La memoria come esperienza del trauma

21 Novembre 2014

 Non sono mai stata ad Auschwitz. Né negli altri siti del trauma, a parte Dachau, dove i miei genitori ci portarono da bambini e dove, per una sorta di irriflessa coazione, tornai qualche decennio più tardi in compagnia dei miei figli, ancora troppo piccoli per ricavare dall’esperienza alcuna lezione storica utile, e tuttavia profondamente colpiti dalla desolazione del luogo, dal freddo novembrino, e dalla consapevolezza che lì, proprio lì, erano successe cose orribili.

 

La sera della mia prima visita a Dachau, per sovrappiù, cenammo all’Hofbräuhaus di Monaco, dove appresi i dettagli del Putsch del 1923, e contestualmente fummo avvicinati da un anziano bavarese in preda a malinconie alcoliche a cui prestai l’identità del vecchio nazista tormentato dai sensi di colpa. Quella notte mi venne la febbre, che presumibilmente incubavo già, ma che attribuii alle impressioni del giorno prima. Secondo le categorie formulate dagli odierni Trauma Studies, ero diventata una testimone secondaria, testimone di testimone, attraverso la quale il trauma poteva propagarsi e passare alle generazioni successive. Missione compiuta.

 

Dachau

 

Si perdoni la nota autobiografica, ma il ricordo di quella giornata è riaffiorato prepotentemente per merito dell’ultimo saggio di Patrizia Violi, Paesaggi della memoria: il trauma, lo spazio, la storia (Bompiani 2014), che dei siti del trauma offre una lucida e articolatissima disamina semiotica. Pur rimanendo fedele al proposito di depurare lo sguardo analitico da giudizi di valore e da frettolose diagnosi sociologiche, Violi stimola i lettori a saturare il suo testo con ricordi di esperienze vissute, e a reinterpretarli in chiave critica e problematizzante. D’altronde il saggio è di per sé frutto di un capillare lavoro sul campo.

 

L’autrice prende le mosse dalle sue visite in diversi siti del trauma: il Memorial Hall di Nanjing, costruito nell’area in cui nel 1937 le truppe giapponesi massacrarono la popolazione civile; il villaggio di Oradour-sur-Glane, bruciato dai nazisti nel 1944; il Parco della Pace di Villa Grimaldi, a Santiago, tristemente famoso come centro di interrogatori durante la dittatura di Pinochet; il Tuol Seng Museum of Genocide Crimes a Phnom Penh, dove tra il 1975 e il 1979 la polizia segreta di Pol Pot torturò migliaia di ex-funzionari accusati di tradimento; la famigerata Scuola navale della ESMA, a Buenos Aires, da cui tra il 1976 e il 1983 partivano gli aerei che gettavano i corpi vivi degli oppositori nell’oceano. E altri ancora.

 

Le village d'Oradour-sur-Glane© Photo Guillaume BonnaudLe village d'Oradour-sur-Glane© Photo Guillaume Bonnaud

 

Violi registra ciò che vede e sente, annota i comportamenti propri e altrui, fotografa i luoghi, li descrive, ne ricostruisce gli antefatti storici, e intanto li interpreta con grande acume, avvalendosi di categorie mutuate dai Memory e dai Trauma Studies, oltre che dalla semiotica di Eco e di Greimas. Al cuore dell’analisi, il rapporto complesso tra i luoghi della memoria e i visitatori a cui essi si rivolgono, in un gioco di strategie incrociate non dissimile da quello che si instaura tra qualsiasi testo e i suoi lettori.

 

Chi si reca nei siti del trauma sa che quegli spazi furono teatri di violenze estreme, stupri, torture, eccidi. Per questo ci va. Per calpestare le piastrelle su cui deambulavano i detenuti, per vedere le macchie di sangue sui muri (a Phnom Penh), le insegne bruciate e le case distrutte (a Oradour), o semplicemente per essere lì, anche quando non c’è più nulla da vedere, e delle efferatezze perpetrate non restano tracce se non la consapevolezza culturalmente filtrata che this must be the place. La traccia è il luogo stesso, memoria incarnata degli eventi, che il visitatore esplora in lungo e in largo alla ricerca di segni rivelatori: una crepa, una chiazza, un foro di proiettile nel muro…

 

Soffermandosi sulle strategie comunicative iscritte nella planimetria degli spazi, Violi distingue tra siti ri-presentativi e siti rappresentativi, con tutte le sfumature intermedie, a seconda del grado di mimetismo con cui l’esperienza traumatica viene riproposta al pubblico. Da una parte, “siti che ‘agiscono’ il trauma presentificandolo in una forma che ricorda l’acting out”, la ripetizione compulsiva, come avviene a Oradour dove il fluire del tempo è congelato per mezzo di un perturbante restauro à l’identique. Dall’altra siti che distanziano l’evento, per esempio mediante l’inserzione di placche esplicative, proiezioni di documentari, installazioni artistiche, fino alla radicale ri-semantizzazione dei luoghi dell’orrore, restituiti alle comunità e destinati a nuove e più vitali funzioni.

 

Attraverso percorsi più o meno vincolanti i visitatori si sottopongono a prove di resistenza emotiva, da cui riemergono carichi di rinnovate competenze. Queste però non riguardano le conoscenze storiche “oggettive”, di solito accennate quel poco che basta per situare l’evento nella sua cornice narrativa, quanto l’assorbimento di una “memoria prostetica”, acquisita per empatia, che li porta a far rivivere in sé un (fortunatamente pallido) riflesso delle sofferenze esperite da chi viceversa era lì per davvero. Per mezzo di una varietà di tecniche retoriche i siti del trauma incoraggiano l’immedesimazione con i sommersi: l’elenco dei massacrati di Nanjing, probabile calco della Hall of Names di Yad Vashem; l’esposizione delle foto anonime con cui i Khmer Rossi schedavano i detenuti, dove per un malaugurato cortocircuito enunciativo lo sguardo dello spettatore finisce per coincidere con quello dei fotografi carnefici; fino ai più sconcertanti dispositivi spettacolari (simulazioni di effetti visivi, sonori, tattili e olfattivi) con cui i visitatori del Museo dello Sbarco a Catania sono invitati a “provare in prima persona le forti emozioni” dei cittadini bombardati dall’aviazione americana.

 

Hall of Names at the Yad Vashem Holocaust Memorial in JerusalemHall of Names at the Yad Vashem Holocaust Memorial in Jerusalem

 

Diventare testimoni secondari è la motivazione ufficiale che spinge gran parte dei visitatori a intraprendere pellegrinaggi post-traumatici: pagare un tributo alle vittime, risarcirle simbolicamente, sentirsi a posto con la coscienza, come quando si va al cimitero. Meno espliciti gli impulsi voyeuristici, che pure trapelano in molti commenti su tripadvisor e siti analoghi, a riprova che sacralizzazione e banalizzazione spesso si implicano vicendevolmente. Del tutto nascosti, infine, i condizionamenti politici a cui soggiacciono i luoghi della memoria.

Lo spiegava bene Maurice Halbwachs: la memoria collettiva è funzionale alle sensibilità, agli interessi e ai progetti di chi la gestisce.

 

Al di là delle finalità pacificatrici solitamente invocate in prospettiva terapeutica (la narrativizzazione dell’evento come working through delle comunità traumatizzate), i siti del trauma fungono da matrici di identità emergenti o egemoniche. Emergenti quando l’agency commemorativa è a carico di associazioni di volontari, come le Madri di Plaza de Mayo, in lotta con le autorità per il riconoscimento dei crimini a lungo negati. Egemoni quando a controllare i luoghi della memoria sono le autorità governative stesse che li usano come potenti strumenti di legittimazione politica.

 

Paradigmatico il caso della Cina post-maoista che, dopo decenni di oblio programmatico, nel 1985 dedica un colossale memoriale al massacro di Nanjing per rifondare una narrazione identitaria di Riscatto e di Vittoria, sulla falsariga dell’Olocausto ebraico riletto in chiave al contempo nazionalista e universalista. Strutturato come un “cammino salvifico di redenzione”, il Memorial Hall è una “faraonica opera celebrativa” del popolo cinese, ferocemente aggredito eppure capace di perdonare, in ciò dimostrandosi vittorioso non solo sul piano politico-militare, ma anche su quello morale.

 

Non per niente Violi parla del “patrimonio traumatico” come di un oggetto di valore enormemente ambito e conteso, specie in questi tempi di scarsa progettualità politica. Viene da chiedersi se i traumi vicari che, in nome del “dovere della memoria”, ci infliggiamo e infliggiamo ai più giovani siano veramente necessari alla formazione di una cittadinanza memoriosa e responsabile. Paesaggi della memoria preclude ogni risposta semplice al quesito.

 

Questo pezzo è apparso in versione più breve su Alias de il manifesto

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