Maurizio Marotta: il senso del viaggio
«Dei miei viaggi è rimasto il loro senso ultimo, la perentorietà dei dati reperiti e rimasti attraverso il filtraggio degli anni e lo spegnersi della febbre del momento. […] È quindi fatale che viaggiando scriva delle poesie. Cose passate sulla mia pelle, e dentro il mio sangue».
Nel leggere Ombra da viaggio, il bel volume, edito da Giometti & Antonello e curato da Roberto Deidier, che raccoglie il corpus poetico di Maurizio Marotta, ho immediatamente pensato a questa dichiarazione rilasciata da Cattafi – non a caso una delle letture favorite del poeta – a Enzo Fabiani. Nell’universo Marotta, lo stesso triangolo poesia-viaggi-senso assume un ruolo cruciale, come emerge dall’introduzione del curatore: «La poesia è un viaggio senza ritorno, ci suggerisce l’autore; o, quanto meno, il ritorno è l’esperienza, a voler riprendere Rimbaud […] di un dérèglement, non solo dei sensi, ma direi proprio del senso, se si passa il gioco di parole».
Il senso ultimo del viaggio di Marotta, da «viaggiatore oscuro» della provincia cilentana a osservatore “distante” della realtà («È una vita da poeti / in pensione, questa. / Dismessa»), sembra seguire un andamento parabolico, dal privato al privato, etereo eppure concretamente vivido, come una paralisi da sonno che risveglia in piena notte e coi muscoli contratti, lasciando la necessità di attestare che quanto passato nel sangue non scompaia al rilassarsi del corpo. La poesia, dunque, come uno spasmo muscolare («Viaggiare nelle lettere fa male / è pungere la mente con parole / che chissà, ci fanno fare / facce storte, smorfie / o un’aria divertente»), un logorio che si finge di ignorare, ma che resta la «miccia / d’ogni dolore e fantasia» da cui non ci si può separare.
Ombra da viaggio, riunendo tutte le produzioni marottiane edite – comprese le traduzioni – a quelle inedite e disperse, permette al lettore di seguire con gli occhi gli stessi itinerari fisici e mentali percorsi dal poeta, a partire da I cappotti morti (1989), in cui, secondo Gianni D’Elia, a «figure di viaggio e spostamento, ricordi chiari di un domestico giardino protetto del Sud, piccole angosce di stanze studentesche del Centro-Nord, disagi provinciali di attese da pendolari un po’ privilegiati e attoniti» fa da controcanto l’amore «centrale, nel viaggio onirico e vigile verso se stessi, così i corpi hanno tremori e il “sudore lieve” dei sogni infantili riaffiorati». Il cappotto si fa emblema:
Lui l’avrebbe vista, lunga, stesa
uscito appena dalla stanza
la grande morte del cappotto
preso lì, tra le sue braccia.
Poi, dopo anni, ai suoi
veramente rigidi, appeso.
Ma in verità era vita
quello che vestiva
in abito, perduto.
Nato già morto esso è reliquia di vite, “tana” entro cui ripiegarsi, mantello epifanico con cui affrontare il meteo avverso e «lucido» che apre alla realtà, prima di tornare ossario per permettere al poeta di lasciarsi alle spalle la propria giovinezza.
Con Il cielo dai balconi (1991) la visione si allarga, si percepisce, con le parole di Giuliano Donati, «un Marotta più disilluso e concreto, che scandisce con ritmi precisi una musicalità più aperta […] e più spontaneamente abbandonata alle immagini, alle vedute ampie e nitide della realtà». La città invade il campo, intensificando il processo di decentramento e scomposizione dell’uomo, di cui restano solo i lasciti emotivi:
Chi sa dov’è che intanto scorre
l’icona che talvolta splende
mutabile per queste strade
nere, tormentose di fanali.
E poi chi sa se è vero
se in vita si conoscono persone
o solo brune immagini
che una pietà indistinta donano
quando i passanti incrociano
lo sguardo di perdono e il desiderio.
I tetti delle case offrono nuove visioni idilliache («Guardale da qui le antenne / e dimmi se non sono belle, bellissime, / e veritiere se qualcuna inclina»), i boschi diventano luoghi di disincanto e morte pronti a cancellare in un attimo qualsiasi residuo fantastico («Ma basterebbe un’aria a sollevare / tutte queste cose lente, / a uccidere per sempre mostri e fate / in un battibaleno»), la lingua si raggela e congeda un mondo «iniquo».
Con la terza raccolta, Ombra da viaggio, che solo adesso vede la luce dopo una lunga, silenziosa e sommessa gestazione editoriale che l’aveva confinata all’interno di un computer, si aggiunge una «ulteriore tappa di un’incessante viandanza interiore». Lo stesso titolo, come ci indica Deidier, è variazione di un titolo di Nietzsche, Il viaggiatore e la sua ombra; infatti, nonostante a primo impatto si possa dubitare degli effettivi punti di contatto tra i due, «chi osserva, nei versi di questo poeta, è sempre al di là di una parete, percettiva e privata e insieme collettiva, culturale: è qualcuno che parla da una dimensione di oltre-umanità, ben più antica delle assuefazioni sociali in cui ci si imbatte, della routine, dell’abbandonarsi». Marotta gioca a sfumare, il ragazzo che era, «ora è come uno messo in fila. / Sta a guardare nell’attesa chi lo spinge», è nuovamente necessario documentarsi su «che parte del mondo è questa adesso / dove si cammina», lasciando partire un’indagine che faccia prendere coscienza della situazione attuale («nuotando, qui sotto, non per cambiare, / restiamo sepolti tra quanti / i più morti di tutti»), ricostruisca l’uomo e le sue origini («Sono spariti i numeri a carbone / tracciati da un’infanzia sopra i muri»), e riporti le ombre perse nel buio memoriale («e forse è qui il ritorno di chi manca / in quello stare della strada senza un’ombra»).
Alzare la testa verso «un cielo per noi non visibile, astratto» è il primo passo, riscoprire il senso di mistero che accompagna il viaggio verso l’ignoto l’unica via:
Allora è meglio che sia
come d’uno che salga le scale fischiando
e arrivato alla porta di casa la passi,
se ne vada più sopra su un alto terrazzo
a vedere cosa c’è nel cielo
e cosa manca agli uomini.
Completano il volume una nutrita sezione di inedite e disperse e le traduzioni, edite nelle plaquette di Gaetano Bevilacqua, promotore e amico intimo del poeta.
Il mondo visto da Marotta, questo proliferare di ombre figlie della luna («tua madre calante / ogni sera di più che nasconde») e della provincia («dove niente già sia stato / se non lasciarsi andare / confondersi e guardare ancora») che si riversano nel mondo per incontrare altre ombre, simili e opposte, la presenza naturale come mezzo dimenticato per esprimere l’interiorità di un singolo che ha smesso di voltarsi indietro («c’era un poco un me non visto / in quel discorso breve delle piante»), appare oggi quanto di più vicino alla condizione umana. Una condizione in continua sottrazione, che ci ha ridotto a cretti, spaccature entro cui cercare un altrove in cui trovarsi:
Di quei contemporanei per la via
si fa indistinto il segno e del profilo
si vede adesso solo un cretto.
Passare tra i vivi remoti,
facendo lontane le voci
o accogliere uguali destini
passati di mano in mano?
La scelta che ci viene posta davanti riattualizza la «social catena» leopardiana in una dimensione nuova: se «tutta l’aria intorno è un novecento», allora «noi dai sogni irresoluti, araldici e incompiuti», possiamo legare solo in una dimensione astratta, percorrendo la pista della vita col testimone teso a cercare il prossimo componente della staffetta. Riprendendo le parole di Deidier: «la poesia di Marotta riafferma in ogni suo singolo segmento questa altalena tra individuale e collettivo; lo sguardo del poeta scorre dall’alto al basso, dalle libertà celesti alle fatiche quotidiane senza soluzione di continuità. E in quel discendere penetra nelle zone più intime, invitando il lettore a farsi carico di vecchie e nuove responsabilità».
Affrancarsi dal cappotto della dimensione privata e affacciarsi al balcone della socialità ci ha resi consapevoli della nostra neonata fragilità urbana («Dentro i portoni / si è bolle, persone / subito andate se il sole le punge»): sta a noi accettare il testimone, alzare gli occhi e riconoscersi, oppure chiudersi nuovamente, in una dimensione distante, assuefatta, dove «gli uomini che tutti ci assomigliano» hanno scelto di essere lontani dal «vivere civile». Ma quest’ultima via è una mera dimensione illusoria, il destino – come il tempo – è una ruota e come tale continuerà ad avanzare finché «i vivi prossimi», e la più stretta attualità ce lo conferma continuamente, «ci chiederanno / perché ci siamo abbandonati / a questa prima vita che incontrammo».