C'era una volta / Peter Mitterhofer e la macchina da scrivere
C’era una volta la Cacania. Come dice Musil lì era tutto "kaiserlich-königlich", imperial-regio. Lo testimoniano ancora le K.K. impresse sui tombini nelle strade di Merano.
E nella Cacania – che si spingeva appunto anche nel Sud Tirolo, detto oggi Alto Adige – c’era un brav’uomo di nome Peter Mitterhofer. Proprio negli anni in cui governava Cecco Beppe e la “sua” Sissi, divideva gli animi tra entusiasti e denigratori. Si racconta Peter fosse molto amato dai bambini, che probabilmente vedevano in lui qualcosa di simile a Emmett "Doc" Brown (Christopher Lloyd), lo “scienziato pazzo” che in Ritorno al futuro di Robert Zemeckis (1985) affascina il giovane Marty McFly (Michael J. Fox) o, per chi se lo ricorda, a Maurizio Nichetti in Ratataplan (1979).
Viveva a Parcines, oggi poco più di 3.500 anime in provincia di Bolzano, 7 chilometri e mezzo da Merano, 626 metri sul livello del mare, circondato da vette che, seppur non vertiginose, vien voglia di salirle solo a vederle. I suoi concittadini non lo prendevano troppo in considerazione. Sì, era un bravo falegname, come suo padre, ed aveva imparato anche a fare il carpentiere. Ma un po’ troppo bizzarro, faceva cose che era difficile comprendere a cosa davvero servissero.
Amava la musica, ma quando sei in bolletta avere uno strumento per suonarla non è così semplice. Da quelle parti gli alberi non mancano. Lui si mise lì e dal legno tirò fuori non solo una chitarra e una cugina della cetra, ma anche il Glachter. Era una via di mezzo fra un pianoforte mignon e uno xilofono, dal quale uscivano armonie prodotte premendo dei tasti che azionavano altrettanti martelletti sempre di legno i quali andavano a colpire piastrine anch’esse di legno, ognuna sagomata in modo da dare un suono diverso dall’altra.
«Peter con il Glachter!» lo scherniva la gente del posto. Incurante delle malelingue che non mancano mai né in un paese né in una metropoli, Mitterhofer – sega, martello, bulini e scalpello in mano – s’ingegnò anche un aggeggio assai rudimentale che potremmo considerare l’antesignano della lavatrice.
Ma la sua “fissa” erano le lettere dell’alfabeto, le a, le b e così via, comprese quelle che in tedesco hanno l’umlaut, cioè i due punti sopra – così ü o così ö per capirsi – che noi erroneamente chiamiamo “dieresi” mentre si tratta di “metafonesi”.
S’era cacciato in testa, a metà Ottocento, di servirsi di un nuovo marchingegno anziché di calamaio e penna: perché solo nel 1945 nasce la Bic di Marcel Bich, in realtà biro, come l’ha chiamata Italo Calvino dando atto che ad inventarla fu l'argentino-ungherese László József Bíró un paio d’anni prima guardando il segno che una biglia lasciava sulla sabbia. Mentre la stilografica – la cui invenzione se la contendono nel 953 un ignoto scriba dell'Imam fatimide d'Egitto, al-Mu'izz li-Din Allah e, alla fine del Quattrocento, Leonardo Da Vinci, oltre a una selva di apocrifi – è sempre stata, ed è, roba per pochi eletti.
Così, incastrando stecche e tasselli di legno, costruì il primo modello di quello strumento senza il quale Steve Jobs e Bill Gates sarebbero nessuno e chi sta scrivendo questo articolo, così come chi lo legge, annasperebbero: la macchina da scrivere.
Sì, quell’arnese con cui, fino agli anni Ottanta, le segretarie, dopo aver stenografato, mettevano in bella e anche duplice copia la lettera dettata dal capo, gli scrittori davano corpo alla loro fantasia e i giornalisti raccontavano quel che vedevano in giro per il mondo: indimenticabile è la foto di Indro Montanelli seduto su uno scalino con la Lettera 22 della Olivetti sulle ginocchia.
Peter Mitterhofer se la cavò dal cervello, dandole il nome Vienna, e la cesellò con il bulino nel 1864, lo stesso anno del massacro di Sand Creek in Colorado e del passaggio della capitale d’Italia da Torino a Firenze.
«È un fallimento!», ammise nella sua autobiografia. E l’anno successivo ne costruì una migliore chiamata Dresda, che rispetto alla prima consentiva di vedere impressa sul foglio la lettera battuta. Ne fece poi una terza, una quarta e una quinta, l’ultima nel 1869.
Questa la racchiuse in una custodia, anch’essa di legno, che la proteggesse e consentisse di trasportarla più agevolmente. Cosa che fece andando a Vienna dall’imperatore Francesco Giuseppe I. Il quale gliela comprò per 150 fiorini, ma anziché servirsene per mandare chiari ordini ai suoi sudditi galiziani, serbi o ungheresi, come avevano fatto con la penna d’oca o lo stilo Tutankhamon e Adriano, la regalò all’Istituto Politecnico della capitale austriaca, senza dar troppo peso a quello che gli era passato per le mani.
La sorte di Peter Mitterhofer e della sua macchina da scrivere inizialmente fu questa: incomprensione, o quanto meno sottovalutazione.
E siccome le idee sono come le farfalle e volano un po’ dove gli pare e non nascono tutte sotto lo stesso albero, qualche anno dopo – dieci per l’esattezza – nel 1874, a Milwaukee nel Wisconsin, Christopher Latham Sholes, con altri due soci, mise in produzione, servendosi del metallo anziché del legno, quello che Mitterhofer aveva invano intuito prima.
È a Sholes che dobbiamo la cosiddetta tastiera qwerty, quella che nella prima riga a sinistra ha in sequenza queste sei lettere, com’è pressoché in tutti i computer, compreso il Mac su cui viene digitato questo articolo.
Sholes finì per vendere il brevetto alla Remington, l’azienda che dal 1816 a Ilion Gorge vicino a New York produceva fucili la cui precisione ha dato del filo da torcere anche al Winchester. Sparando proiettili e parole la Remington, a cui si deve il celebre Springfield M1903 impiegato dalle truppe americane durante la seconda guerra mondiale, ha conosciuto Wall Street. Mitterhofer, invece, finì nell’oblio e morì in solitudine.
A contendergli il primato, ad onor del vero, si annovera anche il conte Agostino Fantoni che a Fivizzano – paesino della Lunigiana a ridosso delle Apuane definito dal Carducci «una perla sperduta fra i monti» – nel 1802 inventò “Una preziosa stamperia”, ovvero una macchina da scrivere che imprimeva le lettere con carta carbone, invenzione anch’essa attribuita a Fantoni, e un’altra macchina, anticipatrice dell’alfabeto braille messo a punto nel 1821, per la sorella Carolina diventata cieca. Sulla sua scia Piero Conti nel 1823 e Giuseppe Ravizza nel 1846 – quest’ultimo brevettando il cembalo scrivano – si cimentarono con la macchina da scrivere per ciechi.
Ma il buon vecchio Peter Mitterhofer, per quanto dai posteri misconosciuto e dai suoi contemporanei quasi deriso, rimane là nell’empireo. E a Parcines, 3.500 anime nella cara antica Cacania, nel 1993 gli hanno dedicato un piccolo museo. Un museo cresciuto negli anni e diventato ora una strabiliante esposizione di macchine da scrivere d’ogni genere e tipo: più di mille di cui 350 esposte.
Ma, ben oltre, lo Schreibmaschinenmuseum (www.schreibmaschinenmuseum.com) è un percorso che prende le mosse dai caratteri cuneiformi degli Ittiti, dalla Stele di Rosetta e dall’Apocalisse di Giovanni stampata da Gutemberg, passa, senza ignorare Sholes, per la Frister & Rossmann del 1892, la prima macchina da scrivere industriale tedesca, l’Hammonia, la Columbia, la Graphic, la Pocket Typewriter di solo 130 grammi, la Keaton Music che di tasti ne ha solo 33, la Blickensderfer a testina rotante, l’Underwood 5 che vendette 12 milioni di esemplari, l’Olympia, la mitica Lettera 22 dell’Olivetti progettata nel 1950 da Marcello Nizzoli.
Ce ne sono a battuta dall’alto e a battuta dal basso, con martelletti o simili alle linotype che devi schiacciare il foglio sul carattere per imprimerlo, circolari o piane, elettriche e portatili, col rullo, a tamburo, col nastro inchiostrato o una cosa simile alla carta copiativa, per scrivere in ebraico o in giapponese, anche per comporre una sinfonia o un concerto con il do-re-mi al posto dell’a-b-c. Insomma, se si ama la scrittura, e quello che essa trasmette, c’è da perderci la testa.
Rende onore all’emancipazione femminile che la macchina da scrivere contribuì a sviluppare riempiendo gli uffici di segretarie dattilografe, correla con la storia delle calcolatrici per finire al connubio derivato dai due arnesi che è stato prima la macchina di Turing o l'ENIAC di John Presper Eckert e John Mauchly e poi il Pc o l’Apple e adesso l’I-Pod.
Espone, ed è un colpo al cuore vederlo, il marchingegno semisferico, all’apparenza impossibile da usare, su cui Friedrich Nietszche impresse buona parte dei suoi irrinunciabili testi, affiancato da un poster ad esso dedicato dall’artista americano Joseph Kosuth per iniziativa del Museion di Bolzano.
Così come è un colpo al cuore vedere una riproduzione pressoché identica di Enigma, la macchina crittografica utilizzata durante la seconda guerra mondiale per criptare e decifrare i messaggi segreti che avrebbero potuto compromettere l’esito del conflitto, sulla quale è fiorita una sterminata produzione libraria e cinematografica.
Lo Schreibmaschinenmuseum, ben tre piani di esposizione, è del Comune di Parcines e vive con il sostegno della Provincia autonoma altoatesina e della Fondazione della locale Cassa di Risparmio. Chi ci entra non sente la sinfonietta inscenata in una celebre gag di Jerry Lewis che suonava la macchina da scrivere senza averla sotto le mani, ma il ticchettio in testa, qualunque esso sia, bisogna che ce l’abbia.