Mameloshn / Lingua materna e memoria ferita
Berna, 2 gennaio 1947
Cara, non pensare che una persona abbia tanta forza da condurre una specie di vita e continuare a essere la stessa. Perfino tagliare i propri difetti può essere pericoloso, non si sa mai quale sia il difetto che sorregge il nostro edificio intero. Non so come spiegarti la mia anima. Ma quello che vorrei dire è che le persone sono molte preziose, e che solo fino a un certo punto possono rinunciare a se stesse e consegnarsi agli altri e alle circostanze. Dopo che una persona ha perduto il rispetto verso se stessa e verso le proprie necessità — rimane una specie di straccio (da una lettera di Clarice Lispector a un'amica).
Proprio in questi giorni mi è arrivato, dall'editore Giuntina, un testo illuminante, uno di quei testi che aprono strade e pensieri ancora da sondare. È il libro di Halina Grynberg Memoria ferita aperta. Mameloshn. Settanta pagine straordinarie, scritte a Rio de Janeiro e terminate il 17 luglio 2002. Grynberg è psicoanalista a Rio de Janeiro. Il suo testo è un insieme infranto di testimonianze. Il racconto uscì in Brasile nel 2002 col titolo Mameloshn. Memória em carne viva; è stato tradotto ora da Vincenzo Barca.
Certo, saggistica non è, ma neppure narrativa. Mameloshn, vuol dire lingua materna in yiddish, una delle due lingue che gli ebrei hanno parlato prima della Shoah nei due mondi dove molti di loro vivevano. Si tratta di lingue di confine, che permettevano di intendersi con l'altro. Una proprietà delle lingue di confine è la creazione di spazi mentali, mondi e nuove forme letterarie. Lo yiddish è stato recuperato lentamente dopo la seconda guerra mondiale. È simile al tedesco, ma scritta in ebraico, parlata per un migliaio di anni dagli ebrei d'Europa orientale.
Nel 1980, negli Stati Uniti, Aaron Lansky inizia a raccogliere una quantità di libri in yiddish e trova un luogo – ad Amherst, nel Massachusetts – dove fondare la più vasta libreria yiddish del mondo: lo Yiddish.
In Francia, tra i più importanti studi sui rapporti tra yiddish e psicoanalisi ci sono le opere Max Kohn. Che cosa indica esattamente il termine mameloshn, o mameloshen? Secondo Kohn lo yiddish è “lingua materna” della tradizione ebrea ashkenazita. Alcune opere di Kohn (L'inconscient du yiddish, con Jean Baumgarten, Le préanalytique: Freud et le yiddish e L'événement psychanalytique dans les entretiens en yiddish) mostrano l'importanza dello yiddish per Freud e la psicoanalisi.
A partire da questa riflessione, l'autore propone una revisione del concetto di “lingua madre”.
È noto che il termine “lingua madre” non è identico al termine “lingua della madre”, lo vivono nell'esperienza coloro che sono bilingue o multilingue.
Tuttavia l'idea che una lingua madre possa essere “non parlata” – Noam Chomsky direbbe “non performata” – esprime qualcosa che disorienta l'ipotesi cognitivista del “parlante nativo”. In altri termini: se vivi in Italia dalla nascita, sei “parlante nativo” dell'italiano; se hai un genitore francese, sei bilingue, ecc. Le considerazioni di Kohn invece riflettono intorno a un'esperienza originaria che va ben oltre il performativo. Origine e funzione, come già in Darwin, Nietzsche e Foucault, sono tra loro eterogenee, non assimilabili.
Come applicare questo programma di ricerca al fenomeno delle lingue? La tua lingua madre ha a che fare con le tue origini remote, oltre le generazioni che ti hanno immediatamente preceduto; si deposita nella storia dei secoli, va al di là del modello trigenerazionale della memoria consapevole. La lingua madre ti spinge ad accedere a due registri tra loro diversi: l'immaginario, da un lato, e la narrazione storica dall'altro. Dunque nelle tue lingue madri ci sono mondi possibili, che mai potrai conoscere, ma anche realtà storiche che si conoscono, che hai il dovere di ricordare per le generazioni future.
Le riflessioni di Kohn sullo yiddish sono paradigmatiche. Possono essere trasferite ad altre lingue e far emergere differenti esperienze storiche: l'inglese, il francese, il portoghese di un richiedente asilo contengono tracce del dominio coloniale, le perdite lessicali delle forme dialettali dell'italiano portano con sé le frustate ricevute dai bambini delle scuole elementari durante il fascismo, il lunfardo che si parla a Buenos Aires e Montevideo ricorda l'immigrazione portoghese, italiana, ebraica, polacca in quelle città, ecc.
I miei studi in questa direzione si sono approfonditi in relazione all'impegno di lavoro etnoclinico con persone richiedenti asilo, che implica la considerazione dei rapporti tra lingue orali originarie, lingue coloniali, apprendimento delle varianti dell'italiano e ruolo di chi esercita la traduzione nel setting clinico.
La filosofia dei racconti clandestini dei richiedenti asilo, nella mia mente, è stata illuminata dai frammenti autobiografici di Halina Grynberg. Un racconto intorno alla propria sopravvivenza, alla testimonianza delle persone morte davanti ai tuoi occhi non può essere sviluppato in modo lineare, ha bisogno di una ricomposizione, di un tempo successivo.
Il testo di Grynberg non è narrativa nel senso classico della configurazione del racconto, non c'è un filo conduttore continuo, si tratta di ricostruirlo “più tardi” (nachträglich), come diceva Freud. La scrittura di Grynberg sonda l'inconscio, che non è esperienza idiosincratica, ma storica e sociale; in altri termini: ecologia della mente. Questo testo, che ricorda, sembra parlare da solo, come se non ci fosse una voce narrante identificabile, come se la voce dalla quale scaturisce fosse l'inconscio stesso, l'Es, un vuoto parlante, scrivente.
Halina Grynberg ricorda alcuni testi di Clarice Lispector, anche lei ebrea ashkenazita, anche lei brasiliana – pernambucana – nata in Ucraina, vissuta in Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio. Clarice Lispector ha avuto la grande capacità letteraria di coniugare lo stile di Kafka con le epifanie di Joyce e la scrittura di Virginia Wolf, di costruire un insieme di testi straordinari, compresa una meravigliosa letteratura per l'infanzia.
Voglio qui citare un passo del testo di Grynberg, un passo che, come un ologramma, rappresenta l'intero suo testo in un frammento, che evoca, con originalità propria, l'eredità di Lispector:
Non sapeva né leggere né scrivere mia nonna, era mio padre che scribacchiava le sue preghiere interpretando quella confusione di lingue tra il polacco, l'ebraico e lo yiddish. Con la devota tenerezza di chi tocca le delicate pagine del Libro Sacro, lei conservava sul seno, sotto il vestito, quel resto sgualcito di carta da pane. Gli tendeva quel ritaglio e accompagnava con un sordo movimento delle labbra la calligrafia che disegnava il suo percorso da est a ovest, ricoprendo con il suo mameloshn la calligrafia della preghiera. Che qualcuno andasse a davenen (pregare in yiddish) davanti a ciò che restava dopo la distruzione del secondo Tempio era una promessa che doveva essere mantenuta finché fosse stata viva, tra i recessi di quelle pietre millenarie il suo messaggio si sarebbe ancora ordito, anno dopo anno una piccola striscia di carta purificata con le lacrime di sconforto e di devozione per i sopravvissuti alla diaspora. (p. 18-19)
Fra pochi mesi avrò l'occasione di incontrare a Rio Halina Grynberg, il piacere di conoscerla personalmente nel suo mondo, un mondo meraviglioso, una capitale della cultura, paese che, da Machado de Assis fino a Eduardo Viveiros de Castro, ha illuminato la letteratura del Novecento, il pensiero della libertà, la psicoterapia e la ricerca sociale – anche dentro periodi bui della sua storia – come pochi altri luoghi del mondo hanno saputo fare.
Halina Grynberg, Memoria ferita aperta. Mameloshn è stato tradotto da Vincenzo Barca.