Religioni della morte. I volti della Cultura di destra in Furio Jesi

26 Maggio 2011

Dopo quasi venti anni dalla seconda edizione torna nelle librerie Cultura di destra di Furio Jesi, mitologo, critico letterario, germanista e allo stesso tempo molto più di questo. Uscito per la prima volta nel 1979, l’anno precedente alla tragica scomparsa dello studioso torinese, il libro è uno dei suoi testi più profondi, luminosi e incandescenti, prova di una scienza della cultura situata al crocevia tra storia delle idee, antropologia, semiotica e narratologia e, per le polemiche che porta con sé a ogni pubblicazione, cartina di tornasole del dibattito sulla cultura di destra in Italia. La nuova edizione di Nottetempo, curata da Andrea Cavalletti, regala ulteriori elementi del cantiere jesiano presentando alcuni inediti di grande interesse, su tutti lo splendido Il cattivo selvaggio, un breve saggio sulle logiche implicite del razzismo, più che mai attuale.

 

Ma il punto è questo: che cos’è ‘cultura di destra’? Alla domanda postagli da «L’espresso» nel 1979 Jesi rispondeva: «la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra».

 

In altri termini diventa ‘di destra’ qualsiasi discorso che, indipendentemente dai contenuti abbia una forma autoritaria, assertiva e ‘mitologica’. Così «la maggior parte del patrimonio culturale [...] è residuo culturale di destra»:esso è custodito e amministrato dalle classi dominanti che su di essa hanno eretto la propria razionalità e da quel repertorio hanno attinto forme e temi costanti del proprio discorso, in modo tale che si inscrive nella cultura di destra la pressoché totalità di quello che«oggi si stampa e si dice»,si scrive e si produce in termini culturali.

 

Se è «inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui» è vitale interrogarsi sul senso della «sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni», poiché «una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali». Un linguaggio è lo specchio di una visione del mondo: l’uso di parole e verbi afferenti a un determinato campo semantico, la sintassi, il tono e lo ‘stile’ di un discorso sono l’espressione in grado di rivelare molte cose su chi li esprime. Il «sinistrese [...] più dinamitardo» dei comunicati delle Brigate Rosse ma persino il ricordo celebrativo del Risorgimento e della Resistenza finiscono per essere due diverse modalità di discorso mitologico-fondativo e per rientrare nell’ambito delle ‘idee senza parole’: retoriche ‘del sublime’ implicitamente relata alla cultura di destra come tutte le forme di monumentalismo che intendono legittimare un evento della sfera politica attraverso il riferimento al passato e mimando il linguaggio del sacro. L’uso del ‘mito’ è ciò che fattivamente distingue il pensiero reazionario da quello emancipativo, perché se le parole di sinistra diventano mitologiche smettono di essere emancipative.

 

Jesi prende da Spengler, uno dei padri della destra moderna, la concezione del passato come promessa di un futuro comunicabile da «idee senza parole»: forme verbali dell’azione, gestuali e rituali, che si manifestano nel linguaggio con le «parole spiritualizzate» tipiche della destra tradizionale, fascista e neofascista, caratterizzate dalla maestà delle maiuscole iniziali (Razza, Patria, Famiglia, Sangue, Terra…) ma che si ritrovano «anche nella cultura di chi non vuole essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole così “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole».

 

Cultura di destra è allora innanzitutto il patrimonio ideologico dell’aristocrazia reazionaria che la borghesia moderna ha fatto proprio tra Ottocento e Novecento; una serie di parole-chiave che erano state elaborate dalle élite liberali assediate dalla società di massa sono state incorporate dal fascismo europeo, con una dinamica che la Germania mostra in maniera esemplare: l’altisonante lusso sacrale della parole con la maiuscola si associa al lusso materiale in una medesima concezione spirituale, che rende le ‘parole di destra’ simili a simboli e bandiere. Gustoso e irriverente il modo in cui la novella Der Vampyr di Hoffmann viene letta, in modo consapevolmente ironico e anacronistico, come allegoria profetica del rapporto che l’aristocrazia e la borghesia tedesca intrattengono con la ‘feccia’ nazionalsocialista.

 

Cultura di destra è poi la mistica della morte che associa il martirio alla fede fascista, alimentando la tanatofilia della destra spagnola e rumena, che tra ‘Viva la muerte!’ e culto della Legione dell’Arcangelo Michele hanno fatto cortocircuitare cristianesimo e fascismo, con i correlati di clericalismo e antisemitismo; ma allora anche le liturgie anarchiche di inizio secolo, con i labari, le bandiere e i tamburi che accompagnano la tradizione sindacal-rivoluzionaria e futurista (fino alle recenti performance del Black Block) condividono con il fascismo pratiche estetiche e al di là di ogni opzione ideologica di fatto parlano la stessa lingua.

 

Ed è cultura di destra è l’ossessione del sacro che caratterizza la moderna scienza della religione da Frobenius a Otto a Eliade: in molta produzione storiografica vibra la nostalgia di un mondo arcaico idealizzato, inesistente nelle forme in cui è stato immaginato e precedente la decadenza giudaico-cristiana che avrebbe sconsacrato il cosmo aprendo la strada alla modernità degradata e corrotta. Una parte nel libro dedicata al grande studioso rumeno si inserisce nel momento in cui molti studiosi di sinistra attaccavano il ‘maestro’ facendone emergere la militanza nella Guardia di ferro di Codreanu, dichiarando al tempo stesso la necessità di una scienza antropologica e non metafisica contro il sapere implicitamente (o esplicitamente) ideologico che enfatizzava il primitivismo e le culture pre-cristiane per celebrarne la vicinanza con la natura e l’essere.

 

E poi c’è l’Italia: la paccottiglia di regime del fascismo, incapace di creare una vera e propria mitologia autonoma a causa del provincialismo della sua classe dirigente. Qui Jesi affonda il proprio bisturi nell’inconsistenza della borghesia italiana e traccia un disegno impietoso della destra nazionale, fino a fare a pezzi Evola: «un rimasticatore, un commesso viaggiatore che molto presto scelse di separarsi dalla casa madre e di mettersi in proprio in una provincia come l’Italia», incapace di leggere veramente Bachofen e grossolano nella conoscenza dell’esoterismo, ma adeguato per quell’editoria neofascista (e oggi leghista) che pubblica indifferentemente testi alchemici, filoceltici e negazionisti «in vinilpelle con fregi in oro». Ma Evola è allo stesso tempo il venerato sacerdote di una mistica del gesto gratuito e della violenza che avrebbe portato con il suo magistero molti militanti della destra radicale al terrorismo, facendosi usare dai burattinai della strategia della tensione nella convinzione di salvare l’occidente dalla sua decadenza. Una critica acuta e affilata che proviene da un fine conoscitore della grande destra europea e della tradizione esoterica, con cui – sia chiaro – forte di un materialismo illuminista lucido e radicale, non intrattenne mai equivoci rapporti: una critica che la destra italiana ieri come oggi non gli ha mai perdonato e che giustifica i molti giudizi velenosi di cui Jesi continua a essere oggetto.

 

Anche la borghesia di sinistra non esce indenne dagli strali taglienti di quello che era un suo figlio ribelle, nato (nel 1941) in una famiglia colta e benestante della Torino risorgimentale, non immune dal fascismo e poi di ambiente azionista: Jesi nel 1979 è ideologicamente vicino a Fortini quando questi faceva emergere le contraddizioni sottese dalla provenienza altoborghese degli esponenti della sinistra italiana, come nella querelle seguita alla pubblicazione del Doppio diario di Giaime Pintor. Nel noto e discusso articolo di Fortini, Pintor è accusato di aver prestato troppa «attenzione […] ad autori come Drieu La Rochelle, Montherlant, Jünger, Salomon, Malraux» e di essere inconsapevolmente «attirato da quel mondo di eroismo politico-estetico, di ascendenza stendhaliana». Da lì in Jesi la critica passa agli ambienti dell’azionismo torinese di Bobbio e Galante Garrone, con cui polemizzò aspramente, in un momento come quello post ’68, in cui i ‘padri’ socialdemocratici erano sistematico oggetto di critica dai ‘figli’ rivoluzionari; e sempre a partire da ragioni autobiografiche Jesi non esita, da ebreo non credente, a criticare duramente il sionismo politico e la posizione di Israele nella Guerra dei sei giorni, o sul piano storico a mostrare la contiguità tra comunità ebraiche e fascismo prima delle leggi razziali, come nel caso del gruppo di ebrei fascisti legati alla rivista «La nostra bandiera» e in quello dello stesso padre dello studioso, Bruno, eroe della guerra d’Africa scomparso quando Furio era bambino.

 

Cultura di destra ha dunque diversi livelli di profondità, che restituiscono i differenti volti di una ‘religione della morte’ tale sia rispetto ai suoi contenuti sia rispetto alla sua forma. Da un punto di vista teorico Jesi, antichista e storico delle religioni, decostruisce la sua stessa cultura dall’interno riconoscendo il tratto tanatofilo e melancolico che abita la filologia, quello studio dell’antico che pure adora e pratica con perizia funambolica. La cultura dei Lumi, incubatrice della modernità e dello storicismo, insieme e oltre le sue scoperte ha prodotto un «rango» intellettuale, e pur generatasi nel mondo borghese ha voluto estraniarsene per nobilitarsi in una propria dimensione, un «pianeta estraneo e vicino» da cui giudicare la vita degli uomini non-intellettuali: il potere di definire, costruire e amministrare immagini dell’alterità è l’assunzione di un ruolo di privilegio che la cultura moderna, il classicismo per eccellenza, fornisce e incarna. Una cultura che diventa lusso sacrale e può associarsi in termini di storia della mentalità agliideali di virtù eroico-nazionale e ai modelli di rispettabilità sociale, rivelandosi funzionale alla difesa della proprietà e alla struttura sociale gerarchico-corporativa e risultando capace di riassumere una catena di associazioni che mostra la triade Dio-patria-famiglia come leggi necessarie della società, naturaliter borghese.

 

Il lusso è il valore che consacra i «feticci» di ambito spirituale «eroico, patriottico e artistico» ma si ritrova anche in quello materiale «di vestaglie, coperte di pelliccia, automobili, aviatori, [...] che vuol dire denaro e stile da ricchi» dei romanzi di Liala; ed è quello che aggiornato del linguaggio pubblicitario, il «vuoto puro» capace di legare «cultura e consumo». La pagina forse più irresistibile di Cultura di destra è quella che analizza lo stile di un’intervista adulatoria a un esponente dell’upper class nostrana e ne fa un un paradigma della passione che i rotocalchi di intrattenimento mostrano tutt’ora per case regnanti, esponenti del jet set e v.i.p.: qui Jesi regola nuovamente i conti con la sua Torino, la città-motore del capitalismo italiano, e con il culto della famiglia Agnelli, la nuova aristocrazia borghese, visto che nell’articolo Luca, il marchesino dei bolidi (in «Grazia», 28 settembre 1975) il rampollo Cordero di Montezemolo era il fulgido e affascinante esempio di un’autorità carismatica fatta di ricchezza, distinzione, eleganza, internazionalità, saper vivere, buon gusto, la forma più nuova e subdola della cultura di destra.

 

A dispetto dei giudizi che alcune recensioni di questi giorni rilanciano contro il libro, che risentirebbe del clima da inquisizione ideologica tipico degli anni settanta, credo che la forza del libro, pionieristico nell’affrontare in termini antropologici la cultura di destra, continui ad essere proprio nella sua impostazione: l’insistenza sul linguaggio creatore di identità mostra il volto della moderna cultura di destranella capacità di manipolazione delle comunicazioni e dell’immaginario, e svela la degenerazione della lingua come sintomo e causa al tempo stesso della sorda guerra civile portata dall’infezione reazionaria/nazionalista/fascista nel corpo delle società. La stessa degenerazione che rende l’anonimato della massa il combustibile per l’alimentazione del potere.

 

Più recentemente un discorso molto simile è stato fatto dal romanziere e saggista rumeno Norman Manea (Clown. Il dittatore e lartista, 1992, ed. it. 1995 e 2005), che ha dedicato particolare attenzione ai rapporti tra regimi politici e cultura e alla perversione che il linguaggio subisce nelle diverse forme di dittatura: Manea, richiamandosi a una vasta letteratura da Mann a Chomsky e con studi comparativi, mostra come gli stereotipi nazionalisti, antisemiti, xenofobi, e più in generale ogni immagine semplificata della realtà, siano «mitologie comunitarie» che forniscono risposte facilitate per società in crisi; esse sono in grado di attraversare il lungo periodo con continuità, indipendentemente dal segno politico di superficie. Fascismo, socialismo reale e fondamentalismo religioso, ma anche le democrazie post-moderne, pur con gradi diversi di intensità e su contenuti di segno anche molto diverso, dal punto di vista della teoria della cultura operano allo stesso modo nel definire con autorità/violenza antidemocratica modelli ideali e cristallizzati di identità, con il preciso obiettivo di modificare l’esistente sulla base di una ‘tecnicizzazione del mito’ in cui il ‘mito’ si fa storia. Come in Jesi la difesa da questa ‘cultura di destra’ passa allora nella critica di ogni lingua ‘nemica degli uomini’, il principale snodo del meccanismo che trasforma la parola in strumento dell’azione; e studiare il funzionamento della «macchina mitologica» significa scoprire e disinnescare il valore performativo del linguaggio, quotidiano e banale, del potere dominante.

 

Cultura di destra è un libro che torna perché le domande che poneva trent’anni fa sono rimaste inevase, insabbiate e sfigurate a causa della loro scomodità e impertinenza; è un libro che pone la questione dell’immaginario del potere e del potere dell’immaginario mostrando che il nodo da sciogliere è nel loro rapporto. È un libro che, disarticolando le pieghe delle cultura di destra, mostra impietosamente come la cultura di sinistra sia implosa su se stessa nel momento in cui non è stata capace di essere veramente emancipativa fino in fondo. Che evidenzia come le forze politiche di sinistra siano state incapaci di proporre unanarrazione convincente, abbiano giocato in difesa e lasciato che i discorsi pubblici fossero colonizzati diversamente, abbiano rinunciato al potere di delineare scenari, quando non abbiano addirittura ripetuto l’identica canzone dei loro nemici. Un libro sull’oggi e sulla liquidazione fallimentare di un patrimonio di ideali e realizzazioni di lotte secolari che spiega perché una destra securitaria, neoliberista, xenofoba sia diventata senso comune. Un libro sull’identità, necessario perché parla ancora di noi.

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