E tutte vissero felici e contente / Le favole di Emma Dante

1 Gennaio 2021

Una delle favole teatrali di Emma Dante è stata trasmessa su YouTube durante il lockdown di primavera. Cappuccetto Rosso si sdoppiava: diventava una bambina magra e una grassa, in perenne conflitto, con la grassa alla fine trionfante perfino sul lupo, e sulla agognata focaccina che la madre aveva serrato con lucchetto nel panierino, per non fargliela divorare prima di arrivare dalla nonna. 

Le favole di Emma Dante, riportate sul sito dell’artista come uno dei tre settori del suo teatro (prosa, opera, favole) e ora pubblicate in volume, sono fiabe di oggi, sgradevoli a tratti, impastate di realtà e prosaicità, crudeli perfino ma senza dimenticare lo slancio fantastico. Sono apologhi morali che fanno attraversare odi, emarginazioni, ingiustizie, portando sempre a un “lieto fine”, il più delle volte assolutamente non scontato. Può consistere nella punizione senza pietà dei colpevoli, nel trionfo, come nel caso di Cappuccetto, del desiderio contro tutto il resto, nel sogno d’amore non convenzionale.

 

D’altra parte la scrittrice e regista palermitana lo afferma esplicitamente, in La bella Rosaspina addormentata: “Passarono cento anni e di cose ne successero nel mondo! Prima e seconda guerra mondiale, gli anni settanta, i Beatles, la televisione, i matrimoni gay, facebook…”. La fanciulla è rimasta assopita cento anni dal suo mondo di favola belle époque, e noi pure, da quando le ascoltavamo raccontate più o meno sempre uguali, con varianti regionali o familiari. E vanno riviste, conservando quel nucleo forte che le rende sempre affascinanti: la prova, il rischio, la catastrofe inevitabile e il rovesciamento felice finale, a dimostrare che nel mondo una tacita giustizia esiste, comunque. O perlomeno se non nel mondo in quelle proiezioni iniziatiche di incubi e desideri che sono, appunto, le favole.

Non esiste la bara di cristallo in Biancaneve, e il principe che la deve baciare non arriva su un cavallo bianco, ma è già pronto, vicino, addormentato nella casa dei nani, che sono fratelli minatori che estraggono oro e pietre preziose dal cuore della terra, privati delle gambe e quindi accorciati dalla malaccorta esplosione di un detonatore trascurato da Pisolo, che come tutti sanno si addormenta sempre.

 

Biancaneve e Gongolo, da Gli alti e i bassi di Biancaneve.


Ora questi racconti crudeli e ironici, dolci e ghignanti, dal teatro vengono trasportati in un bel libro, E tutte vissero felici e contente (La nave di Teseo). Sulla pagina non perdono la forza epigrammatica dei contrasti fisici e della deformazione grottesca del teatro della regista palermitana, ma acquistano in più una smagliante traduzione visiva a opera di Maria Cristina Costa, disegnatrice di lunga navigazione, dal segno spigoloso, espressionista, dal colore spesso opaco, una matita e delle tonalità capaci di rendere la dimensione di incubo che spesso hanno gli interni familiari di Emma Dante. Le due, coetanee, collaborano dal 2011 e il loro rapporto sembra simbiotico, tanto che alcune immagini che illustrano il volume paiono richiamare i tagli di colore, di luce scura, di penombra, gli enigmi esistenziali resi per saturazione o raffreddamento delle immagini del recente film Le sorelle Macaluso; e viceversa, immagini della fortunata e intensa pellicola paiono ispirarsi alle donne e alle ragazze di questa raccolta di conti di fantasia.

 

La regina malvagia prepara il veleno per uccidere Biancaneve.


Si tratta di storie principalmente femminili, con l’eccezione di qualche comprimario: un lupo capellone col maglione a collo alto che sembra Shel Shapiro dei vecchi Rokes (chi se li ricorda?), i sette nani minatori senza gambe in canottiera come in un vicolo di Palermo, un paio di principi d’ordinanza, uno dei quali, quello che salverà Biancaneve, anche lui in maglia della salute con militaresche spalline da gran gala. Per chi conosce gli originali all’appello dei principi mancherebbe quello che desta dal sonno Rosaspina, la bella addormentata per maledizione di una fata non invitata al battesimo perché i regali coniugi, Sofonisba e Gandolfo sovrani di uno di questi regni paesani – Montecozza o Puntasecca o Barcellona di Pozzo di Gotto li chiamerà nelle altre storie – non hanno invitato la Fata Oscura, perché in quel casalingo regno non c’erano abbastanza piatti e stoviglie per undici fate, ma solo per dieci. Il principe che sveglierà Rosaspina appare rinchiuso da un casco integrale, facendosi largo tra rovi e arbusti simili a intricata foresta, tra i cadaveri dei precedenti pretendenti defunti nell’impresa. E metterà in sospetto dall’inizio, circa la propria ‘identità’, passando inavvertitamente a nominarsi ora con genere maschile ora femminile più di una volta. Chi non volesse sapere come va a finire, salti le prossime righe. Dove cercherò di rivelare il meno possibile, ma comunque non potrò tacere che una volta, quando la storia teatrale si rappresentava a Bologna in un teatro per ragazzi per una sezione ‘arcobaleno’ della rassegna Gender Bender, i cattolici tradizionalisti (pochi in realtà) inscenarono una gazzarra davanti alla sala contro il finale omosessuale della storia: una principessa che bacia una principessa, “e vissero felici e contente”, dove si è mai visto! In realtà la morale della favola, lo spirito profondo, anche qui è rispettato: l’amore vince sulle maledizioni e sul sonno che tutto sopisce.

 

Il bacio finale in La bella Rosaspina addormentata.


Sono squallide, sbilenche, troppo fighe e tirate o troppo streghe le madri: o trascurano, come quella di Cappuccetto, sempre intenta ad abbellirsi, a tingersi, a guardarsi allo specchio, o sono sciatte befane in ‘tappine’ (ciabatte) e vestaglia come quella delle sorellastre di Cenerentola. In questa storia le occhialute e sgraziate Anastasia, Genoveffa, la madre e Angelina-Cenerentola vivono in un castello che è una palazzina a tre piani con attico abusivo, in un immaginario paese del sud della Sicilia “circondato da cave di tufo e alberi di melograno” (bellissimo il disegno). Una melagranata diventerà carrozza al posto della zucca, e i cavalli saranno manici di scopa, gli unici compagni della povera Cenerentola che con loro danzerà sconsolata come in un bosco sterile, lasciata sola dalle sorellastre per il ballo del principe, in una tavola di illustrazione oscura. 

 

Il ballo con le scope da Anastasia, Genoveffa e Biancaneve.


È una bambina trascurata la Cappuccetto grassa, con un’identità incerta, continuamente esplicitata da sdoppiamenti e moltiplicazioni in tante altre Cappuccetto. E però è una che sa quello che vuole e lo raggiunge travolgendo gli ostacoli. Donne in cerca di identità, di felicità, sono queste, in un mondo non attrezzato, di proibizioni (Cappuccetto), invidie e maledizioni (Rosaspina), odi per l’ingenua bellezza della gioventù degli adulti che vedono sfuggire, nonostante sedute dall’estetista e jogging forsennati, il tempo (Biancaneve), soprusi di chi ha il potere, le orribili sorellastre di Cenerentola, donne avvelenate a loro volta dalla prosopopea e dall’avida voglia di promozione sociale materna, in camicia da notte, ‘villane’ rifatte senza grazia. Una grazia che alla fine vince, determinata o inconsapevole, contro tutto.

 

La matrigna e le sorellastre di Cenerentola.


La lingua, essenziale, accesa da inflessioni e locuzioni dialettali, fa da smagliante contrappunto alle immagini, ariose quando vengono scontornate nella pagina bianca, affogate nei chiaroscuri, nelle ombreggiature espressiviste quando si concentrano sui personaggi negativi, o quando esplorano i segreti e le paure della notte. Non mancano trovate umoristiche irresistibili, spesso debitrici al teatro popolare, come nei casi dei sette barbuti nani senza gambe, con Eolo che ‘pirita’, scoreggia, in continuazione, Pisolo che si addormenta ogni 5 minuti, Cucciolo in cerca delle mammelle della mamma eccetera.

 

Un libro “per grandi e piccini”, si sarebbe detto una volta. Per piccini e grandi che vogliano ancora credere alle favole, più appassionanti ancora se, come in questo caso, hanno il ritmo, il sapore del mondo che ci circonda, opportunamente deformato, minacciosamente e gioiosamente reinventato.

 

L’immagine di copertina illustra la favola Cappuccetto Rosso vs Cappuccetto Rosso. 

 

Emma Dante, E vissero tutte felici e contente, illustrazioni di Maria Cristina Costa, La nave di Teseo, pp. 240, euro 22.

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