1919 - 2021 / Lawrence Ferlinghetti: una vita e un ricordo
Duecento anni dopo Keats, come per una ponderata simmetria, se ne va Lawrence Ferlinghetti. Me lo immagino il quartiere di North Beach, a San Francisco, che piange il suo ospite più amato. Mi immagino il Caffè Trieste, all’angolo tra la Columbus e la Vallejo, il juke box silenzioso, neanche le tazze di caffè si permettono di fare rumore. I poeti con lo sguardo basso, l’inchiostro asciutto.
Lawrence Ferlinghetti ha attraversato la storia del Novecento usando la poesia come arma per comunicare bellezza attraverso il caos. Dopo aver vissuto lo sbarco in Normandia, dopo aver visto i paesaggi di Hiroshima e Nagasaki, dopo aver testimoniato un’Europa che usciva dalle macerie della guerra, nel 1953 a San Francisco fonda la City Lights, libreria e casa editrice, insieme all’amico Peter Dean Martin, col quale comincia a pubblicare poesia in edizioni economiche.
Il luogo diventa presto centro culturale e ritrovo di tutti quei giovani poeti che erano arrivati a San Francisco attratti dalla rinascenza poetica in corso. Nel 1955 durante un famoso reading alla Six Gallery (che Kerouac ricorda nelle prime pagine de I vagabondi del Darma), Ferlinghetti conosce Allen Ginsberg, a cui manda il giorno dopo un telegramma che sarebbe entrato nella storia della letteratura occidentale: “Ti saluto all’inizio di una grande carriera. Stop. Quando avrò il manoscritto di Urlo?”. La City Lights pubblica il poema l’anno successivo, un testo che Ferlinghetti difende in tribunale davanti agli sguardi dell’America maccartista. Poi sono arrivati Jack Kerouac e Gary Snyder, Gregory Corso, Robert Duncan e altre potentissime voci che in Ferlinghetti hanno trovato una porta verso l’eternità, segnando per sempre il percorso della loro generazione e di tante altre che sarebbero venute dopo.
Nel 1958 esce A Coney Island of the Mind, forse la raccolta più famosa di poesie che Ferlinghetti abbia pubblicato. In questo volume, che il Library Journal (C.D. Hopkins, “The poetry of Lawrence Ferlinghetti: a reconsideration”, in Italian Americana, vol. 1, n. 1, 1974) ha definito al pari di The Waste Land per il modo in cui rappresenta la società contemporanea, il poeta mescola la propria autobiografia a immagini surreali ispirate alla tradizione francese; come un profeta laico, immagina e racconta un paradiso fatto di corpi nudi che anticipano le folle di giovani della Summer of Love e di Woodstock (Not like Dante); racconta un’America che si è venduta al sogno americano dei consumi, denunciando l’avvento dell’età della paura, “the Age of Anxiety”, la guerra del Vietnam e tutte le altre guerre imperialiste che il modo avrebbe conosciuto (I am Waiting).
Costantemente in equilibrio tra il reale e il surreale, tra la lotta politica e l’ideale, l’eredità di Ferlinghetti è molteplice e indiscutibilmente risonante. “Young men should be explorer” scrive nel poema che è la sua autobiografia. Come esploratore del mondo era stato suo padre, un emigrante Italiano di Brescia arrivato a New York agli inizi del Novecento. Un uomo che il giovane Lawrence non ha mai conosciuto e del quale, per la prima parte della sua vita, aveva imparato a portare solo metà del cognome, Ferling, la metà che rappresenta la sua vita americana. La storia delle sue origini italiane viene scoperta solo successivamente, alla vigilia dell’arruolamento per la guerra, un altro punto di partenza che è diventato allora anche un ritorno alle origini. Anni dopo, come il poeta ha raccontato in molte interviste, avrebbe bussato alla vecchia casa di famiglia senza nessuna fortuna. Eppure l’Italia resta per Ferlinghetti il luogo dell’amore, il paradiso terrestre che si oppone in sensualità e abbondanza a quello raccontato dal poema dantesco.
Come ricorda Massimo Bacigalupo (“Melville to Merril: Italophile American Poets”, in Paideuma: Modern and Contemporary Poetry and Poetics, vol. 41, 2014), il poeta apprende la lingua paterna durante i suoi viaggi, a partire dall’anno di dottorato passato a Parigi subito dopo la guerra. Non è forse un caso se allora le scene italiane raccontate in Coney Island siano in parte quelle di un Paese da cartolina, in parte quelle di un luogo arcadico e onirico. Il paesaggio notturno di Villa Borghese, per esempio, fa da sfondo a un gioco di ragazzini, quello di disegnare baffi ai volti delle statue alle tre del mattino in compagnia della bella vedova Fogliani, un atto infantile tanto quanto dadaista e anarchico. L’italiano è per Ferlinghetti la lingua dell’amore (Dove sta amore), mentre l’inglese si caricherà anche del potere della denuncia, sempre più crescente nel corso degli anni che accompagnano le proteste contro la guerra in Vietnam, fino alla celebre raccolta Poesia come Arte che Insorge (2007), in cui il poeta, ormai completamente profetico, denuncia “tra le fiamme” l’autodistruzione della civiltà e lo scioglimento dei ghiacci. L’invito è quello di usare la poesia come parola potente per “conquistare i conquistatori” e vincerli, nella speranza di una rivoluzione, come ancora raccontava ai giornalisti che lo intervistavano nel giorno del suo centesimo compleanno, il 24 marzo 2019.
Ho incontrato Lawrence Ferlinghetti circa dieci anni fa a North Beach, San Francisco. Ero una giovane studentessa di lettere appena laureata che aveva messo da parte tutti i suoi risparmi per raggiungerlo attraverso l’oceano in cerca di una risposta. Cercavo forse, in quel modo, di dare un senso ai miei studi letterari, e al tempo stesso cercavo da lui una direzione. Mi disse, quel giorno di marzo, che spettava a me osservare e dare risposte su un mondo che ormai apparteneva alla mia generazione. Mi stava insegnando anche, principalmente, a non farmi andare bene nessuna formula, ma a cercare le risposte da me, infilandomi nella vita.
Insofferente all’autorità di qualsiasi tipo, dalla politica alla religione, Lawrence è stato nella sua energia rivoluzionaria un uomo gentile dallo sguardo bambino. Dal Vietnam all’Undici Settembre, da Occupy Wall Street alle proteste di Extinction Rebellion e Black Lives Matters i suoi occhi hanno osservato il mondo cambiare, distruggersi, rinascere e declinare di nuovo. Tutti quelli che hanno conosciuto Ferlinghetti di persona o attraverso le sue poesie oggi piangono con commozione la scomparsa di un poeta che, nonostante la lunga e avventurosa vita, sarà per sempre giovane per la capacità di conservare meraviglia nel suo sguardo e comunicarla con le parole. La sua eredità non finirà nei libri o nei musei, non finirà nei solchi dei pellegrinaggi, ma se ne andrà in giro con la gente che terrà a mente le sue poesie camminando per strade sterrate.