarlo ai figli. La società a economia mista, scandinava, keynesiana o democristiana, tende invece a un più esplicito moralismo: ritiene che i superricchi userebbero il denaro egoisticamente, mentre lo stato può impiegarlo in modo più giusto. Una idea convincente, ma che trova molti limiti nel “principio di realtà”, da Freud ritenuto essenziale per portare qualunque psicologia nel mondo: lo stato può essere corrotto quanto le persone, e per giunta più inefficiente di loro. Alla fine dei conti è composto da individui e deve includere le loro umane debolezze.
La teoria dell’utilità marginale del denaro va ormai aggiornata. Alla fine del XX Secolo, H.M. Enzensberger ha avuto una intuizione fondamentale anche per l’economia. Nel prossimo secolo, ha detto, sarà ricco non chi avrà molti beni, ma chi riuscirà ad avere ancora tempo libero. In un attimo, ci siamo tutti accorti che aveva ragione. Qualunque ricchezza permette qualche risparmio di tempo: ma sempre insufficiente rispetto alla crescente complessità della vita a ritmo digitale, anche per chi dispone di infiniti mezzi. I migliori cuochi fanno la spesa e cucinano per te: ma non riducono il tempo necessario a mangiare. Valendosi dei migliori consulenti, chi ha mezzi può comprare infinite aziende e immobili, anche senza visitarli: ma non eviterà di leggere e firmare i contratti, che potrebbero poi tormentarlo con i loro aculei tutti i 365 giorni dell’anno.
In sostanza, la teoria neoclassica andrebbe riformulata così: anche l’utilità marginale del denaro decresce. Resterà costante, invece, il moto psichico distorto che sostituisce il desiderio e si chiama avidità. Parallelamente, però, cresce in progressione geometrica l’utilità marginale del tempo. Questa segue una perversa, nuova tendenza. Una volta, la preziosità delle ore aumentava per chi era vicino alla morte. Un risultato dell’era digitale è, invece, il costringerci sempre a qualche attività, anche dopo il lavoro, anche a casa. Il tempo libero e disponibile si fa quindi sempre più scarso. In questo modo, persino i giovani e i sani cadono nella frenesia di completare oggi, ora, subito, quel gesto (digitale): un’angoscia prima riservata solo a chi era al fronte o ricoverato fra i malati terminali. Sebbene in forme irriconoscibili, arriva un’ansia di morte, ben prima di morire, ogni giorno e per tutti.