L'arte e tutto il resto

17 Agosto 2024

Secondo Wolfang Ullrich (studioso tedesco che dal 2006 al 2015 è stato professore di storia dell’arte e scienze della comunicazione presso l’Università di Arte e Design di Karlsruhe) a caratterizzare il Ventunesimo secolo sarebbe, tra le altre cose, anche il definitivo consumarsi di una lunga e ben caratterizzata epoca della storia. Intrinsecamente connessa, anzitutto, all’idea di una sostanziale “autonomia dell’arte”. 

Questa, la tesi di un volume molto interessante, pubblicato di recente da Castelvecchi e intitolato: L’arte dopo la fine dell’autonomia dell’arte.

Lo sappiamo bene, d’altronde, che a lungo l’Occidente ha cercato di capire cosa potesse consentirci di distinguere quello ‘estetico’ da qualsiasi altro tipo di fenomeno. 

Ad ogni modo, una cosa è certa: quella del concetto di “arte autonoma” è una storia lunga e complessa; una storia importante, anche, che sembra essersi definitivamente e forse anche finalmente esaurita; l’aveva già spiegato, e bene, Arthur C. Danto – ci ricorda Ullrich –, rilevando come, con l’esaurirsi del Ventesimo secolo, fosse diventata sempre più evidente l’impossibilità di distinguere l’arte dalla non-arte. Tutto sembrava ormai poter essere fatto rientrare nell’orizzonte dell’“artistico”. Per quanto la sempre più universalmente riconosciuta indefinibilità dell’arte non potesse più venire intesa come “segno di infinità” (p. 37), per risolversi piuttosto in una sorta di ‘insostenibile’ arbitrarietà, cerebrale e per giunta sostanzialmente irrilevante. Dopo gli orinatoi e gli scolabottiglie duchampiani, tutto sembrava poter venire accolto dentro le sacre mura del Museo e ricevere un vero e proprio attestato di artisticità. Le grandi pietre beuysiane, i violini ‘frantumati’ di Arman, sino alle ‘merde’ manzoniane o al giovane con sindrome di Down esposto da Gino De Dominicis alla Biennale veneziana del 1972. Insomma, “la promessa che l’arte fosse altro e che fosse più di tutto il resto s’era fatta vuota” (p. 37). 

Ma, con il Ventunesimo secolo – ci mostra molto bene l’autore di questo bel volume – le cose dovevano mutare in modo abbastanza radicale. Infatti, se sino ad allora si era rimasti convinti del fatto che tutto potesse venire trasformato in “arte”, ora ci si cominciava a render conto che “poteva venire considerato artistico anche ciò che al tempo stesso non lo era” (p. 43). 

Insomma, sembrava finita l’epoca dell’autonomia dell’arte. Ma, “con l’idea di autonomia doveva entrare in crisi anche il concetto di opera relativamente stabile nella Modernità” (p. 35). Per questo, la celebre frase di Ad Reinhardt “Art is art-as-art an everything else in everything else” (che riassumeva l’esigenza di purezza e autonomia caratterizzante tutta la Modernità), si doveva “trasformare nel contrario e quindi anche abbreviare nel motto: ‘Art is everything else’” (p. 22).

Insomma, al contrario di quanto auspicato da Kant, non ci si sarebbe più dovuti tenere a debita distanza dalle molteplici forme di piacere sensibile, interesse, piacevolezza e utilizzabilità; per questo, l’arte post-autonoma avrebbe anche potuto impegnarsi a “suscitare un desiderio di possesso o di vicinanza” (p. 22). 

Ormai, non si temeva più di riconoscere che nell’arte ci si dovesse attenere “a standard sociali, civili ed ecologici” (p. 23). Insomma, l’arte non si vergognava più di venire valutata “come prodotto di marca o come occasione di accusa e di sdegno, come contributo a temi di discussione che spesso a loro volta vengono dibattuti a livello globale” (p. 75). Ma aveva cominciato ad assumere in forma sempre più consapevole il carattere di realtà, dopo essersi impegnata per secoli a salvaguardare il proprio ‘angolo d’irrealtà’; insomma, “erano ormai le cose reali a prendere il posto delle opere d’arte autonome a lungo privilegiate in Occidente” (p. 75), e, mentre da un lato le opere finivano per diventare parte integrante di un potente ordine economico e sociale, dall’altro “erano le urgenze dei temi socio-politici a ridestare le coscienze sull’ingiustizia e la crudeltà, sulla ‘genuina’ sofferenza” (p. 75). 

Da qui la trasformazione delle vecchie opere d’arte in vere e proprie “testimonianze dal valore definitivo” (p. 75). Un novissimo contesto, insomma, all’interno del quale gli artisti che avessero voluto ancora operare nel nome di un’arte autonoma avrebbero fatto sempre più fatica ad “attirare l’attenzione su di sé” (p. 77). Anche perché, come ci spiega bene lo studioso tedesco, in questa nuova prospettiva un ruolo decisivo veniva sempre più decisamente svolto dai social media. 

“Da quando questi avevano preso piede e allargato il loro raggio d’azione nel secondo decennio del XXI secolo, le conseguenze per le istituzioni del mondo dell’arte erano state gravi” (p. 81). 

Al punto che “quel che veniva esibito nelle gallerie e nelle mostre era sempre più spesso certificato da una piattaforma di social media e si basava su un voto più ampio di quanto fosse stato sino ad allora” (p. 83). In questo nuovo orizzonte, insomma, quello dell’interazione sembrava destinato a diventare un fattore sempre più rilevante. Sì, perché i fruitori dell’opera-post si sentirono subito in obbligo di reagire; o quantomeno di “segnalare quanto avesse fatto piacere il fatto di aver ricevuto il post” (p. 85). 

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Wolfgang Ullrich.

Da cui una varietà di forme di scambio sino ad allora completamente impensabili; impensabili, sicuramente, quando l’opera poteva ancora “rivendicare una certa validità universale solo nella misura in cui fosse sorta indipendentemente dalle aspettative del pubblico” (p. 84). 

Il fatto è che il medesimo artista, ormai, riusciva a svolgere ruoli e funzioni anche molto diverse tra loro; come Magyar (artista del make-up ungherese), che, nella sua attività, non ha mai riconosciuto alcun confine “tra l’arte e gli altri propositi: ciò che faceva era infatti tanto moda quanto femminismo, tanto ribellione quanto pittura” (p. 89). O come Daniel Asham, impegnato a tradurre i modelli auto della Porsche in multipli di selenite, o le valigie Rimowa in sculture di gesso… e a riprodurre in quarzo i personaggi dei Pokémon. Le cui dimensioni dovevano rimanere quelle degli originali; per quanto dotati “anche del logo del brand (oltre che di quello di Arsham)” (p. 169).

Insomma, l’opera stava ormai perdendo ogni aura; tanto da far evaporare anche la supposta sacralità messa a tema da Benjamin; sì, le opere si stavano sempre più radicalmente trasformando in “art-toys” – che non avrebbe avuto più alcun senso rinchiudere nei musei, allontanandole così dai luoghi che potevano legittimarle a rivendicare un significato grande, “a volte complesso, importante per molte persone e privarli della loro efficacia originaria” (p. 212). 

Perciò venne messa radicalmente in discussione la convinzione (a lungo imperante) secondo cui, sulla base di una comprensione monoteistica della religione, ci si sarebbe potuti impegnare a speculare sull’infinito e sulla redenzione, e a considerare l’artista “come un genio dotato della grazia divina, e il suo lavoro come la parola di Dio: insondabile e potente” (p. 213). 

In verità l’artista era ormai un essere umano completamente inserito in questo o quel determinato contesto sociale e politico; costretto così a prendere posizione; e a proporsi quale testimone di un vero e proprio progetto, oppure di un bisogno, o anche solo di un ideale. Come Ai Weiwei che, nel 2016, decide di trasformare in “opera” i destini di molti uomini costretti a fuggire e a mettere così a rischio la propria vita: i migranti. Insomma, il nostro artista “appende alle colonne del classico Konzerthaus di Berlino svariate migliaia di giubbotti di salvataggio arancioni ciascuno dei quali avrebbe dovuto simbolicamente rappresentare uno dei profughi” (p. 170). 

Certo, l’effetto non fu quello da lui auspicato; nel caso in questione, infatti, molti considerarono l’istallazione appena evocata come una ‘massa anonima’, incapace di provocare una qualsivoglia forma di empatia: a molti, infatti, quella messa in scena doveva apparire piuttosto come “un’ondata minacciosa e repellente di uomini che approdano in Europa in maniera incontrollata” (p. 170). In ogni caso, per lui – come per buona parte degli artisti contemporanei – “più che insistere su determinate caratteristiche formali sembrava importante riuscire a fare presenti in molti luoghi le sue preoccupazioni politiche” (p. 173).

Certo, fa bene Ullrich a rilevare come quel che restava ormai da chiedersi era come mai “Ai Weiwei potesse voler essere ancora percepito come un artista” (p. 173). 

D’altro canto, anche le sempre più frequenti collaborazioni tra arte e moda, inizialmente viste come accostamenti tra “distinti e perfino tra incompatibili” (p. 57), dovevano da un lato trasformare gli artisti (come nel caso di Jeff Koons) in vere e proprie etichette di marca disposte ad “accettare senza compromessi le condizioni del mondo del consumo e conformarsi a un’estetica della seduzione e della lusinga applicabile a livello globale” (p. 59), e dall’altro trasfigurare prestigiosi marchi di moda – come Louis Vuitton – in vera e propria “arte”, rendendoli altresì disposti ad esigere molto dalla propria clientela; “la quale sarebbe apparsa a sua volta all’avanguardia e cool” (p. 57).

Anche se non di rado l’arte avrebbe ancora saputo irritare e alienare, senza adeguarsi, e riuscendo finanche “a conservare un residuo di incomprensibilità” (p. 44). 

In ogni caso la direzione era ormai segnata, e da un pezzo. L’arte, cioè, sembrava non poter più fare a meno di tornare al prima rispetto alla “sua supposta autonomia”; al prima rispetto alla Modernità. Quando essa “acquisiva autorevolezza solo perché associata a qualcosa che da parte sua era irrefutabilmente riconosciuto, parte di una realtà indiscussa” (p. 47). Quando, cioè, era soprattutto lo status sociale dei mecenati a consentire agli artisti di acquisire una qualche più o meno legittima autorevolezza. 

Certo, “nel presente dell’arte postautonoma è più o meno lo stesso, soltanto che adesso sono un prezzo elevato o un importante collezionista a conferire a un pezzo d’arte un peso che altrimenti non potrebbe ottenere” (p. 47). L’artista ha bisogno di un riconoscimento di cui sembra poter godere solo in rapporto alle nuove urgenze sociopolitiche; che spesso ispirano finanche le Biennali o i grandi eventi espositivi, in generale. 

Per quanto, in questa medesima prospettiva, “chiunque avesse acquistato le sneakers di Ringgold si sarebbe compiaciuto per la realizzazione esistenziale dell’artista e al stesso tempo schierarsi a favore di una società libera da discriminazioni” (p. 10).

Ma, un’arte trasformatasi in un generalizzato cantiere di art-toys, di prodotti di marca e oggetti reali, in sempre più evidente contrasto con l’indistricabile complessità di un’opera come il Grande vetro di Marcel Duchamp… insomma, un’arte destinata ad attingere sempre più evidentemente dall’esterno finanche le proprie condizioni di legittimità, cosa avrebbe mai potuto offrire al mondo, che non fosse già contenuto nelle molte manifestazioni politiche, nei moltissimi brand che, là dove ambiscono a farsi incorniciare dallo spazio museale o espositivo, sembrano invece bramare quel ‘di più’ di cui non avrebbero saputo rendere in alcun modo ragione? Quel misterioso ‘non-so-che’ che, solo apparentemente, dunque, poteva venire superato da una ‘decisa’ presa di distanza dalla Modernità – come sembra volerci dire Ullrich –, mossa dall’intento di arricchire la nostra esperienza con manufatti “che riuniscono in sé più qualità e qualifiche di quanto abbia mai potuto fare un’opera d’arte autonoma” (p. 138).

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