La sopravvivenza delle immagini al cinema
Giotto, Pontormo, Velázquez, Ėjzenštejn, Hitchcock, Rossellini, Godard, Pasolini, Herzog, Moretti: questa breve lista potrebbe continuare pressoché all'infinito, all'indietro o in avanti. E nonostante possa apparire una combinazione vertiginosa, è possibile rinvenire un principio unitario di coerenza? È a tale quesito che La sopravvivenza delle immagini al cinema. Archivio, montaggio, intermedialità di Francesco Zucconi prova a fornire una risposta, proponendo di identificare questa unità di senso nel concetto di “archivio”.
Strutturato secondo un prologo e tre parti, il libro interroga lo stato di salute del panorama audiovisivo contemporaneo attraverso il confronto con una lunga tradizione di pensiero che attraversa il Ventesimo Secolo. Considerando i film come oggetto e allo stesso tempo soggetto del pensiero, il volume intende così delineare una teoria che scaturisca da una rigorosa analisi testuale e sia inoltre dotata di un valore politico: «l'archivio, la memoria delle immagini viste e subite, incalza, inquadra, dispone la messa in forma del presente e definisce le forme di credenza nello stesso» (p. 20).
L'importanza della nozione di archivio, come noto, ha attraversato numerosi ambiti sin dal momento della sua diffusione grazie a Michel Foucault alla fine degli anni '60; e tuttavia, come può essere definito l'archivio in un ambito audiovisivo, che ri-media costantemente le immagini del passato? A questo proposito Zucconi propone un punto di partenza denso di implicazioni: «l'archivio non è da intendersi, in senso classico, come deposito di materiali storici. È piuttosto la misura discorsiva, è la stratificazione delle forme di comprensione del reale che si sono espresse e si esprimono, aggiornandosi continuamente all'interno delle rappresentazioni sociali» (p. 27).
In quanto oggetti teorici e critici, alcuni film sembrano dunque affrontare queste forme di comprensione del reale, nei termini semiotici di costrutto sociale e culturale. Facendo ciò, il cinema e i film che ne attraversano la storia propongono una diagnosi delle condizioni d'uso di alcune figure che appartengono all'archivio generale delle forme culturali: «diventa possibile supporre che ogni opera, e alcune molto più di altre, stabilisca un campo di proiezione e istruisca una rilettura critica – o quantomeno problematica – dell'archivio culturale nel quale si colloca» (p. 32).
Tre distinte parti analitiche fanno seguito a questo lungo prologo. La prima, “L'audiovisivo come spazio del pensiero”, si focalizza su alcune questioni teoriche chiave e sulle loro declinazioni assunte a seguito del lavoro tanto di teorici quanto di registi. Archivio e immagine-tempo, finestra e cornice, dettaglio e frammento compongono la struttura generale entro la quale il libro si districa, mentre un complesso percorso è incaricato di stabilire le condizioni epistemologiche dell'intera ricerca. Arca russa (Sokurov, 2002), Un'ora sola ti vorrei (Marazzi, 2002), Histoire(s) di cinema (Godard, 1988/1998) sono tre dei “luoghi” prescelti dove tali questioni emergono, aprendo infine all'idea di una profonda interrelazione tra le strategie figurative, il montaggio e il lavoro cognitivo e passionale dello spettatore.
La sezione successiva, “Riproduzione e montaggio: la vita delle immagini”, sfrutta la dicotomia deleuziana tra differenza e ripetizione per indagare come il cinema possa riflettere (su) il mondo mentre lo (ri)produce. La prima parte prende così in considerazione il remake di Psycho (Hitchcock, 1960) ad opera di Gus Van Sant; in Psycho (Van Sant, 1998) l'idea di ripetizione è talmente letterale che lo spettatore è costretto ad operare una precisa comparazione filologica come stadio estremo di una pratica di “interlettura tra la fonte e il bersaglio dell'operazione intertestuale” (p. 134) promossa dal cinema moderno.
L'idea di una dimensione critica propria di ogni remake (o, più in generale, lavoro intermediale) conduce nelle pagine successive ad una investigazione dell'altro versante della dicotomia – la differenza – nel tentativo di rinvenire strategie opposte che sviluppino tuttavia propositi simili. Focalizzandosi sulla costruzione del punto di vista, Zucconi affronta qui Nanni Moretti e Werner Herzog come esempi di registi in scena. In quanto “figure di cornice”, questi orientano infatti precisi itinerari di senso in un confronto perpetuo con un archivio iconico, tanto esterno (Moretti) quanto interno (Herzog) al loro stesso lavoro. E tuttavia, per entrambi, il punto decisivo è il medesimo: fornire “un discorso testimoniale che cerchi di sfruttare la componente riflessiva del discorso artistico” (p. 180).
La terza sezione, “La sopravvivenza delle immagini”, piega questo discorso testimoniale verso un'esplicita ricognizione critica di due dei principali temi all'interno dei sistemi audio-visivi contemporanei: l'immagine del potere e la rappresentazione del dolore. Interamente dedicata al cinema italiano, quest'ultima parte richiama una specifica tradizione teorica che ha analizzato le connessioni tra cinema e politica, oggigiorno confluita nei territori estesi dell'estetica e della teoria critica. La prima linea di sviluppo affronta le strategie figurali di decostruzione del potere politico in Vincere (Bellocchio, 2009) e Il caimano (Moretti, 2006). Questi film, secondo Zucconi, ridefiniscono i compiti del cinema politico attraverso il montaggio o la ri-mediazione di materiali d'archivio, dal momento che «la rappresentazione costituisca un'occasione di esercizio del potere, ma anche un luogo d'incontro, luogo di negoziazione e di messa in forma di un orizzonte di senso condiviso» (p. 190).
Sul versante della rappresentazione del dolore, la Crocefissione come motivo iconografico è il tema che consente una riflessione sulle immagini del dolore nei media contemporanei. Mentre alcuni eventi traumatici – come il terremoto de L'Aquila del 2009 – sono stati inquadrati attraverso l'ampio ricorso a formule passionali e configurazioni narrative di matrice cristiana, determinati film, ad esempio La ricotta (Pasolini, 1963), Salomé (Bene, 1972) e Totò che visse due volte (Ciprì e Maresco, 1998), hanno proposto una messa in scena anacronistica della Crocefissione che ne affronta direttamente l'efficacia attuale. Queste profanazioni si propongono così di smascherare le strategie retoriche che, in via preliminare, danno forma al mondo attraverso la rappresentazione, per dischiudere infine un valore etico e politico: «è solo nella consapevolezza del rapporto a doppio filo che lega estetica e politica che lo spettatore può riscoprirsi cittadino» (p. 236).
È solo a partire da una solida comprensione della loro profondità ed estensione che questo libro riesce a far confluire al proprio interno differenti ambiti teorici; analogamente, le immagini sovrappongono i propri confini e contribuiscono a dar vita ad un vasto archivio audio-visivo, continuamente in espansione attraverso nuove tecnologie e nuovi dispositivi che richiedono nuove competenze ai loro fruitori. Il cinema, come media giovane e vecchio allo stesso tempo, può mostrare forme efficaci di manipolazione visiva, richiedendo allo spettatore una cooperazione «come condizione per una rinnovata credenza nelle immagini e nella loro condivisione nello spazio della comunità» (p. 240). Oltrepassando la dicotomia cinema/realtà, Zucconi delinea così il ruolo della “visualità” nel tempo presente, mostrando come le immagini possano costruire un reale condiviso: un luogo dove etica ed estetica possono finalmente (ri)trovare un punto d'incontro.
Una più lunga versione in inglese di questo articolo è già apparsa in Journal of Italian Cinema and Media Studies, vol. 2.3, Settembre 2014