Sorvegliati e felici
Sorvegliati e felici di esserlo? Sembra questa la condizione (surreale, paradossale) comune a miliardi di persone sulla terra. Comune perché i nostri dispositivi tecnologici servono in realtà anche (o soprattutto) a generare dati su chi siamo e su tutto ciò che facciamo, pensiamo, amiamo, odiamo... Dati – cioè la nostra vita intera tradotta in numeri, aggiungendo alle patologie della modernità industriale e positivistica non solo la reificazione marxiana ma oggi anche la datificazione tecnologica. Tecnologica perché la profilazione e lo spionaggio individualizzato di massa non sarebbero possibili senza le tecnologie digitali e al tutti connessi e tutti a condividere e tutti a farsi profilare.
E così, ciò che avevamo considerato una perversione/aberrazione politica dei totalitarismi politici del Novecento – lo spionaggio di massa, il controllo politico capillare di tutti e di ciascuno, la negazione della libertà individuale e collettiva, e quindi dicevamo: mai più! – è oggi accettato come assoluta normalità se praticato dagli Stati ma soprattutto da imprese private capitalistiche. Imprese che grazie alla tecnologia hanno appunto colonizzato e valorizzato e messo a profitto privato non più solo il nostro lavoro e il nostro consumo, ma anche la nostra vita privata e psichica (relazioni, emozioni, desideri, conoscenze e conoscenza), traducendola in business e plusvalore per sé.
Ma la storia della sorveglianza è più antica. E la sorveglianza è uno dei caratteri intrinseci della modernità – e rimandiamo a Sorvegliare e punire di Michel Foucault, libro fondamentale se si vuole capire qualcosa della modernità e dove una parte è dedicata al Panopticon secondo il modello di Jeremy Bentham, cioè al tentativo di estendere ma soprattutto di razionalizzare il controllo non solo sui prigionieri di un carcere, ma nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali. E il controllo non è forse uno degli elementi (perché è nella sua essenza) del lavoro industriale fin dagli inizi della rivoluzione industriale, sorveglianza sul lavoro praticata (insieme alla sua organizzazione e al comando su di esso) dal capitale o meglio dalla Direzione di fabbrica – Direzione oggi algoritmica, dove l’algoritmo è insieme organizzazione, comando e sorveglianza?
E tuttavia, con la modernità nasce anche il concetto e la pratica della privacy, la rivendicazione cioè (soprattutto borghese, ma poi diffusa socialmente) di avere spazi e tempi di vita che dovevano restare privati, personali, fuori dalla vista degli altri; spazi e tempi riservati per sé o per la famiglia, le case con uno spazio aperto per ricevere gli altri (i salotti) e spazi invece esclusivi e protetti. Oggi questa privacy – concetto molto liberale, strettamente legato alla libertà dell’individuo e alla doverosa distinzione/separazione tra ciò che è privato (e che deve restare privato, altrimenti addio libertà dell’individuo) e ciò che è invece pubblico – sembra morta e sepolta. Da tempo il capitalismo ha rovesciato tutto. E tutti mettiamo nella vetrina della rete noi stessi, tutti abbiamo accettato di essere sorvegliati in massa, e abbiamo cancellato la separazione tra sfera privata e sfera pubblica (che è il fine – non dimentichiamolo – di ogni società totalitaria). Persino l’architettura produce oggi edifici trasparenti. E siamo così arrivati a quello che Shoshana Zuboff ha definito Il capitalismo della sorveglianza (Luiss University Press, 2019 e 2023). E allora, ecco la domanda: si può uscire da questo ulteriore e ormai pervasivo capitalismo che fa della nostra sorveglianza ormai h 24 una grande fonte di profitto privato per sé? E che legami e sinergie vi sono tra i monopolisti privati e capitalistici della sorveglianza e gli Stati – e perché usiamo sempre la Cina come modello negativo di stato della sorveglianza dimenticando che anche le nostre democrazie non sono da meno? A queste e ad altre domande cerca di rispondere un libro dal titolo che più esplicito e programmatico non potrebbe essere: Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, scritto da Cory Doctorow, scrittore di fantascienza e attivista per i diritti digitali e da poco pubblicato da Mimesis (pag. 153, € 16,00), con la traduzione del Gruppo Ippolita, uno dei più attenti spazi di analisi filosofica e tecnologica del fenomeno digitale.
Prima di procedere con il libro di Doctorow, però, due passi indietro. Perché la perdita/negazione della privacy ha una storia appunto antica anche se le nuove tecnologie hanno prodotto una accelerazione del processo e nel 2010 nessuno (o pochissimi) aveva contestato Mark Zuckerberg quando aveva detto (e il suo obiettivo era quello di rubare i nostri dati personali, per questo la privacy doveva essere rimossa): “Ormai gli utenti condividono senza problemi le informazioni personali online. Le norme sociali cambiano nel tempo. E così è anche per la privacy”. Ma chi stava producendo il cambiamento delle norme sociali se non lo stesso capitalismo, per i propri fini di profitto?
Primo passo indietro. Riprendiamo lo scrittore William Faulkner, premio Nobel per la letteratura nel 1950 e un suo scritto intitolato Privacy, del 1955 e recuperato nel 2001 da Stefano Rodotà, primo Garante italiano della privacy, per una sua edizione fuori commercio e poi pubblicato da Adelphi nel 2003. Scriveva Faulkner: “Più o meno dieci anni fa [quindi, siamo alla metà degli anni ‘40] un noto critico letterario e saggista […] mi disse che un ricco settimanale illustrato di grande diffusione gli aveva offerto parecchi soldi per scrivere un pezzo su di me – non sul mio lavoro o le mie opere, ma su di me in quanto privato cittadino, in quanto individuo. Io dissi di no e spiegai il perché: la mia convinzione [era] che soltanto le opere di uno scrittore siano a disposizione del pubblico, aperte alla discussione, allo studio e al commento, in quanto lo scrittore stesso le ha rilasciate al dominio pubblico nel momento in cui ne ha proposto la pubblicazione […]. Finché lo scrittore non commette un delitto o si candida a un pubblico ufficio, la sua vita privata è unicamente sua; e non soltanto egli ha il diritto di difendere la sua privacy, ma il pubblico ha il dovere di fare altrettanto […]; e ritenevo che qualsiasi persona con un minimo di buon gusto e senso di responsabilità avrebbe convenuto con me”. Ma il giornalista rispose: “Ti sbagli. Se faccio io il pezzo, lo faccio con buon gusto e con senso di responsabilità. Ma se tu rifiuti, prima o poi lo farà qualcun altro […] al quale importerà di te solo come merce, come bene economico: che va venduto per aumentare la tiratura e fare un po’ di soldi”. Ecco, continuava Faulkner, il problema della perdita della privacy è tutto qui: nell’avere trasformato la vita dell’individuo, scrittore o non scrittore che sia, in pura merce da cui trarre profitto. Ovvero, la perdita della privacy di allora, premessa per produrre poi il capitalismo della sorveglianza è cioè il prodotto del capitalismo stesso. Che deve restare opaco, nascosto oggi dietro a un algoritmo, mentre noi dobbiamo farci trasparenti.
Secondo passo indietro: cosa intende Shoshana Zuboff per capitalismo della sorveglianza? “Il potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere capitalismo della sorveglianza perché mantengono elementi centrali del capitalismo tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza. Metodi occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati sui comportamenti. Con un passaggio rapidissimo questi dati, che sono generati dalle persone e che sono stati acquisiti in modo discutibile, sono immediatamente reclamati come proprietà dell’azienda. […] È un mercato delle materie prime con futures umani. […] Non abbiamo votato queste aziende perché governassero. Ma, grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà, gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe epistemico e antidemocratico. Con questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere. I giganti tech decidono che cosa si sa, chi può saperlo e con quale obiettivo. […] Il capitalismo della sorveglianza è la gabbia d’acciaio dell’era digitale. […] producendo danni sociali che vanno dalla modificazione su enorme scala dei comportamenti a un diffuso caos economico ed epistemico, mentre un’informazione alterata viene amplificata da macchine che sono studiate per massimizzare la raccolta di dati e migliorare le previsioni. […] gli imperi aziendali della sorveglianza competono ormai con la democrazia sui diritti fondamentali e sui principi legali su cui essa si fonda. […] Lo scopo è allontanare le persone dai governi e sostituire la società con sistemi computazionali al posto della democrazia”. Citazione lunga ma doverosa, come la precedente di Faulkner.
Come distruggere allora questo capitalismo della sorveglianza? Doctorow accoglie la tesi di Zuboff, ma scrive: “Zuboff attribuisce un peso eccessivo e ingiustificato al potere di persuasione delle tecniche di influenza [di modificazione comportamentale, si pensi agli algoritmi predittivi] basate sulla sorveglianza dei cittadini”, mentre è invece “il monopolio la causa e il capitalismo della sorveglianza e i suoi risultati negativi ne sono gli effetti”. Ovvero l’industria tecnologica è cresciuta perché sono mancate le politiche antitrust che ne limitassero il potere crescente, e il loro regime di monopolio ha permesso alle imprese le opportune strategie di persuasione per evitare politiche antitrust, anche in nome di un loro rivendicato eccezionalismo tecnologico che le porrebbe al di sopra della legge. Quindi, “le Big Tech sono in grado di esercitare la sorveglianza non solo perché sono tecnologiche, ma anche perché sono grandi. […] cioè, mentre la sorveglianza non causa i monopoli, i monopoli certamente favoriscono la sorveglianza”. In realtà, a differenza di Doctorow (ma giustissima la sua critica al monopolio) – e più vicini a Zuboff – crediamo che proprio i dati e la tecnologia che lo ha permesso (insieme al conformismo sociale diventato digitale) hanno potuto generare il monopolio/oligopolio della sorveglianza. E così come ieri è stato il petrolio a creare l’oligopolio delle Sette sorelle, così oggi lo sono i dati (definiti anche il nuovo petrolio) per creare l’oligopolio tecnologico. Certo, aggiunge Doctorow, “questo non significa minimizzare i problemi della sorveglianza; e il suo uso da parte delle Big Tech è un rischio mortale, ma non perché la sorveglianza e l’apprendimento automatico ci privino del libero arbitrio” – mentre questo è invece proprio ciò che si produce, come oggi con l’IA (e si pensi anche al caso di Clearview AI, un database di miliardi di volti ottenuti senza consenso). Come dissentiamo da Doctorow quando crede (perché la realtà lo smentisce) “che la tecnologia non sostituisce la responsabilità democratica, lo stato di diritto, l’equità o la stabilità, ma è un mezzo per raggiungere questi obiettivi”.
Su tutto, “i nostri governi sono asserviti sia all’ideologia dei monopoli, sia a quella che dice che in un mondo monopolistico è meglio non far arrabbiare i monopolisti”. E conclude: “La sorveglianza non rende il capitalismo disonesto. La sorveglianza non è negativa perché permette di manipolare le persone, ma perché schiaccia la nostra capacità di essere autentici”, che ci sembra però un altro modo per manipolare le persone e togliere loro il libero arbitrio (o quello che ne resta). E comunque, occorre distruggere il capitalismo della sorveglianza prima che distrugga la libertà e la democrazia, in nome di una tecnologia “libera, equa e aperta”. E “per questo abbiamo bisogno di un attivismo per i diritti digitali”, capace di spezzare “la relazione simbiotica” tra Big Tech e Stati.
Ma distruggere il capitalismo della sorveglianza presuppone la distruzione della sorveglianza stessa come norma e normalità sociale e politica (non basta spezzare i monopoli) – e cioè la sua accettazione da parte di ciascuno di noi.