Le Alpi nel mondo antico. Da Ötzi al Medioevo
In un recente articolo intitolato How to change the course of human history (at least, the part that's already happened)*, l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengraw prendono di mira, sforzandosi di decostruirla, l’interpretazione standard – identificata in alcuni lavori di Francis Fukuyama, Jared Diamond e altri – dei nostri ultimi 40.000 anni; la prospettiva minima, diceva il poeta Gary Snyder, per provare a capire qualcosa di ciò che siamo e di come si sia costruita la nostra esperienza del mondo. Il punto, sostengono, è che il modo con cui di solito si racconta lo svolgimento della storia umana – riassumibile in una sequenza limitata di fasi: un presunto stato di natura dei piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, mobili e egalitari; una “rivoluzione” agricola che lo sostituirebbe; l’emergenza di un potere centralizzato nella formazione delle città... – è sbagliato non tanto e non solo per una mancanza di informazioni (in particolare per il periodo precedente al Paleolitico superiore), quanto per la difficoltà di assumere, nella formulazione di quelle che restano comunque ipotesi, le informazioni già esistenti per quanto ovviamente frammentarie, disperse e “imbarazzanti” possano essere. Le scoperte più recenti dell’archeologia e dell’etnografia, come di altre discipline, scrivono Graeber e Wengraw, permettono di dire che “quelle che sembrano essere delle verità evidenti, all’evidenza, paiono senza fondamento”.
L’archeologia, sottolineava negli anni ’70 l’archeologo inglese David Clarke, è “ancora un insieme di domande, piuttosto che un insieme di risposte”, per quanto instabili, e questo lascia di fatto sempre aperta la possibilità che “le spiegazioni sullo sviluppo dell’uomo moderno, la domesticazione, la metallurgia, l’urbanizzazione e la civilizzazione – potranno, una volta rimesse in prospettiva, apparire come delle trappole semantiche o dei miraggi metafisici”. Insomma, la rigidità delle strutture ideologiche in cui siamo di volta in volta immersi ci impedisce spesso di riconoscere l’ampiezza della varietà delle esperienze umane e sociali che nel lungo periodo hanno caratterizzato i nostri predecessori. È quanto suggeriscono, per esempio, gli studi che anche in contesto alpino mostrano, a partire dalla fine dell’ultimo periodo glaciale (10-9000 a.C.), il ruolo della stagionalità nelle dinamiche di mobilità e di insediamento tra luoghi complementari (in termini di risorse disponibili, ma non solo), e le implicazioni connesse al carattere temporaneo delle strutture di potere e degli ordini sociali che vi erano associati. Pur se relativamente più recente rispetto ad altre archeologie, l’archeologia delle Alpi (l’acronimo AdA è anche il nome di una bella collana di studi curata dall’Ufficio beni archeologici della provincia di Trento) sta contribuendo a ridisegnare le nostre conoscenze su questa particolare regione europea e su quello che può rendere nuovamente tangibile del nostro passato remoto, certo, ma anche di quello più prossimo e tragico (come nel caso della Prima guerra mondiale).
L’esempio più eclatante, almeno finora, per la qualità di conservazione del corpo e dei reperti ritrovati e la ricchezza e il dettaglio delle informazioni dedotte, è quello di Ötzi, la mummia (3350-3100 a.C.) scoperta nel 1991 da una coppia di turisti tedeschi a 3200 metri sul ghiacciaio del Similaun, al confine tra Italia e Austria. Cosa ci faceva a quest’altitudine? Da dove veniva e dove andava? È proprio con il racconto delle cause della sua morte che il giornalista e storico tedesco Ralf-Peter Märtin apre Le Alpi nel mondo antico, scritto a sua volta nell’urgenza di un corpo eroso dalla malattia, e dove in un centinaio di pagine sintetizza a partire da episodi noti (Annibale) o meno (il periplo di cimbri e teutoni) le vicende della regione alpina nel periodo compreso tra l’Età del bronzo e l’alto medioevo, epoca della loro completa cristianizzazione.
Per quanto eccezionale, il ritrovamento di Ötzi va compreso all’interno di un insieme di relazioni ben più antiche (almeno dal IX millennio a.C.) che mostra la precoce importanza delle direttrici geografico-culturali attraverso le Alpi (per esempio lungo i sistemi vallivi dell’Adige a sud, dell’Inn e del Reno, a nord) e del ruolo che hanno svolto (soprattutto, tra il V-III millennio a.C.) nella progressiva colonizzazione della media e alta montagna connessa all’emergenza delle pratiche agropastorali, minerarie (rame, ma anche sale) e metallurgiche, ormai attestato sui due versanti da numerosi siti e ritrovamenti (materie prime, strumenti, manufatti, sementi, erbe, etc.). Sarà in gran parte lungo quelle stesse direttrici che più tardi (I-II sec. d.C.) si stabilizzeranno le vie di transito transalpine sotto la spinta romana, e la sottomissione delle genti che vi abitavano. Vie attraverso le quali, con l’indebolimento dell’Impero, scenderanno verso sud le popolazioni del centro e nord del continente. A ulteriore conferma, se ce ne fosse bisogno, della centralità delle Alpi nella storia europea e nella comprensione dei complessi rapporti tra il mondo mediterraneo e quello delle pianure centro-settentrionali. E anche dell’interesse di dar spazio, anche per l’antichità, alle “voci” interne del mondo alpino. Perché anche in un libro ricco di storie e informazioni come questo, appena il discorso esce dalla preistoria (i primi due capitoli), e dalla concretezza di un sito e delle sue tracce materiali, lo sguardo per quanto erudito perde presa e le Alpi diventano ancora una volta più il teatro delle gesta di chi le ha traversate con altre mete, o le ha volute dominare e controllare per interesse, che di coloro che vi abitavano.