Sidney Bechet, o del suonar con gentilezza
Purtroppo anche l’Europa se ne sarebbe incomprensibilmente dimenticata. Eppure, nel Continente, e soprattutto in Francia, gli avevano tributato trionfali successi per quasi vent’anni. Non a caso avrebbe passato buona parte della propria vita, soprattutto a partire dalla fine degli anni Quaranta, proprio in Francia; dove, invitato a Parigi per il Jazz Festival nel 1949, si era accorto che in Europa il boom di questa musica nata a New Orleans era ormai davvero impressionante. Tutti lo adoravano; anche i filosofi esistenzialisti lo chiamavano “le Dieu”. Un boom che subito dopo doveva oltrepassare l’oceano; generando una sorprendente esplosione di entusiasmo anche negli Stati Uniti – dove, almeno sino ad allora, quasi non si erano accorti di aver partorito dalle proprie viscere una miscela assolutamente esplosiva di ritmo, melodia e armonia, destinata a segnare con inchiostro indelebile tutto il secolo Ventesimo.
Raggiungendo Parigi, Sidney Bechet si era riempito di gioia anche solo per il fatto di essersi finalmente riavvicinato all’Africa, cioè alla sua origine; al luogo da cui provengono tutte le diverse espressioni musicali che siamo soliti ricondurre al complesso ma composito mondo del jazz. Al luogo di cui Bechet sentiva di dover tenere in qualche modo viva la memoria: l’origine. Quella da cui tutto quello che siamo e che facciamo, di fatto, dipende.
Considerazioni, queste, che il nostro strepitoso improvvisatore dal vibrato ‘importante’ mette per iscritto in una godibilissima e intelligente autobiografia, pubblicata di recente in Italia da Quodlibet e intitolata Suona con gentilezza. La mia storia (2023). Una narrazione che lo stesso Bechet dice di concepire come una vera e propria partitura musicale. E che si dipana, pagina dopo pagina, proprio come un brano di jazz; fatto di ingannevoli divagazioni ma anche di resoconti rigorosi e corretti, fedeli alla storia vissuta; fatto cioè di seducenti fantasie, non di rado lontane dai fatti reali, ma anche di concretissimo vissuto, fatto di dolore e umiliazioni, dovute quasi sempre al colore della pelle. Il vero e il falso disegnano così un percorso esistenziale davvero intenso, vissuto sempre sub specie musicae. Perché la musica, in fondo, fornisce una spiegazione a tutte le cose; ne è pienamente convinto il nostro sopranista. Ecco perché anche nelle ultime pagine di questa straordinaria narrazione, Bechet ribadisce che anche da vecchio, “tutto ciò che aspetta è la musica”. D’altro canto, lui veniva da New Orleans; “una città in cui la musica era naturale come l’aria”. La gente era pronta per accoglierla, come se fosse il sole o la pioggia”. Lì era cresciuto insieme a non pochi giganti della musica afroamericana; da creolo, ebbe modo di confrontarsi con Louis Armstrong, ma poi anche con il grande pianista, compositore e direttore d’orchestra, Duke Ellington e con l’impareggiabile voce di Bessie Smith.
Il suo strumento era in origine il clarinetto; ma poi, durante una tappa della tournée europea del 1919, ebbe luogo la ‘conversione’. Si trovava a Londra, quando vide, esposto nella vetrina di un negozio, un luccicante sax soprano che acquistò immediatamente. Da quella volta mise da parte il vecchio strumento di legno, e iniziò a combattere con uno degli strumenti a fiato più difficili da suonare, soprattutto per l’intonazione, quasi sempre sbilenca, imprecisa e dunque difficilissima da controllare. Così divenne punto di riferimento e maestro per tutta una serie di grandi esploratori di suoni, anch’essi convinti di doversi cimentare con tali inaggirabili difficoltà: i sopranisti John Coltrane, Steve Lacy, Elton Dean e, in Italia, Roberto Ottaviano (che scrive anche una breve nota per questo bel volume). La sua scelta, comunque, aveva alla base un motivo ben preciso: la rivalità con i colleghi trombettisti. La cornetta e la tromba, infatti, avevano un suono sempre e comunque dominante; imperioso, squillante, con cui il clarinetto faticava a competere. Perciò l’ottone del soprano gli risolse il problema, consentendo anche al suo estro improvvisativo di guadagnare la prima linea sul palco dei vari teatri.
Si sospetta peraltro che il suo fantomatico ‘vibrato’ potesse non esser altro che un astuto escamotage per riuscire a mascherare i problemi di intonazione.
Interessante poi il fatto che, come ogni improvvisatore che si rispetti, il solista, cioè il narratore, si prenda in queste pagine una serie indefinita di libertà; Bechet lo fa sin da subito, nel secondo paragrafo di questa sua autobiografia. Là dove parla del nonno: Omar. Un personaggio che in verità non è mai esistito, almeno nei termini in cui ne parla il nostro eroe; da cui l’invenzione di un romanzo nel romanzo della sua vita. Il suo nonno reale, infatti, si chiamava Jean e non era affatto uno schiavo, ma un mulatto libero, falegname e proprietario. Al nostro sopranista, comunque, piace far credere che era uno schiavo e che sapeva cantare; che era un capo e danzava. E che la musica fosse già dentro di lui – che si costruiva i tamburi e conosceva bene anche gli strumenti a fiato. Come i suoi avi, in Africa, molto probabilmente, cantava per sopravvivere; come quando, nei giorni liberi, si univa ai suoni che provenivano dalla piazza (da Congo Square), là dove le voci si intrecciavano e si univano, dando vita, piano piano, alla musica; una musica che nasceva “senza sapere come si stesse trasformando in musica… improvvisazione… ecco cos’era”.
D’altronde, gli schiavi non avevano altro: “l’unica cosa che avevano, l’unica cosa di cui nessuno poteva privarli, era la loro musica. Il loro canto saliva dai campi, passava per i loro piedi e si sviluppava fin nel loro stomaco, nel loro spirito, nella loro paura, nella loro nostalgia”. Una musica che a Sidney Bechet doveva regalare momenti indimenticabili e la sensazione che tutto il resto fosse davvero racchiuso nelle note prodotte dal suo strumento; nel vibrato con cui metteva in scena le proprie speranze e le proprie paure. La musica, d’altro canto, gli aveva regalato anche degli incontri straordinari; come quelli cui è dedicato un intero paragrafo di questo volume, in cui si narra dell’incontro con il “Duca” e di quello con Bessie Smith. Duke Ellington, un musicista “vero”, che aveva il feeling giusto, e lasciava che la musica venisse sempre prima. E Bessie Smith, la cantante più grande di tutte. Che era anche “una donna fantastica, ed anche un ottimo agricoltore; che aveva una terra sua, nel New Jersey, e sapeva far crescere bene le sue piante”.
In ogni caso, per il nostro la vita era musica; ma, come nella musica, anche nella vita le note non escono sempre perfettamente intonate e ancor meno accordate con i nostri desiderata. A un certo punto, infatti, Bechet ebbe seri problemi con la giustizia, e finì in prigione. Fu quando tornò per la seconda volta al Chez Florence. Si beveva, si faceva fatica a stare in piedi. Stavano per concludersi gli anni Venti e a Montmartre quasi tutti giravano armati. Una sera si trovò in mezzo a una sparatoria; così scaricò ben presto il caricatore del suo revolver. Certo, aveva agito solo per difendersi, ma venne arrestato dalla polizia. Andò in prigione e vi rimase per undici mesi. Il processo fu un’esperienza che non avrebbe più dimenticato. D’altronde, in seguito a quella brutta faccenda Sidney Bechet non poté più tornare in Francia; così si diresse in Germania. Quindi rientrò in America per una serie di concerti. A un certo punto, si trovò addirittura costretto a gestire una sartoria con un amico, vicino a Nicholas Avenue. Finalmente, nel 1934, riprese a suonare, e la sua tornò ad essere la vita di un instancabile “girovago”.
A salvarlo, era stata ancora una volta la musica; certo, quando giri sempre, a mancarti sono le cose che per la maggior parte delle persone sono assolutamente normali: una casa, delle abitudini rassicuranti e confortevoli. Ma agli occhi di Bechet c’era qualcos’altro che valeva più di tutto il resto; ed era ancora una volta la musica. “Avendola dentro di me, possedevo molto. Che importa quello che succede? La musica resta comunque qualcosa alla quale essere fedeli, e, in un certo senso, è tutta mia: posso ritrovarmi senza nessuno, da qualche parte. Posso star qui seduto, triste e solo, ma tutto quello che devo fare è pensare a una melodia, ed ecco che subito mi sento meglio”.
Una musica che per lui non era altro che la continuazione di quella suonata un tempo da Omar, il suo nonno immaginario (alter ego dello stesso Bechet); una musica che avrebbe potuto venire eseguita tanto a New Orleans, quanto a Chicago e New York; “potevi suonarla anche a Londra, a Tunisi, a Parigi, in Germania… è sempre la lunga canzone iniziata tanto tempo fa nel Sud”. Ad ogni modo, era stato “Omar a cominciare la canzone”. Lo ribadisce senza mezzi termini alla fine del suo “viaggio” autobiografico. “O forse non fu esattamente Omar. Dietro Omar c’era qualcuno che cantava e suonava i tamburi e i fiati, c’era qualcuno dietro tutto questo. Ma fu Omar che diede inizio alla melodia della canzone, ad una cosa nuova”.
Una musica che, peraltro, come rileva acutamente Bechet nelle ultime pagine di questo intenso viaggio della memoria, non può venire definita. Perciò non aveva mai saputo cosa dire quando gli domandavano (ed accadeva di frequente) “Cos’è la musica nera? Cos’è, in realtà?”. Il fatto è che la musica “ti offre già la comprensione che ha di sé”. Un po’ come la vita, forse.
Potremmo forse dire cosa significa davvero “vivere”? Con buona pace di tante disquisizioni (spesso alquanto astratte) di bio-etica, il fatto è che, come ci mostra benissimo la lunga riflessione-narrazione del nostro grande sopranista, la musica è lo specchio fedele (il più fedele!) della vita; ché, come quest’ultima, non si lascia mai rinchiudere entro una definizione, così come non si lascia restituire da alcuna proposizione, per quanto colta e sapiente. Nessun concetto potrà mai afferrarne l’essenza. Stante che, come la vita, anche la musica dice quello che è solo a chi sia disposto a farne esperienza facendosi guidare dalle sue mai vere né false, ma solo emozionanti, digressioni.