Margaret Bourke-White: da Gandhi al filo spinato
Siamo nel 1936 e la prima copertina di quella che sarebbe diventata la testimonianza cartacea dei reportage più famosi della storia – dell’uomo e della fotografia – è opera di Margaret Bourke-White (1904-1971). Eccola, posta come prima immagine anche del percorso della mostra inaugurata a Camera che omaggia la fotografa statunitense. Manifesto tacito della potenza costruttiva americana e dello spirito del New Deal, l’immensa diga di Fort Peck dice già tutto da sola, sia sull’atmosfera di piena riforma che stava smuovendo gli Stati Uniti, sia sulla potenza dell’occhio di Margaret.
Pare Babilonia, infatti, l’edificio che si vede in questa immagine, le torri ciclopiche che allo spettatore possono far tornare in mente con un certo brivido Intolerance di David Griffith (1916), e quell’architettura assurdamente grande che, fino a quel momento, era emanazione soltanto degli imperi. Margaret Bourke-White fotografava già da una decina di anni, quando giovanissima iniziò a raccontare il mondo industriale, la forma della produzione, come si vede nelle immagini realizzate nell’acciaieria Otis a Cleveland.
La grande mostra che celebra la fotografa, Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960, è curata da Monica Poggi e conta più di 150 immagini, arricchendo il percorso già ben tracciato da Camera legato alla storia delle reporter più importanti della storia della fotografia (ricordiamo le passate su Eve Arnold, Dorothea Lange, Gerda Taro).
Nella sua lunga carriera, bruscamente interrotta negli anni Cinquanta a causa dell’insorgere del morbo di Parkinson, Bourke-White è stata portavoce degli accadimenti più significativi del suo tempo: dai primi attacchi bellici tedeschi contro l’Unione Sovietica, alla liberazione del campo di concentramento di Buchenwald, dalle insurrezioni contro l’apartheid in Sudafrica ai funerali di Mahatma Gandhi, nel 1948. Come fu, anche, ritrattista enfatica e a volte profondamente critica del proprio Paese, dilaniato da divari sociali ed economici. L’ossimoro sostanziale di cui è pervaso l’organismo statunitense è sotto gli occhi di tutti, d’altronde: sotto un cartello che dichiara che l’America possiede “Lo standard di vita più alto del mondo” (“World’s Highest Standard of Living!”) una fila di afroamericani sfollati a causa delle alluvioni aspetta viveri e vestiti in un’immagine del 1937. Un parallelismo diretto, questo, con quanto si è visto di recente nelle sale di Camera a proposito del lavoro di Dorothea Lange, là dove i lavoratori costretti a migrare in California a causa della Dust Bowl si vedevano sormontati dalle pubblicità sulla comodità del viaggio su rotaie: “Next time try the train!” (La prossima volta prova il treno!).
Con un gusto formale per le inquadrature miracolosamente in anticipo sul suo tempo, Margaret Bourke-White era bravissima, tra le altre cose, a miniaturizzare l’umano per farlo inglobare dal mondo che gli è attorno, quello che in quel momento lo confina dentro un contesto preciso, a volte schiacciandolo in un angolo. Si presenta così il soldato dentro il suo aereo da combattimento, così l’operaio che stringe i bulloni sulla diga di Dnepr, totalmente avvolti come sono nel loro universo e destino.
Creare un rapporto tra gli elementi inquadrati secondo un criterio di proporzione è solitamente il modo più efficace – e Margaret Bourke-White ne era brillantemente conscia – per stabilire la forza narrativa delle immagini. È evidente nella fotografia della diga di Fort Peck, quei due lavoratori sovrastati totalmente dall’opera che stanno costruendo; ma si prenda anche ad esempio l’immagine del primo attacco tedesco su Mosca della notte del 26 luglio 1941. In quel momento Bourke-White si trovava in Unione Sovietica per svolgere un reportage sulle nuove riforme del piano quinquennale voluto da Stalin quando la Germania iniziò l’attacco. Per quel tempismo provvidenziale che hanno solo alcuni reporter, quella notte riuscì a salire sul tetto dell’ambasciata americana di Mosca potendo vedere la tragedia che stava iniziando a sconvolgere la città. Dietro le guglie del Cremlino, nere ed enormi, il cielo è tagliato dai fulmini del bombardamento, scie e punti luminosi lasciati dai proiettili. L’uomo, in uno scenario del genere, anche se assente nell’immagine, è ben individuabile idealmente dalle proporzioni già tracciate dagli elementi presenti: apparirebbe minuscolo sulle sponde del Moscova, ai piedi del Cremlino, quasi invisibile nell’accecamento generato dagli ordigni bellici.
Una parentesi: pur scattando la fotografia all’improvviso, senza alcun tempo preliminare per prepararsi, Margaret Bourke-White ha dato vita a un’immagine perfetta, in cui la luminosità estrema dei proiettili è calibrata in modo da lasciar vedere i profili delle case, e addirittura il riflesso delle guglie sull’acqua del fiume. Questa doppia spettacolarità – di contenuto e di realizzazione fotografica – mi ha fatto pensare a un’altra immagine, sempre casualmente realizzata nel 1941. “Moonrise Hernandez” di Ansel Adams, in cui si vede il paesaggio del New Mexico su cui la luna sorge illuminando le tante piccole croci bianche di un cimitero. Anche in quel caso fu questione di un attimo, con l’esposizione da prendere al volo perché niente scomparisse nell’ombra o venisse bruciato dal troppo chiarore.
Torniamo a Margaret Bourke-White, impegnata a raccontare il mondo secondo i fatti: con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale fu la prima donna a seguire le forze di aviazione statunitensi. Dall’Unione Sovietica alla Germania, dal Nord Africa all’Italia, la guerra è un unico giorno ininterrotto di scenari uguali: le vedute aeree sulle città tedesche distrutte, gli abitanti napoletani sfollati e costretti a vivere in una grotta, la fame generale per le strade. Nel 1945, il giorno della liberazione da parte dell’esercito statunitense del campo di concentramento di Buchenwald, Margaret Bourke-White era lì. Ed era lì, aggiungiamo noi, insieme a un’altra celebre fotografa, Lee Miller (ecco quando il metodo monografico con cui concepiamo la storia della fotografia scopre i punti di congiunzione della sua stessa rete) entrambe impegnate a documentare l’orrore negli occhi dei tedeschi che abitavano vicino al lager e di cui ignoravano l’esistenza, portati dai soldati a guardare cosa stava succedendo dietro le loro case. Così vediamo i viali invasi dai corpi lasciati morire per terra, la pelle tolta dai cadaveri per conservarne i tatuaggi, i cassoni pieni di salme.
I tedeschi scortati dentro i campi perché ne scoprissero la verità dicono più di quanto si potrebbe: perché si possa prendere davvero coscienza di una realtà simile non può bastare una fotografia, bisogna andare a vedere, essere obbligati a guardare. Una delle immagini più celebri di questo momento è quella che ritrae i prigionieri dietro il filo spinato, immobili e illuminati. Appena cinque anni dopo, Bourke-White avrebbe incontrato una scena identica, dall’altra parte del mondo: a Johannesburg, in Sudafrica, erano infatti “Uomini e bambini nativi in piedi davanti alla recinzione di filo spinato che delimita le loro case, nella squallida e sudicia baraccopoli di Maroka che ospita 60.000 nativi alla periferia della città”. La storia, più che ripetersi, pare imitarsi, e anche qui vediamo adulti e bambini traguardare il mondo attraverso il reticolato della barriera che li confina (scena tristemente speculare della fotografia stessa).
Sempre in Sudafrica Margaret Bourke-White fotografa le manifestazioni contro l’abuso di potere e il razzismo dei coloni bianchi, gli afrikaner, e le condizioni di sfruttamento dei minatori, abituati a non uscire dalle profondità delle cave in cui lavorano. “Se non fossi dovuto andare dal dottore non sarei neanche salito quassù. Il dottore non era disposto a scendere, quindi sono salito io”, si legge in una pagina significativa messa sotto teca in mostra. La visione sociale e politica di Bourke-White è apertamente schierata a supporto delle classi sopraffatte, e questa chiarezza traspare dalla lucidità con cui componeva le immagini intrise dell’ipocrisia sociale che colpiva anche il suo Paese.
Che si immerga personalmente nelle situazioni che fotografa o che si ponga da un punto di vista diverso, il fotografo ha sempre uno sguardo privilegiato per il solo fatto di poterne dimostrare il passaggio, l’esistenza, la prospettiva sulle cose. Margaret Bourke-White era abituata a sondare tutte le possibilità di questo privilegio, non vincolando la vista a ciò che poteva osservare da terra. Sono note, infatti, le sue immagini prese dall’elicottero – letteralmente legata e calata a mezz’aria – in cui gli scenari che vedeva subivano il normale ridimensionamento – l’estrema miniaturizzazione – della prospettiva aerea. Tutto, da lassù, soggiace a nuove regole tacite, tutto diventa l’unica forma delle diverse parti mobili che la compongono: il brulichio dei cappelli sulle teste di decine di uomini a passeggio, i grattacieli sorvolati da un aereo, tutto è a una distanza in cui i complessi meccanismi sociali e loro storture si silenziano. Fu Oscar Graubner, nel 1932, a realizzare il ritratto più famoso di Margaret Bourke-White in cima al Chrysler Building, in cui la si vede seduta sul doccione a forma di aquila mentre inquadra dalla sua macchina a soffietto. Lì, il mondo che avrebbe raccontato così da vicino, il sorriso di Stalin e l’arcolaio di Gandhi, lo scoppio assordante degli ordigni durante la guerra, il rumore delle acciaierie, le grida dei popoli in rivolta, lo sguardo dei prigionieri liberati semplicemente non esistevano ancora.
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La mostra Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960 curata da Monica Poggi sarà visitabile fino al 6 ottobre a Torino presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia con un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore.
In copertina, La fotografa di LIFE Margaret Bourke-White, vestita con una tuta di volo in pile e con la macchina fotografica aerea in mano, in piedi davanti al bombardiere Flying Fortress dal quale ha realizzato fotografie di guerra durante l’attacco statunitense su Tunisi, Algeria, 1943, Margaret Bourke-White/The LIFE Picture Collection/Shutterstock.