Oltre l’enigma della maternità
Dopo la sua breve comparsa negli anni Settanta – dal movimento non autoritario nella scuola al femminismo –, la psicanalisi è sembrata eclissarsi dal posto che inaspettatamente era venuta ad occupare nella politica. Nel suo “viaggio attraverso la psicanalisi e oltre” Elvio Fachinelli, insieme al gruppo che si formò allora intorno alla rivista “L’erba voglio”, aveva aperto la porta a nuovi inquietanti interrogativi su ciò che “in apparenza ci è più familiare e consueto”. Nel commento ai suoi articoli usciti nel ‘68 – “Il desiderio dissidente”, “Gruppo chiuso o gruppo aperto?” – diceva che ad aver “scandalizzato” gli psicanalisti era stato il “brusco allacciamento che aveva fatto “tra la figura dell’autorità familiare e lo stato di questa figura nelle società capitalistiche avanzate”, tra la madre vista nel suo ruolo genitoriale e il fantasma di madre “saziante e divorante” quale stava facendosi strada nella società dei consumi, a fronte di un patriarcato in evidente declino. Aver individuato come luogo specifico della realtà umana “il passaggio del bambino da essere biologico a essere inserito nell’universo simbolico proprio dell’uomo, un passaggio che avviene sulla base di una peculiare inter-relazione tra il bambino e l’altro, gli altri, che si prendono cura di lui nel periodo della sua maggiore dipendenza”, significava uscire dalla contrapposizione duale natura/cultura, biologia/ storia, per scoprire “nessi” che ci sono sempre stati tra aspetti inscindibili dell’umano.
Ancora più rivoluzionario è stato in quegli anni il ribaltamento che il femminismo ha fatto tra vita personale, sessualità e politica. Sottrarre il corpo e le passioni che lo attraversano al confinamento nel “privato” e nell’ordine della “natura” significava ripensare la storia, la cultura e la politica a partire da tutto ciò che avevano cancellato e dalla rappresentazione maschile del mondo, interiorizzata e quindi in gran parte inconscia, con cui erano arrivate fino a noi. Il riferimento alla psicanalisi, se non alla pratica analitica, diventava imprescindibile per non sottrarsi a vie di fuga ideologiche. Intorno a questo interrogativo si sono mossi per un decennio i gruppi femministi dell’autocoscienza e della pratica dell’inconscio, per prendere poi negli anni successivi strade diverse.
A riportarmi alle esigenze radicali e presto abbandonate di quegli inizi è stato il libro illuminante di Manuela Fraire, La porta delle madri, Cronopio 2023. Femminista e psicoanalista, Fraire si è trovata nella situazione ideale per ripercorrere la storia di un movimento che, per quanto radicale nella sua ridefinizione della politica, si è tuttavia lasciato dietro molti tabù o zone oscure, enigmatiche: prime fra tutte, la maternità e l’amore, i ruoli genitoriali considerati “destino naturale” del maschio e della femmina, la famiglia patriarcale nel suo assetto binario, come coppia formata da un uomo e da una donna. “Nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale (…) In alcune posizioni femministe si tende a non fare distinzione tra genere e sessualità”, e questo porta, è la conclusione, a “una deriva desessualizzante”. Nel momento in cui era necessario chiedersi quanto la modificazione di sé, legata alle pratiche dell’autocoscienza e dell’inconscio fosse in grado di “sconvolgere” i saperi e i linguaggi che avevamo appreso senza poter scegliere, per una parte consistente del femminismo il rapporto tra sessualità e simbolico aveva visto il linguaggio mettere a tacere il desiderio erotico, il sesso scomparire dietro le “pratiche discorsive” (I. Dominjanni).
Da dove ricominciare se non da quella “porta delle della madri”, che nel suo enigmatico annodamento di natura e linguaggio, di pulsioni sessuali e cure per il corpo del bambino resta ancora chiusa a garanzia, come scrive Fraire, “di due diverse forme di godimento: per l’uomo l’impossibilità di penetrare nel mistero che avvolge la maternità e per la donna legato alla impossibilità di rinunciare a incarnare, in quanto madri, l’oscuro oggetto del desiderio”? Se Freud era arrivato sulla soglia di quella prima dimora degli umani e aveva detto con molta chiarezza che la madre “riversa sul bambino sentimenti che derivano dalla sua propria vita sessuale”, tanto da farne un “oggetto sessuale a tutti gli effetti”, la sua posizione androcentrica lo avrebbe portato poi a chiuderne di nuovo la porta, limitandosi a definirla come “alloggio del pene e del bambino” e a concludere con Napoleone che “l’anatomia è il destino”. Riconoscere, come scrive Fraire con riferimento a Laplanche, che la pulsione sessuale è di origine relazionale, legata alle cure al nuovo nato, e che viene prima della costruzione di ruoli e identità di genere, significa che, una volta che il bambino è nato, a garantirne la sopravvivenza non è necessariamente la madre – come è stato per millenni il destino ‘naturale’ della donna – ma la “compresenza di adulto e infans”. Se è ancora necessario, nonostante i tentativi della scienza di sostituirlo, un corpo femminile all’interno del quale possa avvenire la gestazione, questo “non fa di una gestante una madre, mentre è sicuramente una procreatrice”.
“Un’altra persona può diventare o essere stata la madre, o meglio una delle madri. La cosa più difficile da pensare è proprio questa: che ci sia più di una madre”. Sono le parole che Fraire riprende da Derrida nell’intervista con Roudinesco ( J. Derrida, E. Roudinesco, Quale domani?, Bollati Boringhieri 2004)), diventata per lei una guida al suo scritto Patriarchi, padri, uomini, in cui ribadiva la convinzione che, se gli uomini cominciassero dalla nascita ad allevare un bambino, senza la salvaguardia di una donna, ciò porterebbe a un “allargamento della vicenda della specie”, una genitorialità “non identificata né con il materno né con il paterno, una posizione non di genere, non binaria”. La necessità di un paradigma nuovo viene oggi, dice Fraire, dalla messa in discussione della famiglia patriarcale, che non si presenta più come l’erede di Edipo e del nome del Padre lacaniano, dal fatto che l’aumento del potere della madre “ha spodestato il padre della funzione di agente della simbolizzazione”. La rottura con l’ordine naturale, la fusione o unità a due con la madre, avviene alla nascita con l’introduzione del linguaggio, per cui è all’ideologia patriarcale che andrebbe addebitato il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria all’esperienza amorosa adulta.
È un’affermazione che trova la sua immagine suggestiva nelle ultime pagine del libro, e, non a caso, là dove si parla della diversità tra l’innamoramento e l’amore: l’“atteso”, scrive Fraire, è la figura che si impone in una solitudine abitata dal sogno di presenze salvifiche, e perciò familiari, conservate nella memoria del corpo fin dalle prime relazioni infantili. È Nausicaa che non si impaurisce vedendo Ulisse, perché già anticipato da Atena. L’“ospite”, al contrario, è l’uomo che vedono le ancelle, di forma diversa da quella che la nostra immaginazione vorrebbe, e da cui in un primo momento si ritraggono. L’ospite è, in senso letterale, l’inatteso, separato da noi e con una sua fisionomia irriducibile alla stoffa dei nostri sogni. È in una “terra non di solitudini ma di solitari che lo si incontra”. Tali si possono considerare anche le due “unicità”, singolarità, che si incontrano alla nascita. L’essere che viene al mondo dopo il parto, scrive Fraire, “si srotola, si dispiega e nel fare questo piange. Di dolore o per prendere aria nei polmoni? Da questo momento infatti il suo corpo funzionerà come unità separata da qualsiasi altra.” Non sfuggono alla donna che ha tentato di far dialogare le consapevolezze del suo percorso femminista con gli interrogativi della sua pratica analitica, i dubbi e gli interrogativi che è destinata a sollevare questa affermazione.
Non sono le donne stesse a mantenere saldo quel codone ombelicale col figlio che si prolunga a volte per tutta la vita, come se portassero inscritta nel loro corpo l’attesa di una riunificazione? “Come dire che non v’è desiderio dove non c’è perdita e non c’è incontro se non in patria”. La risposta sembra darla il racconto di Omero, mostrando nelle ancelle e in Nausicaa le due facce del desiderio femminile.
Un altro tema che ritorna ripetutamente in un libro così attento ai cambiamenti che riguardano la famiglia patriarcale e la messa in discussione del binarismo dei generi, non poteva non essere la discussione che si è accesa intorno alla Gpa, con conflitti a anche all’interno del femminismo.
Il riferimento per Fraire è ancora Derrida: la condizione di madre non è mai riducibile a quella di genitrice, “bisognerebbe sviluppare la distinzione tra madre e maternità, fra desiderio di essere madre e desiderio di maternità”. Insieme alla “porta delle madri” sembra essersi felicemente aperta di nuovo anche la porta che ha allontanato la psicanalisi dalla riflessione sull’agire politico, quale è stata per i movimenti non autoritari degli anni Settanta.