Rileggere Carla Lonzi
C’è una foto che ritrae Carla Lonzi con alcune sue compagne di Rivolta femminile, il collettivo femminista da lei creato negli anni ’70 insieme a Carla Accardi e Elvira Banotti, che sembra raffigurare un’epoca. Il centro dell’immagine è occupato da Lonzi, seduta in basso sui gradini di quella che probabilmente è un’assemblea: non guarda in camera e fuma una sigaretta. Intorno a lei e sui gradini superiori, donne giovani e meno giovani, in abiti o jeans a zampa e magliette, donne interessate, distratte o con lo sguardo altrove, qualcuna fuma, un’altra sorride, sembrano a loro agio ma tutte hanno l’aria di partecipare a qualcosa di nuovo, quel qualcos’altro che sono state chiamate a creare, a cui è importante partecipare.
In quegli anni, Carla Lonzi fonderà anche una casa editrice, Scritti di rivolta femminile, con cui darà alle stampe i libri che l’hanno poi consacrata come una delle icone più radicali e controverse del femminismo contemporaneo: Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale, Taci, anzi parla, diario femminista, Sensualità femminile e aborto, Manifesto di rivolta femminile e molti altri.
Per anni quei testi sono stati pressoché introvabili, nonostante il lavoro di ripubblicazione che molte case editrici hanno compiuto per riportarli in libreria e chi desiderava leggerli se li passava via mail o in fotocopia, in una solidale staffetta per lo più femminile. Oltre alla prima celebre edizione verde del 1973 ci sono state quella fucsia e pop di Gammalibri, nel 1984, due anni dopo la scomparsa di Lonzi, l’edizione del 2013 di et.al edizioni e infine l’ultima, recentissima, della Tartaruga edizioni, marchio della Nave di Teseo il cui testimone oggi è passato dalla sua fondatrice, Laura Lepetit, alla scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti.
Il valore conoscitivo di uno dei pilastri del femminismo forse però non basta in sé a giustificare questa caccia al tesoro, questo tortuoso passaparola. Lonzi è stata un’esponente del femminismo più radicale, quello che contrapponeva il noi dell’autocoscienza femminile al voi della cultura patriarcale, che desiderava una totale deculturizzazione della società in favore di un mondo libero e imprevedibile. Oggetto di critiche e analisi da parte del femminismo successivo, che ne lamenta la mancanza di un’ottica intersezionale che includa razza e classe, viene da chiedersi qual è l’apporto alla discussione sulla parità di genere che possono portare oggi testi divisivi come quelli di Lonzi, e come mai sono diventati feticcio e oggetto spasmodico di ricerca per molti.
Una possibile risposta è che la potenza dei testi di Carla Lonzi sta non solo nella raffinata analisi di pensiero, ma anche nell’essere ancora portatori di una carica eversiva dirimente in tempi in cui soffia un forte vento reazionario, e in cui i fatti di cronaca – tra femminicidi e violenze – riportano con prepotenza l’attenzione sulla cultura dello stupro e su una idea patriarcale della nostra società ancora troppo profondamente radicata. Forse proprio per questo oggi si sente il bisogno di accostarsi di nuovo a un pensiero radicale, estremo, per conoscere il passato così che si possa trovare un modo nuovo di combattere il patriarcato nel presente. È esattamente questo che fa Lonzi, punta dritto all’origine di questa visione, individuandola nell’approccio alla sessualità e in una specifica ottica culturale, ne smaschera le incongruenze e i tranelli dietro le piccole astuzie, la mostra nuda e misera come il didietro di un re dinanzi alla folla esterrefatta, e forse anche questo ha contribuito all’oblio editoriale a cui per molto tempo la sua opera è stata relegata.
Carla Lonzi va riletta adesso e sempre, da tutti, perché le sue parole sono un attacco a un intero sistema culturale, che inserisce il rapporto uomo/donna in un sistema di potere e ne perpetua il controllo attraverso l’istituto familiare e una precisa visione della sessualità. Ma soprattutto Lonzi va letta oggi perché, al di là della possibile condivisione delle sue idee, il suo pensiero non ha ancora smesso di dirci qualcosa sulla società contemporanea e i suoi limiti e sembra anticipare di anni questioni attuali, legate alla libertà e all’educazione sessuale, alla famiglia, all’aborto, all’interiorizzazione del patriarcato, al rispetto per l’altro.
I due aspetti, affrontati in libri distinti come Sputiamo su Hegel e La donna clitoridea e quella vaginale ma anche nel breve testo dedicato all’aborto – tutti contenuti in questa nuova edizione –, esprimono di fatto una solida continuità di pensiero, e appaiono come diffusi approfondimenti delle premesse che Lonzi, insieme a Carla Accardi e Elvira Banotti, aveva espresso nel Manifesto di rivolta femminile, nel 1970, e che infatti fa da prologo, come una luminosa premessa, a tutte le edizioni dei suoi scritti.
Quelle del Manifesto sono brevi frasi apodittiche, che paiono appunti, promemoria per un discorso più ampio e articolato, e tutte partono da un noi, identità collettiva che si afferma con la determinazione della consapevolezza, dell’autocoscienza.
Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.
Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio.
Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.
Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale.
Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchia dei sessi.
Sputiamo su Hegel.
In queste asserzioni, volitive e lapidarie, affiora la complessità di un pensiero filosofico strutturato e raffinatissimo, che Lonzi aveva affinato nei lunghi anni in cui era stata critica d’arte e che aveva deciso di mettere a servizio della decostruzione di un intero sistema culturale, perché pensato, ideato e difeso dal potere patriarcale. La scelta era maturata dopo l’incontro e il dialogo con l’artista e femminista Carla Accardi, intervistata per quello che sarà il suo ultimo lavoro da critica, Autoritratto, pubblicato nel 1969 da Di Donato.
Lonzi immagina una donna nuova che non vuole sostituire un’ideologia con un’altra, non desidera il potere, desidera piuttosto l’annientamento del concetto stesso di potere e la dissoluzione di ogni ideologia, perché si possa vivere in un mondo dove l’immaginazione e l’imprevedibilità possano aprire nuove porte, rovesciare ogni costrutto sociale interiorizzato, qualcosa che ha che fare con l’utopia pura dell’anarchia, perché, si afferma, Vogliamo essere all’altezza di un mondo senza risposte.
La donna nuova di Lonzi, eterna ironia della comunità, possiede molto dell’allegra anarchia dei Felici Pochi nel mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, e forse non è un caso che Lonzi associ proprio le donne moderne, che rifiutano la famiglia, e i ragazzi del ’68, che rifiutavano la guerra, come possibili alleati nella decostruzione del patriarcato (sempre che il ragazzo non diventi patriarca a sua volta).
L’azione politica diventa così, in primo luogo, un’azione di distruzione della cultura che ci ha preceduto.
La deculturizzazione per la quale optiamo è la nostra azione. Essa non è una rivoluzione culturale che segue e integra la rivoluzione strutturale, non si basa sulla verifica a tutti i livelli di una ideologia, ma sulla mancanza della necessità ideologica.
Questa idea di deculturizzazione totale può lasciare perplessi, ma ha un preciso scopo per Lonzi che smaschera per prima una convinzione sociale tanto radicata quanto perniciosa, perché deresponsabilizzante: quella che il patriarcato si manifesti soltanto in contesti sociali degradati e non riguardi invece l’intera società, e va a stanare questa incongruenza proprio nei pilastri del pensiero progressista europeo: Hegel, Marx, Lenin, Freud.
Su tutti loro Lonzi sputa.
Si accorge infatti che a seguito del 1968 il discorso rivoluzionario si era fermato nel processo di liberazione della donna, e l’aveva subordinato alla lotta di classe. La donna lavoratrice e la rivoluzione sessuale erano stati sbandierati come grossi passi avanti nella società, ma restavano pur sempre incasellati in un contesto culturale egemonico maschile, nell’idea del rapporto servo/padrone e in una finta emancipazione femminile.
L’inganno nella dialettica hegeliana è alla base del suo ragionamento, che affida all’uomo un principio umano che si tramuta in autocoscienza universale, e quindi lo rende cittadino, e alla donna un principio divino, che presiede alla famiglia e che la ferma alla propria soggettività escludendo la sua partecipazione alla vita universale della comunità, privandola così dell’autocoscienza e sottraendole lo scontro dialettico che invece può esercitare il servo.
L’acuto senso critico di Carla Lonzi la porta a esaminare al microscopio anche il sistema socialista: la liberazione della donna propugnata da Marx e Engels la rende di fatto un mero strumento di produzione, e mira a cambiare il modo in cui la donna può stare all’interno dell’istituto del matrimonio ma non il matrimonio in sé, che rimane il nucleo fondante della società:
Abolizione della famiglia non significa, infatti, né comunanza delle donne, né altra formula che faccia della donna uno strumento esecutivo di “progresso”, ma liberazione di una parte dell’umanità che avrebbe fatto sentire la sua voce e avrebbe contrastato per la prima volta nella storia, non solo la società borghese, ma qualsiasi società progettata dall’uomo come protagonista, andando così ben al di là della lotta contro lo sfruttamento economico denunciato dal marxismo.
Le ideologie rivoluzionarie, pensate e ideate dagli uomini, non fanno così che strumentalizzare la liberazione della donna per poter perpetrare, in un modo diverso, il controllo su di lei. È così che partendo dalla denigrazione della libertà sessuale, considerata un vizio borghese, la lotta femminista viene ridotta a sciocchezza, un’esigenza puerile e egoista rispetto alla rivoluzione proletaria, e alle donne, si sa, non piace essere considerate delle sciocche. Non si salva neppure la psicanalisi freudiana che, con la sua analisi mitica – e dunque tragica – dei tabù e dell’invidia del pene, è altrettanto intrisa di una visione prettamente maschile della società, il cui nucleo si basa sul terrore che un rinnovato rapporto tra la madre e il figlio che escluda il patriarca possa metterne in dubbio l’autorevolezza.
L’intelligenza acuta di Lonzi scopre le carte e rivela come anche dove sembra prendere piede una rivoluzione culturale, questa sia sempre insediata da una subordinazione della questione femminile, e la libertà sessuale delle donne rimanga ingabbiata in nuove forme delle stesse maglie dell’istituto familiare.
Una volta scardinato il mito della famiglia patriarcale, segue la riappropriazione di una maternità libera, in cui i figli non siano dati a un uomo, o allo Stato, ma li diamo a loro stessi e restituiamo noi a noi stesse. In questo senso la maternità liberata si apre a nuove forme, più ampie, di cura, e si slega dall’istituto ristretto della famiglia mononucleare, anticipando di anni i ragionamenti e i nuovi modi di intendere la famiglia che oggi sono oggetto di acceso dibattito:
Il mito dell’amore materno si scioglie nell’attimo in cui la donna, nell’epoca più piena della sua vita, troverà autenticamente nello scambio naturale con la gioventù il senso di gioia, piacere, divertimento che i tabù dell’organizzazione patriarcale le permettono di trasferire solo nei figli.
Per liberare la società secondo Lonzi bisogna però sciogliere un nodo fondamentale, quello legato alla concezione tradizionale della sessualità femminile. Il passaggio alle idee contenute ne La donna clitoridea e la donna vaginale, che segue Sputiamo su Hegel, si rivela così il cuore stesso della rivoluzione femminile, perché l’origine del patriarcato, e del sistema culturale che da secoli lo tutela e lo protegge, è tutta lì.
La donna clitoridea e la donna vaginale non sono che due distinzioni teoriche legate a un’idea della sessualità femminile ideata, raccontata e perpetrata a uso e consumo dell’uomo, volta a controllare e contenere la sessualità femminile, e che Lonzi fa diventare rappresentazioni astratte di due tipologie di donne: quella sottomessa al patriarcato, spesso interiorizzato, e quella libera, rinnovata, in grado di costruire un nuovo futuro.
All’origine di questa concezione c’è un intero sistema filosofico, culturale e psicologico che negli anni ha decretato, come unico piacere riconosciuto, quello derivante dalla penetrazione, e dunque legato a una sessualità strettamente vincolata al membro maschile, mentre nella donna l’ottenimento del piacere avviene sempre e soltanto attraverso una stimolazione, diretta o indiretta, della clitoride. E dato che biologicamente nella donna l’apparato riproduttivo e quello del piacere non coincidono, aver relegato nei secoli il piacere clitorideo a una forma di piacere “infantile e immaturo” e aver fatto assurgere quello vaginale a “vero e maturo”, ha significato solo imbrigliare il piacere e la realizzazione della donna al ruolo di moglie fedele e madre devota.
La donna vaginale, infatti, viene doppiamente acculturata anche dall’idea di relazione che è legata a questo tipo di sessualità. Le suggestioni emotive legate al corteggiamento, che la vedono nobilitata da un uomo straordinario che le accorda attenzioni e che la vuole fedele, monogama, e l’inganno dell’amore esclusivo e romantico che ne consegue, non sono che modi per perpetrare una forma di sottomissione attraverso la dipendenza emotiva.
La donna avverte inconsciamente l’atto di sottomissione che le è richiesto per farla accedere al piacere eterosessuale. L’ideale monogamico che le viene imposto trova un punto di saldatura con la sua autenticità: infatti le permette di nobilitare in un rapporto “unico” quella dedizione all’altro che, se estesa a più uomini, perderebbe il suo valore etico, di scelta “particolare” e “particolarmente” motivata per rivelarsi un condizionamento generalizzato delle donne a favore dell’uomo.
La donna vaginale appare così vittima di un patriarcato interiorizzato dal quale, a differenza della donna clitoridea, non ha saputo emanciparsi.
La donna clitoridea rappresenta tutto ciò che di autentico e di inautentico nel mondo femminile si è staccato dal visceralismo con l’uomo. Autenticamente l’una ha rivendicato sé stessa; estraniandosi l’altra ha simulato sul piano del piacere e ha ambito i traguardi dell’uomo sul piano culturale e sociale.
Quel che si teme, nella donna clitoridea, tacciata di infantilismo e mascolinità, è sempre quella prospettiva libera e senza appigli che scardinerebbe le pesanti porte delle dinamiche di potere, perché desiderando per sé un piacere libero dalla mera penetrazione, la donna ritrova un’autonomia psichica dall’uomo, ma fa ancora di più: mette in crisi il sistema sociale basato sull’eteronormatività, perché quello clitorideo è un piacere avulso dalla presenza o meno di un membro virile, e spalanca le porte alla distruzione di ogni cliché legato alla mascolinità tossica e ai generi.
Questa autonomia psichica risulta così inconcepibile per la civiltà maschile da essere interpretata come un rifiuto dell’uomo, come presupposto di una inclinazione verso le donne. Nel mondo patriarcale le viene riservato in più l’ostracismo che si ha per tutto ciò che si sospetta un’apertura all’omosessualità.
Non ci pronunciamo sull’eterosessualità: non siamo così cieche da non vedere che è un pilastro del patriarcato, non siamo così ideologiche da rifiutarla a priori. Ognuna di noi può studiare quanto le piace o le spiace il patriarca e quanto l’uomo.
Lonzi riporta così la lotta femminista sul terreno delle questioni urgenti, e lo fa attraverso una rivoluzione che trae origine da una nuova concezione di intendere la società che non abbia più al centro la visione maschile, perché se il sesso esprime un’idea di mondo una nuova concezione del sesso può divenire la base di una concezione rinnovata del mondo, dove l’idea della sottomissione e la cultura del potere alla base dell’ideologia dello stupro e delle violenze non trovino più spazio, dove il femminismo diventi universale.
La donna non ha scritto il suo kama sutra, afferma, e forse da qui bisognerebbe ripartire quando si discute di educazione sessuale nelle scuole, che Lonzi propugnava e che deve necessariamente essere legata alla gestione delle emozioni e al liberare dai tabù il piacere femminile, e lascia intuire che forse non sia una questione di porno cattivo in quanto tale, come si sente dire, ma del cattivo porno di cui oggi si usufruisce, ancora legato a una visione maschile di sopraffazione e non a una condivisa del piacere.
L’educazione sessuale e affettiva, per cambiare le cose, dovrebbe partire da qui, dall’idea che
La donna non è la grande-madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride, per la sua liberazione. Essa chiede carezze, non eroismi; vuole dare carezze, non assoluzione e adorazione.
Ed è da qui che anche il femminismo, i femminismi, dovrebbero ripartire, perché
Senza l’abolizione dello schema sessuale maschile e senza una presa di coscienza della donna vaginale non esiste femminismo. E il patriarcato, come epoca storica, è ancora al riparo dalla fine.
Come collettività dovremmo agire di concerto per attuare un femminismo da cui decada lo stigma negativo e che diventi invece collaborazione, comprensione dell’altro, carezza tra i sessi, e bisogna farlo ora – Lonzi ce lo ripete da cinquant’anni – attraverso l’autocoscienza, perché Il femminismo è la scoperta e l’attuazione della nascita a soggetto delle singole componenti di una specie soggiogata dal mito della realizzazione di sé nell’unione amorosa con la specie al potere.
Creare un nuovo femminismo perché non ci sia più bisogno del femminismo, si potrebbe dire, o dove tutti siamo femministi, dove la dicotomia noi/voi lasci spazio solo alla prima persona plurale, a una comunità con una visione condivisa, perché Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione.
Questa dunque è una storia che parte dal noi, lo perde e lo ritrova. Una storia che oggi continua a vivere grazie al potere dei libri che vengono scovati e ristampati e che non esaurisce il suo filo, sottile e tenace come le tracce sui libri usati di chi li ha posseduti prima di noi. Di Sputiamo su Hegel ho tre copie, di tre edizioni diverse inclusa l’ultima, ma quella che mi è particolarmente cara è la prima, la celebre edizione verde di Scritti di Rivolta femminile, non solo perché è rara e introvabile ma perché nella prima pagina reca il nome di chi l’ha posseduta prima di me: AnnaMaria Mari, Milano, 1976. Le mie sottolineature e le mie note si sono unite a quelle della sua precedente lettrice, in un passaggio di testimone che valica il tempo. Le nostre glosse a margine enfatizzano, criticano, ragionano con il testo e tra loro in un dialogo ancora vivo. Ora è tempo di ristampare, passare il testimone, ragionare insieme per creare un noi che non sia più solo contrapposizione ma che serva a creare, adesso, un nuovo futuro perché
Noi viviamo questo momento e questo momento è eccezionale. Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che eccezionale.
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