Salvatore Fancello, una meteora luminosa

21 Settembre 2024

Quando l’11 gennaio del 1941 Salvatore Fancello, un giovanissimo scultore e disegnatore molto amato, tra gli altri, da Gio Ponti, Leonardo Sinisgalli, Giuseppe Pagano, comunica in una lettera al fratello Marco di essere stato richiamato e assegnato al 64° Rgt. Fanteria in procinto di partire per il fronte, il suo tono è venato di tristezza e preoccupazione – per quanto concluda la lettera con parole rassicuranti: “Io sono piuttosto triste, ma in compenso sto molto bene di salute”. Fancello ha buone ragioni per essere preoccupato: poche settimane dopo, il 12 marzo, cadrà sul fronte albanese, a 25 anni non ancora compiuti, interrompendo bruscamente una parabola artistica iniziata altrettanto precocemente, a 14 anni, con il suo arrivo da Dorgali, Sardegna, all’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Monza grazie a una borsa di studio del Consiglio per l’economia corporativa di Nuoro. 

A Fancello dedica un libro Maurizio Cecchetti (Gli anni di Fancello. Una meteora nell’arte italiana tra le due guerre, Medusa, Milano 2023), per molti anni critico d’arte e responsabile delle pagine culturali dell’Avvenire. Non si tratta, lo sottolinea da subito lo stesso Cecchetti, di una monografia che pretenda di tracciare un profilo ampio e approfondito dell’artista sardo; è invece qualcosa che assomiglia a un quaderno di lavoro, una raccolta di indicazioni di ricerca e materiali che si propone di riportare all’attenzione di un pubblico più vasto la figura e l’opera di Fancello. Il volume, oltre ad alcuni scritti di Cecchetti, raccoglie testi eterogenei, in parte già noti (in larga misura risalenti al 1942, l’anno in cui l’Accademia di Brera ospitò una mostra dei lavori di Fancello fortemente voluta dal direttore di Casabella, Giuseppe Pagano) e in parte inediti (in particolare, le lettere di Salvatore al fratello Marco e quelle inviategli da New York dalla ragazza di cui era innamorato, Renata Guggenheim). In realtà, Cecchetti aveva già riportato l’attenzione su Fancello nel 2016, in un articolo scritto per il suo giornale in occasione della mostra dedicata a Salvatore e alla scuola ceramica di Dorgali nel centenario della sua nascita; e già in questo testo, raccolto in L’arte è sempre contemporanea (come la storia), MC Edizioni, Milano 2020, Cecchetti si soffermava sulla “fantasia libera” che anima il suo tratto grafico e le sue ceramiche. Proprio questa fantasia, questa libertà sono ora al centro di questo nuovo lavoro – indagate nella loro relazione e nella loro differenza rispetto allo sfondo storico, culturale, antropologico in cui prende forma la prassi artistica di Fancello. È questo infatti il nodo centrale della lettura proposta da Cecchetti: le invenzioni di Fancello, per quanto naturalmente e inevitabilmente intrecciate con l’ambiente della sua formazione, prima in Sardegna e poi a Monza e Milano, hanno la forza di una creatività sorgiva, originaria, incontaminata; si radicano in una immaginazione che si nutre prima di tutto e fondamentalmente di sé stessa, dei depositi di immagini desideri paure e speranze che prendono forma nel suo animo e che si fanno opera senza derivare da nulla e da nessuno, se non dalla rielaborazione semplice e immaginifica di una sensibilità che attraversa solitaria e silenziosa la coltre di gesti, dibattiti e opere che la circondano. Cecchetti si richiama più volte nel testo a un passo di Giulia Veronesi, tratto da un articolo, compreso nei materiali che compongono la seconda parte del libro, che risale al 1938 (Fancello aveva soltanto 22 anni): “Scuole? Influenze? Derivazioni? Fancello ignora Klee quanto Rousseau, i Cinesi quanto la Bibbia di Borso; e le analogie che i suoi lavori talvolta palesano non autorizzano a riferimenti: egli sta con se stesso” (p. 136). Egli sta con se stesso, ripete e sottolinea Cecchetti: “sintesi perfetta dell’agire creativo di Fancello, del suo linguaggio e del suo stile inconfondibile…La studiosa spuntava così, senza tante sottigliezze, l’arma usata dalla critica quando vuole interpretare l’opera di un artista: i suoi riferimenti, le sue dipendenze o analogie, i debiti insomma” (pp. 24-25).

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Tutto questo poi, lo sa bene Cecchetti, è vero fino a un certo punto, e deve essere discusso, approfondito e verificato almeno lungo due direzioni di ricerca. La prima: se Fancello, forse, è davvero indifferente alla discussione, dai risvolti anche politici, tra modernisti e tradizionalisti in architettura e nelle arti che si svolge tra Milano e Roma e vede tra i protagonisti alcuni dei suoi maestri e amici dell’ISIA, per esempio Edoardo Persico, certo è invece il suo debito nei confronti dei gesti e delle pratiche che porta con sé, in Lombardia, dalle sue terre sarde. Ragazzino, a 13 anni, Salvatore aveva iniziato a frequentare come apprendista di laboratorio la bottega di Ciriaco Piras, dove incontra e apprende tecniche e pratiche tradizionali nella lavorazione del cuoio, del legno e della ceramica. Nelle pagine che concludono la prima metà del lavoro, in cui tira le fila delle riflessioni condotte nelle pagine precedenti, Cecchetti sottolinea come manchi in questo suo lavoro preliminare qualsiasi approfondimento di questa cultura, antica e insieme sempre viva, in cui si forma il giovanissimo Fancello; forse, aveva già accennato in precedenza, una comprensione più limpida dei temi e delle forme dell’immaginazione di Fancello deve passare necessariamente da ricerche ulteriori sulla cultura e sulle tradizioni dei mestieri della Sardegna, su pratiche trasmesse oralmente da padre in figlio, attraverso le generazioni.

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Salvatore Fancello, Presepe.

La seconda: altrettanto indispensabile è dipanare i fili aggrovigliati delle relazioni con gli artisti e i critici d’arte che Fancello incontra lungo il suo percorso. Lungo questa direzione si addentrano molte pagine di Cecchetti, rivolgendo la sua attenzione in particolare agli anni successivi alla sua formazione all’ISIA, tra il 1936 e il 1941, ed esemplare in questo senso è l’analisi che inizia a tracciare dei rapporti tra Fancello e Lucio Fontana. È sicuro che i due artisti entrarono personalmente in contatto, come testimonia il ritratto a inchiostro che Fancello fece a Fontana nel 1938; in quegli anni, tra il 1935 e il 1939, entrambi frequentavano infatti la fornace di Tullio Mazzotti a Albisola, dove realizzarono buona parte delle loro ceramiche. Con buone ragioni, Cecchetti ipotizza che Fancello possa avere osservato con interesse le ceramiche di Fontana, data la differenza di età e di fama tra i due, traendone spunti per le sue ricerche tecniche e formali (Fontana in quegli anni, ha scritto C.G. Argan, nella ceramica “era più avanti di tutti”); non è però nemmeno implausibile, osserva, che anche Fontana abbia potuto guardare con interesse alle sperimentazioni di Fancello, per esempio, all’innovazione di “far cuocere senza fondente i colori ceramici” (p. 83) di cui parla Mario Labò in un articolo raccolto nel libro e apparso su Domus nel maggio del 1942. E se è difficile trovare nella corrispondenza di Fontana riferimenti a Fancello e ai suoi lavori (Cecchetti indica un solo passo, un cenno alla morte in guerra di Fancello contenuto in una lettera a Tullo Mazzotti del 1946), molte analogie si possono trovare invece tra i loro lavori, per molti versi riconducibili sotto la categoria del neobarocco proposta da Sinisgalli per Fontana. Fancello, insomma, non lavora isolato dal mondo dell’arte. Peraltro, proprio Sinisgalli, in un articolo pubblicato su Primato nel 1942 e citato anche in un bel volume di Biagio Russo edito dalla Fondazione Sinisgalli (Il labirinto di Leonardo Sinisgalli. Si veda in particolare il volume 2, Cronologia, opera, indici e documenti, pp. 24-26) rievocava la capacità di Fancello di separarsi dal mondo, immerso nello spazio del suo studio di Corso Garibaldi, a Milano: “Fancello era riuscito a fare intorno a sé il gran vuoto necessario alla grazia, il gran vuoto che soffoca le esistenze meschine ed è necessario più del cielo alla nascita della poesia” (p. 114).

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Salvatore Fancello, Bovini al pascolo. Courtesy Comune di Dorgali.

Si radica qui, in questa condizione e capacità di isolamento, la “sua assoluta singolarità stilistica e formale” (p. 7) che tanto colpisce Cecchetti e che fu immediatamente colta da una parte della critica degli anni Trenta; Fancello è una meteora, come recita il sottotitolo del libro, non tanto per la tragica rapidità del suo percorso nella scena artistica italiana, quanto per la sua estraneità (non programmata, non ostentata) a questa scena, “una sorta di oggetto ‘extravagante’, un corpo astrale caduto sulla terra all’improvviso portando con sé una visione del mondo che si poneva fuori dalle facili e, peraltro, dibattute ragioni dell’arte modernista” (p. 35). Un artista “performativo”, scrive Cecchetti, ossia capace di creare da sé il proprio ambiente e le proprie interpretazioni, di inventare una nuova scena aperta dalle sue sperimentazioni; l’incarnazione dell’artista visionario, mai derivativo, immerso nella vita delle forme, caro a Henri Focillon. Proprio dalla Estetica dei visionari di Focillon Cecchetti riprende un passo, che pone in esergo a un capitolo del libro: “I visionari formano un ordine a parte, singolare, indeterminato, in cui prendono posto talenti diversi e fors’anche espressioni ineguali. Fanno trapelare talvolta ciò che vi è di più ardito e di più libero nella genialità creatrice, un potere di divinazione tutto concentrato sui domini più misteriosi della rêverie umana, insomma gli effetti di una visione particolare che altera profondamente la luce, le proporzioni e persino la densità del mondo sensibile. Li si direbbe a disagio entro i limiti dello spazio e del tempo. Interpretano più che imitare, e trasfigurano più di quanto non interpretino…” (p. 35).

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Salvatore Fancello, Leone con criniera rossa e preda ceramica policroma smaltata, 1938.

Insistere su questo carattere dell’opera di Fancello è una congettura (Congetture è il titolo della prefazione, credo fondamentale per chi voglia comprendere le scelte di fondo del lavoro critico di Cecchetti, al suo Pedinamenti. Esercizi di critica d’arte, Edizioni dell’Asino 2018) che consente a Cecchetti di compiere due operazioni: riconoscere un significato molto ampio all’espressione che dà il titolo al libro, Gli anni di Fancello, e dunque giustificarla; illuminare attraverso l’esperienza di Fancello alcuni aspetti decisivi della sua idea e della sua pratica del lavoro critico. 

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Salvatore Fancello, Scimmia che si copre gli occhi.

Gli anni di Fancello, lo annota Cecchetti in avvio, sarebbe a ben guardare un titolo presuntuoso e irragionevole se volesse suggerire una centralità inesistente del giovane artista sardo nella scena artistica italiana tra il 1930 e il 1941. Non è però questa l’intenzione di Cecchetti. Mi pare invece che a giustificare in modo chiaro e convincente le pretese implicite nel titolo siano soprattutto le pagine dedicate nel libro al rapporto, tra personale e professionale, che prende forma a partire dalla metà degli anni Trenta tra Fancello e Giuseppe Pagano, prima e dopo la sua morte al fronte, in Albania. Pagano, direttore di Casabella, iscritto al partito fascista, impegnato in una costante polemica con l’architettura monumentale dei Piacentini e degli Ojetti e in difesa di un’architettura razionalista e modernista, percorre tra la metà degli anni Trenta e il 1942 un percorso che lo conduce lentamente ad allontanarsi dal fascismo, fino a riconsegnare la tessera del partito (nel 1942), entrare in clandestinità e nella Resistenza, morire nel campo di concentramento di Mauthausen nell’aprile del 1945. Tra i principali sostenitori del lavoro di Fancello, che coinvolge tra le altre cose nel programma di decorazione della sede dell’Università Bocconi a Milano nel 1940, Pagano finisce con l’identificare in Fancello l’artista che proprio per la sua “assoluta singolarità” e con la sua morte inaccettabile testimonia l’irriducibilità dell’arte, della sua libertà creativa ed espressiva ai dettami dei “ragionieri del gusto” che cercano di disciplinare e irregimentare le arti in età fascista. Nel discorso con cui inaugura la mostra allestita a Brera del 1942, che Cecchetti raccoglie nel libro (pp. 91-93) e che contiene anche questa incisiva, sarcastica espressione, “ragionieri del gusto”, Pagano attacca con inequivocabile violenza le scelte di una classe dirigente che sta distruggendo la società italiana, tante vite, la possibilità di un’arte non avvilita dall’“invadente disprezzo per l’intelligenza, per la personalità e per la competenza che il costume italiano va sempre più ostentando” (p. 93). Scrive Cecchetti che “Pagano elesse lo scultore sardo a emblema di una libertà che gioca un ruolo pubblico proprio per la completa indipendenza dai dettami che il regime dispensava riguardo alla funzione politica dell’arte e ai linguaggi più fedeli a quel progetto di mondo totalitario centrato sulla morale pubblica cara al fascismo” (p. 44). In questo senso, quelli sono stati gli anni di Fancello: la sua leggerezza, la sua immaginazione libera, il suo stare con sé stesso diventano emblema (per Pagano, per altri intellettuali a lui vicini, forse anche per noi che oggi rileggiamo la sua vicenda artistica e umana) di una vita differente, della possibilità sempre aperta, per usare le parole di Cecchetti, “di una metanoia, un cambio di mentalità” (p. 47). 

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Disegno Ininterrotto, 1938, china e acquerello su carta da telescrivente, cm. 29,4 x 668, Dorgali, Museo Fancello.

Credo però che a Cecchetti Fancello stia a cuore anche per un’ulteriore, ultima ragione, che ha a che fare con il suo modo di giustificare e praticare il suo esercizio della critica d’arte. Quando si sofferma a descrivere il proprio modo di procedere, i movimenti di sensibilità immaginazione e intelletto che entrano in gioco nel suo accostarsi alle opere raccolte in un museo o in una mostra, Cecchetti insiste sulla possibilità e la fecondità di esercitare uno sguardo puro di fronte all’opera, senza che intenda in alcun modo sostenere, naturalmente, “l’idea che esista lo sguardo libero da condizionamenti, o una coscienza priva di retroterra culturale … Per sguardo puro intendo quello di un ipotetico spettatore la cui esperienza dell’opera d’arte parta dalla propria personale sensibilità prima ancora che dal pensiero storico o critico”. In Congetture, da cui è tratta la citazione precedente, Cecchetti si richiama a Rémy de Gourmont e al suo invito a imparare a dissociare le idee; ossia, a metterle in discussione, a decostruire le idées reçues, le formule e le teorie che ci accompagnano opache, in modo quasi inconsapevole, nella nostra ricognizione delle cose e del mondo, e a imparare a vedere, a “mettere alla prova la nostra sensibilità”. Dissociare le idee significa insomma per Cecchetti, o almeno così mi pare, porsi nella condizione di liberare la propria assoluta singolarità; l’unicità di uno sguardo tutt’altro che ingenuo, nutrito di letture, esperienze, visioni, ma capace di riaffermare e incarnare il primato della sensibilità e della immaginazione per rispondere con rispetto e attenzione all’opera d’arte, per accostarla con pudore, consapevole della sua irriducibilità a parole e argomentazioni discorsive, e provare però a dirne sempre e in ogni caso il movimento delle forme, la seduzione, i significati e le ombre che la accompagnano – lavorio il cui esito finale è l’èkphrasis. Nei suoi Pedinamenti, Cecchetti si muove con la libertà del flâneur sulle tracce di qualcosa che “gli ha ferito la fantasia” (questo il significato di “pedinare” secondo un vecchio dizionario etimologico di inizio Novecento, scrive), affidandosi alla sua capacità di osservazione e di sentire per inseguire con delicatezza, senza la pretesa di spiegare tutto, la verità dell’opera d’arte. In filigrana, dietro il critico (di) Cecchetti, traspare allora un profilo che ricorda per molti aspetti il Fancello descritto nel libro: la leggerezza dell’artista sardo, la sua inventiva così personale, così dissociata dalle idee e dai modelli in cui erano irretite le arti e la critica dei suoi anni, sono immagine della libertà e sensibilità che anima anche il lavoro del critico d’arte. 

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