Cybercapitalismo, ovvero capitalismo
Cos’è il capitalismo – quello legato alla rivoluzione industriale? Ci siamo dentro da tre secoli, ma sappiamo cos’è e come funziona e come ci fa funzionare, secondo le sue esigenze, via management, marketing e social? Oppure, proprio il nostro esserci dentro e la sua incessante mobilitazione e accelerazione ci impediscono di vedere le costanti che lo istituiscono e lo riproducono, diventando ormai una forma di vita più che un sistema meramente economico?
Ed è davvero razionale la razionalità (Max Weber) che pervade il capitalismo oppure proprio la crisi climatica e ambientale sempre più grave è lì a dimostrarci – avendo essa la sua causa prima (se non unica) appunto nel capitalismo – che il capitalismo è invece assolutamente irrazionale nei confronti della biosfera e dell’uomo e della ragione come categoria in sé?
E siamo davvero in una società post-industriale e immateriale o non è piuttosto una società iper-industriale e iper-industrializzata, oggi che il taylorismo si è fatto digitale ma sempre di taylorismo si tratta? E non è forse vero che anche la Fabbrica 4.0 (in attesa della 5.0) e il digitale (che sarebbe un cambio di paradigma radicale rispetto al passato), sono sempre una fabbrica, dove comunque vi è qualcuno che organizza, comanda e sorveglia (oggi magari un algoritmo) e sempre vi è qualcuno che deve eseguire (e siamo tutti riders di qualche piattaforma)? Lo aveva già capito un secolo fa Simone Weil, che ricordava come l’oppressione sociale non dipendesse tanto dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma proprio dalla organizzazione di fabbrica del lavoro e della vita; mentre negli anni ’70 un oggi dimenticato ma ancora attualissimo Harry Braverman descriveva in un suo saggio allora famoso la degradazione del lavoro nel XX secolo prodotta dal capitalismo monopolistico e dal management – una degradazione che oggi rinasce e si moltiplica con le piattaforme digitali, il lavoro povero e il caporalato digitale, il management algoritmico, gli schiavi del clic, lo sfruttamento crescente del nostro pluslavoro e della biosfera.
E il capitalismo monopolistico di cui scrivevano sempre negli anni ’70 gli economisti americani Baran e Sweezy non si riproduce forse anche oggi, o soprattutto oggi, con i giganti dell’hi-tech e delle piattaforme, nulla essendo cambiato da allora se non il fatto che non lo chiamiamo più spregiativamente capitale monopolistico, ma tutti guardiamo affascinati alla Silicon Valley (uno dei luoghi fisici e insieme metafisici del capitalismo monopolistico digitale), tutti ansiosi di avere una intelligenza artificiale con noi per liberarci finalmente dal peso di dover pensare?
Ma se questo – soprattutto questo – è il capitalismo, perché nessuno più si dice anticapitalista?
E dire cybercapitalismo – che è anche il titolo dell’ultimo libro di Emanuela Fornari (Bollati Boringhieri, pag. 108, € 14,00) – significa dire qualcosa di davvero nuovo, oppure è solo un modo diverso per dire capitalismo, sempre uguale e sempre solo apparentemente diverso? E il cybercapitalismo ha poi anche una relazione di causa-effetto con la fine del legame sociale (è il sottotitolo, con punto interrogativo finale, del libro di Emanuela Fornari – che insegna Ontologia ed Ermeneutica filosofica all’Università di Roma Tre), oppure la fine del legame sociale è negli obiettivi o comunque negli effetti inevitabili da sempre del capitalismo, perché ogni morte del legame sociale è la premessa per una successiva ri-socializzazione degli uomini in qualcosa di valorizzabile capitalisticamente? Pensiamo alla de-socializzazione prodotta nei villaggi inglesi dalle enclosures (la recinzione/privatizzazione delle terre comuni), per la produzione di proletariato e la sua ri-socializzazione nelle fabbriche della prima rivoluzione industriale; e alla nuova de-socializzazione (la società non esiste, esistono solo gli individui, dice l’ideologia neoliberale) per la ri-socializzazione oggi di tutti sempre nel sistema capitalistico ma digitale (ad esempio via social, che sono anch’essi fabbriche – nel senso di Weil e di Braverman) e quindi nel cybercapitalismo. Che sembra smaterializzare ogni cosa – la modernità liquida di Bauman, partendo dal Manifesto del partito comunista del 1848, dove Marx ed Engels descrivevano la condizione di allora con la frase famosa: “tutto ciò che è solido svanisce nell’aria; tutto ciò che ha consistenza evapora” – ma dove poi, così sembra a noi, a solidificarsi sempre più è il capitalismo, diventato tanto solido da pretendersi immodificabile e irriformabile (non ci sono alternative!), una forma di vita unidimensionale (direbbe Marcuse), ormai perfettamente autoreferenziale e autotelica.
Per Emanuela Fornari il cybercapitalismo denoterebbe una sorta di linea d’ombra con la fine del capitalismo classico – ma anche dell’economia finanziaria – e il “suo oltrepassamento in una nuova costellazione in cui governano codici e linguaggi inediti, in un’indistinzione tra cose e merci che assoggetta l’intero mondo e l’intera natura al processo di valorizzazione”. E il concetto di valore è uno dei perni fondamentali del saggio di Fornari, che va a cercarne la genealogia – e questo è molto da apprezzare, essendo la riflessione sul passato oggi sempre più assente, tutti o troppi limitandosi all’analisi del presente, come se vedere il passato del capitalismo non fosse invece assolutamente necessario per comprenderne appunto l’essenza, le forme e le norme di funzionamento – appunto, anche del cybercapitalismo. Essenza ormai invece accettata come una forma deterministica e determinata del vivere e dell’agire degli uomini. Come normalità e come il migliore dei mondi possibili e non invece una eccezione della storia umana, come appunto sosteneva un grande, anch’egli dimenticato, come Karl Polanyi.
Fornari va dunque alla ricerca della genealogia di questo cybercapitalismo dominato dal web e dall’intelligenza artificiale. E cinque sono in particolare gli autori che va a incontrare, mettendoli opportunamente in relazione tra loro: Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Marcel Mauss (e la sua idea di dono e contro-dono come costruttori invece del legame sociale, Mauss trascurando il fatto che esiste anche un dono fatto senza aspettative di contro-dono), il citato Karl Polanyi, Maurizio Lazzarato (e la sua economia del debito – e l’indebitarsi come motore della crescita) e Arjun Appadurai. Limitiamoci – per ragioni di spazio, ma rinviando direttamente al saggio di Fornari per le parti qui mancanti – a Baudrillard e in particolare al suo Lo scambio simbolico e la morte. Scrive Fornari, richiamando Baudrillard dell’ipercapitalismo: “Quando la dimensione illusoria e straniante che avvolge le relazioni sociali non permette più di scorgere la contraddizione reale [Baudrillard] che si cela dietro l’iperreale [un di più, non un di meno di realismo, portato al limite estremo della sua dissoluzione], è impossibile sfuggire alla morte della realtà. Il capitalismo, preso da una pulsione di morte, o meglio da un desiderio inconscio di autoannientamento, perde ogni caratterizzazione produttiva, iniziando ad acquisire i caratteri del dominio e della violenza simbolica. L’economia va quindi ridefinita come sistema di sfruttamento, o di dominazione, contraddistinto dall’effetto di seduzione esercitato su di noi dal sistema dei segni” – e quindi anche dalla moda, che non risponde a un bisogno reale ma è la combinazione capitalistica di “segni linguistici e monetari” finalizzati alla massimizzazione del profitto. Seduzione e fascinazione esercitata però, per Baudrillard anche “dal macchinario industriale e dalla tecnica”, che genera “un sequestro del vivo da parte del morto”.
E chiudiamo con Gilles Deleuze e il suo concetto di dividuale: “Un concetto” – in realtà di un individuo trasformato in un divisum aveva scritto ad esempio Günther Anders molto prima di Deleuze – “che vuole indicare appunto un soggetto ridotto a dividuo, a qualcosa di scomponibile per essere ricomposto e rimodellato a seconda delle esigenze del valore: quello che, ormai, viene definito capitale umano”. Che è il correlato, scrive Fornari “dell’odierno cybercapitalism che, producendo dividuali (soggetti tagliati e sezionati secondo nuovi assi di gerarchizzazione), si profila come un inedito modo di dominazione che frammenta il legame sociale” – che tuttavia non sembra essere davvero inedito.
Resta la domanda fondamentale – che riprendiamo da Fornari facendola pienamente nostra (ma che dovrebbe essere di tutti) – se siano cioè “possibili vie di fuga per il post-soggetto contemporaneo […] per future e liberatorie forme di istituzione della società”. Un soggetto/homo oeconomicus che ormai è però “diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice” – scriveva Max Weber, più di cento anni fa. Il che complica maledettamente le cose.
In copertina, Opera di Sabrina Ratté, Geometry of the Dream-Place, 2019, Inkjet Print, 150x110cm.