Orso d’Oro a Berlino / Le follie porno di un Paese in maschera
Nella concitazione della seconda riapertura delle sale cinematografiche, chissà quanti si sono accorti che un film ha cambiato titolo non appena avuta l'opportunità aggiuntiva di una distribuzione nei cinema. Lucky Red aveva scelto di destinare in esclusiva alla sua piattaforma MioCinema il recente vincitore dell’Orso d’Oro della 71ª Berlinale, Bad Luck Banging or Loony Porn del regista rumeno Radu Jude; quando poi ha deciso, convinta dalla bontà del prodotto ma anche per mancanza di alternative da proporre al pubblico, di renderlo disponibile qualche giorno dopo anche nelle sale che hanno affrontato la riapertura, ha rimpiazzato il titolo originale usato per il lancio online con un più comprensibile (e leggermente edulcorato) titolo italiano Sesso Sfortunato o Follie Porno.
Un titolo che include due parole sul cui significato, nel film, ci si interroga e scontra con veemenza: il sesso legittimo e domestico tra marito e moglie diventa pornografia quando viene filmato e successivamente caricato su un sito di condivisione video per adulti, senza però che venga mai chiarito come questo accidente sia accaduto. Finché la protagonista del filmato è considerata solo come donna, è una scena di sesso qualsiasi; siccome la sua professione è insegnare, perciò anche essere un modello irreprensibile per i propri allievi minorenni, la sua esibizione in apparente contrasto col suo rigido ruolo sociale, non appena di dominio pubblico, diventa istantaneamente assimilabile a una di quelle fantasie fittizie la cui raffigurazione è il significato stesso di pornografia: scrivere o disegnare prostitute. La donna ovviamente non si deve difendere dalla rabbia dei genitori né per le sue azioni né per avere accettato di essere filmata durante un rapporto consenziente col marito; la vera accusa è la potenziale visibilità senza filtri del suo corpo nudo, che da figura ideale e colta la trasforma in figura carnale nonché, secondo una mentalità retrograda e ottusa, indistinguibile appunto da una prostituta.
Se il pubblico da salotto ha visto il film con tutti i pregi e difetti della comoda visione casalinga, chi ha avuto l’inattesa possibilità di vederlo seduto dentro un cinema ha vissuto un’esperienza ai limiti del gioco di specchi: per la prima volta gli spettatori, dovendo indossare obbligatoriamente una mascherina per tutta la durata della visione, hanno osservato sullo schermo un’opera contemporanea in cui tutti i personaggi indossano regolarmente le mascherine nella loro vita quotidiana. Quella del regista è stata una scelta rischiosa che forse molti suoi colleghi eviteranno per qualche tempo: vedere sullo schermo ciò che si sta ancora vivendo è il contrario dell'evasione cui si suppone ambirà il pubblico, alla ricerca di una normalità pre pandemica. Per Jude, che ha girato il suo film nell'estate del 2020, quando la Romania era appena uscita dai difficili mesi del primo lockdown come gran parte del resto d'Europa, quest'epoca ancora in divenire, già considerata al pari di una guerra mondiale, è un approdo naturale.
Nei suoi quattro film che fanno parte di una mini rassegna disponibile su MioCinema aveva già affrontato altri momenti cruciali e controversi della storia rumena, muovendosi tra documentario e finzione: la schiavitù dei Rom ancora legale e largamente praticata nella prima metà del XIX secolo (Aferim!), l'ascesa e la caduta del fascismo negli anni '30 e '40 del XX secolo (The Dead Nation), il massacro di Odessa del 1941 durante cui fu sterminata la popolazione ebraica della città (I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians), gli abusi di potere del regime comunista di Ceaușescu documentati negli atti processuali contro un adolescente colpevole di avere manifestato dissenso (Uppercase Print). Jude non ha mai avuto paura di affrontare i mali della Storia rumena mettendo in luce proprio quel tipo di eventi che la retorica nazionalista preferirebbe dimenticare; pur inscrivendo i fatti all'interno di contesti storici ben definiti, non ha mai mancato di mettere in evidenza le responsabilità personali degli individui. La pandemia del 2020 ha stravolto il mondo e ha travolto la lavorazione del film, portando il regista a raccontare la Romania contemporanea. La sensazione è che i difetti che aveva già attributo al passato del popolo rumeno siano ancora presenti.
Jude, concedendosi la grande libertà di cambiare registro narrativo tra un episodio e l'altro, ha scelto una struttura in tre parti precedute da un prologo tanto opportuno quanto spiazzante: la prima sequenza è proprio quella del filmato amatoriale che scatena grande scandalo non soltanto per il contenuto, ma in particolare per il fatto che sia ormai visibile da chiunque. Il motivo del contendere non solo ci è noto, ci viene sbattuto davanti agli occhi senza troppi fronzoli e senza alcuna censura (almeno in Italia): anche noi diventiamo complici della perversa esposizione pubblica di un momento di intimità che ha smesso di essere tale. La sequenza è esplicita ma palesemente raffazzonata, con tratti ridicoli più che eccitanti: gli atti sessuali sono accompagnanti da una musica incongrua, i protagonisti si lanciano in grotteschi dialoghi scurrili per eccitarsi reciprocamente, si sente persino la voce fuori campo di una donna fuori dalla stanza avvisare che una bambina (presumibilmente la figlia della coppia) sta maneggiando i giocattoli senza essersi igienizzata le mani. Non c'è tempo di prepararsi a un incipit così inusuale, la scena anticipa anche i titoli di testa e si viene portati inevitabilmente a provare un certo imbarazzo durante quella che pare davvero un'invasione nella sfera privata altrui: non viene fornito neppure il tempo per una presa di posizione morale ma agli spettatori, per ragionarci, in seguito sarà concesso il tempo di un lungo dibattito.
La donna del filmato iniziale era nuda ma indossava una maschera a coprirle gli occhi; la donna che cammina nella prima parte del film ha una mascherina chirurgica a coprirle il naso e la bocca. È la stessa persona ma sembra tanto diversa quanto sono differenti i contesti delle due scene. La sua ripresa amatoriale è appena diventata di dominio pubblico: lo intuiamo dai pochi dialoghi della prima mezz'ora, ma la trama non viene sviluppata oltre. Invece Jude, anticipando le infervorate discussioni che riguarderanno l'inopportuna diffusione pubblica di quel filmino privato, si diverte a mettere in pratica un'azione altrettanto scorretta: filmando la protagonista a passeggio per le strade di Bucarest, inserisce nelle sue inquadrature decine di persone inconsapevoli di essere filmate e di diventare parte di un film.
Non rende mai esplicita la sua presenza di osservatore esterno, il pedinamento della protagonista è quasi sempre a distanza, si procura tutto lo spazio utile a includere una testimonianza in tempo reale della vita cittadina in epoca pandemica. Osservando quasi distrattamente come la gente stia reagendo a un periodo storico talvolta equiparato a un dopoguerra, non manca di soffermarsi con cinica attenzione su una gran quantità di piccole meschinità umane; il disinteresse per le regole della civile convivenza trova terreno fertile in un contesto urbano già deturpato da elementi visivi ovunque invadenti e inopportuni. Coloro che vediamo per le strade, probabilmente, sono gli stessi che sarebbero pronti a pontificare senza alcuna sensibilità sulla vicenda pruriginosa del video pornografico dell'insegnante; la loro presenza involontaria nel film, alla mercé dello sguardo pungente del regista, è una punizione preventiva per i comportamenti che da loro ci si potrebbe aspettare.
La risposta alla domanda che qualcuno ingenuamente poneva un anno fa, se la pandemia ci avrebbe reso migliori, ottiene una chiara risposta nelle strade della capitale rumena: no, non è successo. Ma si riesce a scorgere almeno un volto rassicurante, tra i cartelloni pubblicitari dei candidati alle elezioni parlamentari diffusi nelle strade. In un involontario cortocircuito che unisce due estremi del cinema rumeno contemporaneo, si notano la faccia e il nome di Vlad Voiculescu, diventato celebre anche al di fuori della Romania come il Ministro della Salute onesto e disilluso di Collective, documentario candidato all'Oscar sull'inchiesta giornalistica e le conseguenze politiche di un grave incendio che mise in evidenza i gravi limiti della sanità rumena.
Voiculescu, la classica brava persona che sembra sinceramente interessata al benessere altrui, tanto diversa dai concittadini arroganti che la protagonista incrocia nel suo girovagare, qualche mese fa aveva riottenuto quell'incarico al ministero che perdeva alla fine del film di Alexander Nanau, ma ancora una volta il suo potere è durato appena qualche mese, prima di essere nuovamente rimosso. Pare abbia pagato l'eccessiva trasparenza nella diffusione dei dati su test e vaccinazioni, l'imposizione di criteri troppo rigidi per imporre la quarantena, una sconveniente indipendenza rispetto alle scelte populiste gradite al governo: il suo impalpabile impatto sulla società rumena rischia di limitarsi alla presenza dei suoi poster sgualciti che si uniranno a tanti altri dimenticati sulle pareti e sugli arredi urbani della città.
Il gusto di Jude per un'ironia pungente unita al dissacrante smascheramento dell'ipocrisia borghese si esalta nei circa 30 minuti dell'intermezzo denominato Breve dizionario di aneddoti, segni e meraviglie in cui riprende i temi che più gli stanno a cuore e introduce quelli che svilupperà nell'ultima colorita parte del film. Il variopinto mosaico è organizzato come un'enciclopedia più che come un dizionario: in ordine alfabetico, a partire dalla voce 23 agosto (data del colpo di stato filo-monarchico del 1944 che rovesciò il regime fascista), sceglie di illustrare il senso reale o metaforico di decine di termini e locuzioni con immagini d'archivio, scenette ricostruite, scritte in sovrimpressione che spiegano, arricchiscono o confutano il senso delle immagini, i cui temi sono perlopiù storia, famiglia, religione, politica. Se ne potrebbe quasi dedurre un dizionario parallelo che schernisce tutti i possibili difetti del popolo rumeno: egoismo, sessismo, razzismo, antisemitismo, omofobia, avidità, ignoranza, non manca proprio nulla in queste brevi brillanti pillole di montaggio cinematografico che non appena strappano un sorriso, lo gelano subito sulle labbra per il fastidio del segmento successivo.
Reso esplicito il contesto storico e culturale, siamo sufficientemente edotti per affrontare la lunga sequenza finale dell'incontro/scontro tra l'insegnante e i genitori dei suoi alunni, moderato dalla preside che prova faticosamente a trovare un punto d'incontro tra le parti. La pandemia impone i perimetri fisici dello scontro: in un giardino all'aperto sono tutti seduti a opportuna distanza, mantenendo sempre su naso e bocca le mascherine. Alcuni genitori sono inferociti perché i propri figli hanno visto il video della loro insegnante impegnata in attività sessuali: la donna difende la propria libertà nel privato, che nulla ha a che vedere con la maniera in cui esercita la sua professione pubblica. Questa energica discussione sui limiti della propria libertà si svolge nel pieno di un'epoca in cui tutti abbiamo subito gravi limitazioni alla nostra libertà personale.
È straniante ascoltare un dibattito teorico su ciò che è lecito e non lecito fare quando in concreto i partecipanti devono sottostare loro malgrado alla misurazione della temperatura, non hanno la libertà di posizionarsi dove vogliono, sono obbligati a indossare dispositivi di protezione delle vie aeree sapendo che qualcuno li riprenderà immediatamente, se la mascherina calerà giù dal naso. Come in un teatrino televisivo, una sola persona si deve difendere dalle accuse di un intero gruppo che le sta di fronte: qui tornano esattamente tutti i difetti nazionali che Jude aveva già messo in luce nei suoi film precedenti e sbeffeggiato nel segmento del dizionario. Si parte dalle proteste per il video porno, poi in un crescendo spiazzante la docente viene accusata di non essere abbastanza colta, abbastanza patriottica, abbastanza bigotta, persino abbastanza antisemita, almeno quanto alcuni genitori vorrebbero.
Mentre cala la sera in tempo reale e il giardino si illumina di luci colorate, avviene lo scontro più aspro tra la ragione e l'intolleranza. Jude vuole ribadire quel meccanismo vigliacco per cui si cerca sempre di attribuire le proprie colpe a qualcun altro, che sia un individuo, uno stato, un contesto storico. Lo sguardo imbarazzato della donna mentre la sua prestazione erotica viene vivisezionata con attenzione dai presenti, nel monitor di un tablet tenuto in bella vista, è quello della vera vittima: che il filmato sia stato pubblicato su un sito erotico per scelta, errore o dolo, sicuramente non era stato concepito per una tale visione collettiva volta esclusivamente all'umiliazione pubblica della protagonista. Ma se lei è la vittima, qualcun altro deve essere il colpevole.
Di chi è la colpa, quando dei ragazzini accedono senza alcun controllo a siti internet per adulti usando i loro marchingegni elettronici? È forse dei genitori, che hanno deciso di regalare loro uno smartphone senza verificare l'uso che avrebbero potuto farne, che non li hanno educati al rispetto di alcuna regola, che hanno concesso loro una smodata autonomia senza rendersi conto che la giovane età non si accorda alla saggezza che servirebbe per goderne? Nessun genitore lo ammetterebbe, negando la propria responsabilità con la stessa fermezza con cui alcuni rumeni ancora rifiutano di ammettere il dramma schiavitù (l'ultima dell'Europa moderna) seguita da una violenta discriminazione dei Rom, lo sterminio sistematico degli ebrei per il quale non possono essere incolpati i soli tedeschi, la connivenza nefasta della chiesa ortodossa con il regime fascista prima e quello comunista poi.
La colpevolizzazione delle vittime e le giustificazioni dei colpevoli, questioni che qui partono da tematiche contemporanee come la pornografia online e il tribunale del popolo che si è riversato su internet, non seguono meccanismi molto diversi da quelli che Jude ci ha illustrato essere già accaduti per ogni evento del passato in cui ci siano stati oppressi e carnefici. La storia si ripete, come un eterno video porno che non può essere rimosso definitivamente da internet perché, se qualcuno lo cancella, qualcun altro ne carica una nuova copia.