In margine a Cacciari e De Martino / Manierismo e Umanesimo
Manierismo e Umanesimo. C’è un filo sottile che nell’ultimo saggio di Massimo Cacciari (La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, Einaudi 2019 di cui su doppiozero ha riferito Francesco Bellusci) lega questi due termini all’apparenza opposti. Opposti perché alla base c’è quasi sempre un’equazione molto semplice, ovvero, l’identificazione di Rinascimento e classicismo, qualsiasi forma di classicismo essendo per definizione l’esatta negazione del manierismo. Ammesso dunque che si voglia stabilire, per quanto implicitamente, un legame tra manierismo e umanesimo, è da quella fatale equazione che bisogna partire. E da lì parte, infatti, Cacciari. Gli umanisti non furono dunque i grandi riscopritori dei classici? Certamente, a patto però di intendersi su quel termine: “classico”. Di intendersi per non intenderlo, il classico, nel senso della pienezza, dell’armonia, dell’organicità e, insomma, dell’uomo come centro e misura dell’universo. Perché così lo intesero, invece, sul finire dell’Ottocento, una serie di autorevoli filosofi, filologi, storici dell’arte e della letteratura facendone il perno e la sostanza del cosiddetto Humanismus.
Contro questa conformazione discorsiva si scagliò, agli inizi degli anni Sessanta e con particolare lucidità, Michel Foucault: «L’eredità più pesante che ci deriva dal XIX secolo – e di cui sarebbe ora di sbarazzarci – è l’umanesimo [L’héritage le plus pesant qui nous vient du XIXe siècle – et dont il est grand temps de nous débarasser –, c’est l’humanisme]», aveva tuonato. E con lui, e prima di lui, erano stati gli Heidegger, i Lévi-Strauss e via dicendo. Del resto come dar loro torto dopo la catastrofe europea in cui era sfociato quell’ideale della Bildung umanistica sulla via che dalla Germania guglielmina conduceva al Reich di Hitler? E invece avevano torto. E avevano torto nel momento in cui finivano per gettare via l’acqua sporca col bambino dentro. Il modo in cui avveniva tale liquidazione, infatti, non faceva che ratificare l’idea di umanesimo esattamente nei termini dell’Humanismus, senza cioè minimamente distinguere tra questo prodotto del XIX secolo e quello straordinario fermento intellettuale che segnò l’Italia del Quattrocento.
Di fronte a questa fatale sovrapposizione Cacciari rivendica, appunto, la necessità di tenere nettamente distinti l’Humanismus, in quanto costruzione discorsiva fondamentalmente tardo-ottocentesca, dall’Umanesimo storico. Di quest’ultimo, infatti, Cacciari – attraverso la lettura dei testi del Petrarca, dell’Alberti, del Valla, del Machiavelli, di Pico, di Ficino e via dicendo – ci fornisce una visione che intende scardinare la prospettiva dell’Humanismus, per proporci invece un Umanesimo letto, sulla scia di Eugenio Garin, come «età di crisi, età assiale, in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma». È possibile che Cacciari cada qui nello stesso “errore” che egli rinfaccia a quei filosofi idealisti tardo-ottocenteschi colpevoli di aver considerato la lettura dei testi rinascimentali in funzione della propria «posizione teoretica». Tuttavia, la visione filosofica dell’Umanesimo proposta da Cacciari fornisce, a mio giudizio, degli strumenti euristici più plausibili e convincenti rispetto a quelli fino ad oggi elaborati dai paladini del cosiddetto “postumano”.
Quale umanesimo, dunque, oltre l’irricevibile Humanismus? Un Umanesimo inteso in quanto «età della crisi», appunto, che si muove sulla soglia che separa il sentimento della «fine di un Ordine» e il «compito di definirne un altro». E di definirlo sulla base di uno spietato realismo antropologico che rifugge sia dal pessimismo assoluto, sia dall’adulazione dell’umana virtù. Nessun uomo da salvare al centro, anzi, la lettura dei testi antichi conduce, secondo Cacciari, i grandi pensatori del Rinascimento alla consapevolezza della «drammatica complessità» e della profonda «miseria» dell’uomo disperso ai margini del cosmo. Un filo invisibile sembra allora legare Alberti e Leopardi, in uno dei passi più intensi e illuminanti del libro di Cacciari: «Il disincanto che svelle dalle radici, come in Machiavelli […], ogni possibile finalismo antropocentrico, che abbatte ogni boria o presunzione, ha in se stesso, tuttavia, il contraccolpo. Un’amicizia stellare lega Alberti a Leopardi anche in questo: quando ti sembra di esser giunto al fondo del pessimismo, proprio a quel punto devi scavare ancora; allora forse vedrai fiorire la Ginestra. Non si tratta di immaginare utopisticamente un “uomo nuovo”, ma di comprendere come da una stessa linfa possano maturare contrapposte possibilità». Il dramma dell’uomo del Rinascimento consiste allora nel suo essere «una summa di opposti», natura eminentemente anti-dialettica, fascio di dissonanze inconciliabili. Altro che armonica pienezza.
Da qui, a ben guardare, deriva una forma di esistenza improntata a un sostanziale manierismo, termine che Cacciari non usa mai, ma che è nelle cose, e che va inteso come un «Existieren als Maske», per dirla con Binswanger. Ma al contrario di quel che afferma la Daseinsanalyse, nel quadro descritto da Cacciari la maschera non è affatto una forma di esistenza mancata (come si intitola, appunto, il celebre saggio dello psichiatra svizzero tradotto da Enrico Filippini nel 1964) poiché qui l’atteggiamento manierista non sta in relazione a nessun mito della “Eigentlichkeit”, a nessuna metafora della pienezza, a nessuna necessità del verweilen. L’esistenza risolta in maschera è invece la forma necessaria dell’uomo che fonda il proprio esserci nell’inalienabile inquietudine che gli deriva dal «tremendo» dono della libertà, dall’essere libero da qualsiasi fine predeterminato dell’esistenza: «L’esserci umano», scrive Cacciari, «è un puramente possibile; libertà in lui non significa che pura apertura all’essere-possibile. Non ha certa sede […] non possiede un volto proprio né una figura definita. A suo arbitrio sceglie il proprio aspetto. […] Camaleonte l’uomo, […] in perenne metamorfosi; plastes et fictor di se stesso. Che è come dire: simulatore e dissimulatore». Quest’immagine dell’uomo implica l’instabilità, l’incostanza e il dissolversi di chi non ha mai quiete, da un lato, e la capacità di costruire, di organizzare, di dare forma alla propria esistenza, dall’altro. Dissolvenza e ri-figurazione. Entrambe sono immagini della finzione, del fingere come essenza stessa del vivere, qualità che «logicamente» nega all’uomo «qualsiasi sua centralità nell’ordine […] che sembra regnare nel cosmo».
Proprio in quanto costante processo di distruzione e ri-creazione, di dissolvenza e rimaterializzazione, l’esserci, come certa arte d’avanguardia, è un interrogativo e un’interrogazione continua, un compito inesauribile, «un perenne esperimento» sospeso tra il perdersi nel nulla e la necessità di manifestarsi come presenza, di presentificarsi. E qui, a me pare, la riflessione di Cacciari finisce allora per incontrare, in certo modo, il pensiero dell’ultimo De Martino, e in particolare la sua nozione di «ethos del trascendimento». L’esserci per l’autore della Fine del mondo (opera rimasta incompiuta, pubblicata postuma presso Einaudi nel 1977 e riproposta nel 2002 per la cura di Clara Gallini e adesso, come su queste pagine ha già riferito Pietro Pascarelli, in un’edizione totalmente nuova per i tipi del medesimo editore e la cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio) non è un’entità assoluta o metafisica, ma è sempre realtà immanente, storicamente e culturalmente determinata. Proprio questa condizione implica per l’esserci il pericolo di non darsi mai come presenza, di dissolversi nella situazione senza risolverla in valore.
L’esserci è sempre «essere per il valore (per la comunicazione, per l’intersoggettivo, per l’universalizzazione, per l’innesto concreto operativo nella società e nella storia)». È nel valore che l’essere diventa presenza nel mondo, il valore è la forma della presentificazione dell’essere oltre al quale c’è solo il non-essere. È proprio questo allora il rischio che corre la presenza dell’esserci, «il rischio di restar prigioniera della situazione, di non deciderla, di non andar oltre di essa, di non trascenderla, di non emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante» (cioè estetica). Il pericolo, in altre parole, è quello di «rifiutare il divenire come campo del progettabile e il fare come potenza progettante». Se dunque l’esserci si fonda sull’«ethos del trascendimento» inteso in quanto «energia oltrepassante le situazioni», esso tuttavia reca in sé costantemente il pericolo del crollo di tale ethos sicché la cultura umana finisce per configurarsi come una costante «lotta contro la tentazione del nulla che vulnera il dover essere per il valore».
Il modello umanistico proposto da Cacciari, l’uomo simulatore e dissimulatore, che è maschera oppure non è, che crollato il vecchio ordine si trova davanti al compito di doverne progettare uno nuovo, può essere definito proprio in quanto necessità di rinnovare costantemente il movimento verso il valore di fronte al pericolo di svanire nel nulla. Ciò che questa prospettiva esclude è propriamente la possibilità di un «trascendimento ultimo e definitivo». L’inquietudine, il dramma dell’uomo si fonda proprio in questo suo stato di perenne e insanabile precarietà, in questa sua miseria che lo obbliga ad assumere volti sempre nuovi, di risolversi in un’eterna finzione. «L’umanità», scriveva De Martino, «è ethos che si cerca, e appunto perché ethos (dover essere della vita per il valore, per l’intersoggettivo, per il comunicabile) si cerca senza trovarsi mai una volta per sempre».