Un classico di Richard Hofstadter / Lo stile paranoide nella politica americana
Richard Hofstadter
Come il nome immediatamente ci ricorda, gli Hofstadter erano ebrei tedeschi. Emigrati negli Stati Uniti ben prima che il nazionalsocialismo trasformasse il cambio di continente da opzione in necessità di sopravvivenza. Richard soffrì comunque di esclusione sia come ebreo sia perché da giovane era marxista. A metà del secolo scorso, in America l’antisemitismo era diffuso non solo fra i populisti, ma in tutti gli strati sociali; mentre un comunismo americano, che oggi suona come un ossimoro, era frequente fra gli intellettuali.
Richard Hofstadter non ci ha lasciato molti scritti: morì a soli 54 anni. Eppure l’Encyclopedia Britannica lo ricorda come un pioniere negli studi sul populismo. Più precisamente, fu precursore di molti sguardi che ci appaiono necessari o addirittura scontati per la comprensione del Secolo XXI. Hofstadter abbandonò presto le rigidità mentali del materialismo storico e delle altre ideologie diffuse nel novecento, immergendosi nella complessità e fluidità sociale americana.
Soprattutto, per studiarla utilizzò a fondo e con coerenza l’analisi della psiche collettiva, negli Stati Uniti ben divulgata dalla scuola di Francoforte. Il suo occhio scorreva con lucidità sull’inconscio collettivo. Il quale nella prosperità ma anche nei veloci cambiamenti degli anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale in America si lasciava afferrare da processi mentali archetipici vecchi come l’umanità. La ricerca del capro espiatorio è infatti un rito presente nelle epoche e culture più diverse. Antropologia e psicoanalisi ci dicono che, di fronte a rinnovamenti radicali, proprio questa sottotraccia riappare con facilità, soprattutto nei gruppi economicamente e culturalmente più fragili. L’impulso verso un sacrificio purificatorio, strutturale in società premoderne, si ripresenta nelle crisi senza precedenti del XX Secolo: è sempre molto forte, e poco conta che i suoi argomenti siano molto deboli. Hitler non tentò neppure di dimostrare che c’era un “complotto degli ebrei”: lo affermò e basta. Molti disoccupati tedeschi lasciarono il socialismo e gli credettero. Non perché il nazionalsocialismo avesse degli argomenti validi, ma perché i più insicuri avevano bisogno di una psicoterapia di gruppo e il sacrificio collettivo costituisce la sua forma più antica e universale.
Uno “stile” americano
Nel 1950, con un processo di simile, agghiacciante semplicità Joseph R. McCarthy raggiunse negli Stati Uniti una popolarità stellare. Secondo il senatore repubblicano, essi erano minacciati da un complotto (conspiracy) comunista che aveva infiltrato le strutture pubbliche e si preparava a prendere il potere (Lo stile paranoide nella politica americana, pp. 50-51). Fateci i nomi dei cospiratori!, insistevano a domandare nelle conferenze-stampa. Impossibile, replicava il maestro in paranoia, perché si tratta di un complotto segreto, per definizione non conoscibile nei dettagli: ma va preso estremamente sul serio perché sta crescendo. Se cresce il numero di chi è coinvolto – replicava la stampa prima o poi li potrà almeno identificare. No: perché, quando tutte le forze politiche sono già implicate, tutti sono ormai o complici o troppo spaventati per denunciare il complotto. Insomma: non si usciva dal circolo vizioso.
E non se ne esce mai perché il processo mentale paranoico è circolare.
Ciò che alla mente ragionante appare una controprova, viene risucchiato nel processo persecutorio e trasformato in una sua convalida: proprio il fatto che non riusciamo a trovare i congiurati dimostra che la congiura è ormai dappertutto! Intanto, gli intellettuali dovevano apparire davanti a commissioni d’inchiesta per sospette “attività anti-americane”: è significativo come un altro, fondamentale saggio che Hofstadter ci ha lasciato si intitoli Anti-intellectualism in American Life (Vintage Books, New York 1963). Dal fatto che il suo studio riguardi non il disturbo mentale, ma lo stile paranoico discende una conseguenza: esso “…ha più a che vedere con il modo in cui le idee vengono credute e propugnate che con la verità o falsità del loro contenuto” (Lo stile paranoide nella politica americana, p. 14). In tale discorso l’esposizione di un argomento politico è rozza, non stimola un ragionamento, mira al contrario alle emozioni poco coscienti e alla “pancia” del pubblico. È tipica dei movimenti di estrema destra. Ma questo non esclude che sia usata anche da gruppi politici più maturi. Quello che Hofstadter chiede al lettore è di stare in guardia, quando incontra questo stile. Gli domanda di diventare sospettoso: quindi, un poco paranoico a sua volta.
[La traduzione del testo Adelphi è ottima. Personalmente, tuttavia, spesso preferisco tradurre paranoid non con paranoide ma con paranoico. Sia perché, come capita, la traduzione letterale non è possibile; sia perché l’aggettivo modale “paranoide”, se è necessario nel titolo, tende a diluire il senso del tema: i personaggi storici che ora nomineremo non facevano solo ricorso a uno “stile”, a una “modalità”. Erano, letteralmente, paranoici]
Paranoia e società
In sé, gli assunti di partenza del pensiero paranoico possono sicuramente avere un minimo di plausibilità. Non per nulla, già nell’ottocento la paranoia è definita dalla psichiatria francese “folie lucide”: follia dotata di una certa lucidità. Quello che la fa appartenere chiaramente ai disturbi mentali è la magnificazione incontrollata del suo argomento, che diventa una verità assoluta, spesso un credo fanatico: il quale smuove masse a loro volta bisognose di credere. Tra gli anni ’20 e i ’30, gli ebrei erano circa l’1% della popolazione tedesca, ma possedevano certamente più dell’uno per cento del capitale bancario. Era vero dunque che, nella finanza, disponevano di un potere più che proporzionale al loro numero. Ma non era così in politica, e ancor meno nelle Forze Armate: far discendere da quella premessa l’idea che cospirassero per dominare il paese era non solo infondato ma calunnioso e criminale, perché attraverso falsi sillogismi promuoveva una sete di sangue.
Anche oggi, in Italia, affermare che l’immigrazione porta una serie di problemi è quasi una tautologia: molti immigrati sono illegali ed è ovvio che, alla fine dei conti, commetteranno più illegalità dell’italiano medio. Falso è, invece, sostenere in partenza che quei problemi superano sempre i loro benefici per la società: una parte molto significativa delle attività italiane si fermerebbe, senza il contributo degli immigrati.
In sostanza, capire la paranoia è fondamentale non solo per lo psichiatra, ma per il cittadino comune che cerchi di comprendere la società in cui si muove, e di agire di conseguenza. Tutti i principali disturbi della mente – schizofrenia, depressione sono, per chi ne soffre, motivi di esclusione sociale. La paranoia, invece, può addirittura moltiplicare il successo di chi ne soffre: si pensi a Hitler o Stalin. Solo a questo proposito viene da notare che Hofstadter scrivendo più di mezzo secolo fa e non avendo previsto Trump ha peccato di ottimismo: a differenza del leader paranoico europeo, notava: “In America è stato lo stile prediletto solo di movimenti minoritari.” (p. 17). Nel Secolo XXI non è più così.
Anche l’uomo della strada si accorge quando viene a contatto con una psicopatologia tradizionale come schizofrenia o depressione: e ne rimane spaventato, impietosito, allarmato. Se incontra invece un paranoico lucido e dialettico, il cittadino semplice può rimanerne sedotto e gradualmente convinto. Oltre che a circostanze politiche favorevoli, Hitler e Stalin dovettero il loro successo a questa pericolosissima capacità di contagio della paranoia. Anche essa è una caratteristica unica, fra le patologie mentali: il pensiero paranoico infetta. Senza entrare nel tema, questa considerazione ci fa già intuire per quale via, negli ultimi due anni, il contagio da Covid e quello paranoico si siano rinforzati a vicenda. Il virus non è visibile: ma ispira un immaginario persecutorio di congiurati che vogliono spargerlo; o che si sono inventati la sua esistenza per dominarci con leggi sanitarie repressive (è interessante come questa fantasia sia particolarmente diffusa nei gruppi neofascisti: cioè presso quelli che abitualmente vorrebbero proprio più leggi repressive).
Hofstadter e il XXI Secolo
Verso la fine del secolo scorso, Harvard University Press ripubblicò The Paranoid Style in edizione tascabile. Dietro consiglio di un collega americano, ne comprai subito una copia: come capita, finì intatta in una pila sulla scrivania. Vivevo, però, a New York il giorno undici settembre del 2001. Così, se io non mi ero ancora rivolto verso la paranoia, fu lei a venire da me. La novità non fu, infatti, l’undici settembre: chi s’interessava al tema, sapeva bene che c’erano gruppi integralisti islamici. Si potevano leggere in internet i proclami deliranti di Al Quaeda, che aveva già aggredito in diversi modi gli Stati Uniti, addirittura le stesse Torri Gemelle. La vera novità fu quindi non l’undici, ma il dodici settembre. Il linguaggio della paranoia contagiò tutti i mezzi di comunicazione. E, in buona misura, anche i miei colleghi psicoanalisti, che dovrebbero avere il compito di studiarla, non di praticarla in prima persona. E tutta la mia famiglia: incluso, ovviamente, me stesso.
Vidi nascere delle “leggende metropolitane” in tempo reale. Abitavamo vicino al principale serbatoio che riforniva Manhattan di acqua potabile. Senza che giornali o TV vi avessero accennato, si mormorava che i terroristi lo avrebbero avvelenato: dai supermercati sparì l’acqua minerale. Una seconda voce diceva che lo avrebbero riempito di LSD. Era più ricca, simbolica, psicologica: stavamo allucinando, per contagio non chimico ma paranoico. Al quel punto, mi abbeverai con Hofstadter, poi con tutto quanto era disponibile sulla paranoia, infine con gli episodi storici in cui essa si manifesta nei modi più evidenti.
La paranoia, in sostanza, ben più che uno specifico problema della psicopatologia, è un problema morale. Anzi, il problema centrale di ogni etica: il rapporto col male. Il paranoico, per lo più, è negato alla psicologia. Manca di introspezione. Il fatto che non sappia guardarsi dentro, però, non lo esime dal confronto col male, centrale per ogni individuo. Semplicemente, col processo paranoico il male viene proiettato all’esterno: riguarda sempre gli altri. La più bella recensione del mio testo Paranoia, di cui dico fra poco, è stata quella di un collega spagnolo che l’ha intitolata Prigionieri della certezza.
Passiamo dall’individuale al collettivo. Se usiamo il DSM (il manuale diagnostico della psichiatria, americano ma usato in tutto il mondo) possiamo diagnosticare Hitler come gravemente paranoico. Tuttavia, le avvertenze di questo testo dicono che i criteri permettono diagnosi individuali: se i processi mentali paranoici appartengono a un gruppo, la definizione clinica non è più valida. In questo modo, tutta la dirigenza nazista se la cava a buon mercato: la condivisione politico-ideologica delle paranoie collettive non dovrebbe toglier loro gravità, ma accrescerla. Alla base di questa assurdità sta il fatto che la psichiatria occidentale si occupa dell’individuo: per questa via i deliri collettivi scompaiono, anche se hanno ingoiato l’intero Secolo XX.
Balza agli occhi come lo sfondo storico-culturale degli Stati Uniti possa incoraggiare il processo paranoico. Notiamo subito la loro permanente matrice puritana. E puro significa separato dal male. Così, il paese si è formato sterminando i nativi o chiudendoli nelle riserve; e incatenando gli africani, per poi separarli in quartieri cittadini diversi da quelli bianchi. Tutto l’opposto della dinamica con cui è nata l’America Latina. Questa ha una matrice cattolica. Il che significa accettazione del male come presenza quotidiana. Il rimedio non è la separazione netta da esso, ma riconoscerlo come inerente e confessarlo con regolarità. Il risultato è un continente misto dalle sue origini. Già dal 1500, i conquistatori, uomini soli, peccavano con le donne native senza sposarle. Ne è derivata una popolazione composta da centinaia di milioni di meticci. Ma, un po’ come in Italia, senza troppe aspirazioni ad una astratta purezza. Questo flessibile rapporto col male mette – parzialmente – al riparo da alcune manifestazioni paranoiche.
Libri e paranoia editoriale
Torniamo al mio studio sulla paranoia.
Dieci anni dopo l’undici settembre avevo pronto un libro sulla paranoia (Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, Torino 2011). Poiché questa forma mentale è auto-replicante, autotropica, il tema si era rivelato quasi inesauribile e il testo era ben più lungo di quanto avessi inizialmente immaginato. Contrariamente ai miei timori, e alle tendenze editoriali, questo non solo non impedì la sua circolazione, ma la favorì: lo fece considerare esaustivo e fu alla base di diverse traduzioni. Sono per esempio convinto che l’edizione francese sia stata trainata dal fatto che l’aggettivo paranoïaque, e addirittura il neologismo parano, si leggano sempre più di frequente nei commenti politici, anche nella stampa di qualità come Le Monde. Quanto alla lingua inglese, è stato uno spartiacque per Hofstadter, e per me, il fatto che il 16 marzo 2017 nel titolo di prima pagina del New York Times uno dei massimi commentatori americani, Ivan Krastev, abbia detto che in politica la paranoia stava sostituendo l’ideologia.
Inevitabilmente, questa sintonia di idee non è assoluta nel mondo. Il mio editore russo, a un certo punto del lavoro di traduzione, mi scrisse una mail imbarazzatissima. Inondandomi di scuse, diceva che, arrivati a metà, si erano resi conto di come il testo dedicasse ampio spazio a figure storiche “ancora molto popolari in Russia”: e il comitato editoriale, dopo lunghe, penose discussioni, aveva deciso di non pubblicarlo. Penoso era anche per me leggere questo: non era neppure censura, ma auto-censura. Certo, dopo il capitolo su Hitler veniva quello su Stalin. E al Cremlino sedeva un politico che a volte è stato, con qualche esagerazione, paragonato a una sua replica. Come sappiamo, i paranoici mancano tanto di autocritica, quanto di senso dell’umorismo. Questa decisione editoriale non si limitava a impedire l’uscita del libro: dimostrava contemporaneamente che al pubblico russo sarebbe stato utile leggere proprio qualcosa sulla paranoia.
Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana, Adelphi, Milano 2021.