Perdersi tra le righe / Tanti modi per leggere
Lettura profonda
Nel Trattatello in laude di Dante, Boccaccio racconta che l'autore della Commedia, trovandosi a Siena nella bottega di uno speziale, scovò un libro che non era ancora riuscito a leggere. Mentre in città imperversava la festa, l'Alighieri si immerse nella lettura:
Mai non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi ad ora di nona, prima fu passato vespro, e tutto l’ebbe veduto e quasi sommariamente compreso, che egli da ciò si levasse.
Gli amici rimasero sorpresi dalla sua capacità di concentrazione, in tutta quella confusione, e dal fatto che Dante non si fosse accorto di quello che stava succedendo tutto intorno a lui. Più di un secolo dopo, nella celebre lettera del 10 dicembre 1513 all'amico Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli confida:
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Dante e Machiavelli testimoniano “il rituale magico della lettura, la sua forza di incantamento, i piaceri e i benefici che essa dà”, come scrive Lina Bolzoni nel suo magistrale Una meravigliosa solitudine. L'arte di leggere nell'Europa moderna (Einaudi, 2019), in cui riflette sulle trasformazioni della lettura a partire dall'esperienza che ne avevano Petrarca, Boccaccio, Bembo, Federico da Montefeltro, Erasmo...
Ma tu leggi a F o a Z?
Ai tempi di Dante e Machiavelli, i libri – faticosamente ricopiati dagli amanuensi – erano una rarità che permetteva di dialogare con i grandi uomini del passato. Lo scenario è completamente cambiato. Il Global Industry Centre dell'Università della California a San Diego ha calcolato che oggi consumiamo su vari dispositivi mediamente 34 gigabyte di testo al giorno. È l'equivalente di 100.000 parole, come se leggessimo quotidianamente un romanzo come Il piacere di Gabriele D'Annunzio. Ma questa alluvione non ci immerge in un unico flusso narrativo: si polverizza in una raffica di microtesti che frammentano la nostra attenzione. L'informazione atomizzata diventa distrazione, diversivo, infotainment, impossibile da ricondurre a un insieme coerente.
I testi che leggiamo in rete non sono in genere oggetto di quella che viene definita “lettura profonda” da Sven Birkets in The Gutemberg Elegies. L'esperienza viene approfondita e discussa da Marianne Wolf nel suo Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e Pensiero, 2018), con il supporto di numerose ricerche.
Ziming Liu (nei saggi Reading Behaviour in the Digital Environment, “Journal of Documentation”, 61 (6), 2005, pp. 700-712; Digital Reading, “Chinese Journal of Library and Information Science”, 5(1), 2012, pp. 85-94) e altri scienziati che studiano i movimento oculari hanno scoperto che la lettura digitale tende a seguire uno stile a F (si legge per intero la prima riga, e poi segmenti sempre minori andando verso il fondo della pagina), o a Z (zigzagando) per individuare “rapidamente alcune parole nel testo (spesso sul lato sinistro dello schermo) per cogliere il contesto, guizzare alle conclusioni poste alla fine del testo e, solo se è giustificato dal contenuto, ritornare al corpo del testo per selezionare dettagli di sostegno” (Marianne Wolf). Si diffondono lo skimming (lettura superficiale), lo skipping (salto di parti del testo) e il browsing (scorrimento veloce), anche perché su schermi e microschermi manca la dimensione concreta dello spazio della pagina e si perde la fisicità del libro. Queste analisi sono confermate dal report How People Read on the Web: The Eyetracking Evidence, prodotto dal Nielsen Norman Group a uso di inserzionisti e pubblicitari, che raccoglie in 350 pagine i dati dell'eye-tracking di oltre 300 persone per circa 1,5 milioni di “fissazioni” (ovvero sguardi) su centinaia di pagine web.
La lettura profonda ci impone di staccarci da qualunque altra attività, lo skimming può rientrare nell'ambito del multitasking.
Il rotolo e la tavoletta, ovvero ritorno al futuro
Se volessimo proseguire una storia della lettura, invocata da Robert Darnton e poi realizzata da Alberto Manguel (Feltrinelli, 2009), basterebbero queste informazioni per invocare l'apertura di un nuovo capitolo. Bisognerebbe iniziare da un paradosso, perché il lessico della lettura del terzo millennio riprende quello dell'antichità: to scroll significa oggi scorrere un testo sullo schermo, ma gli scroll sono i papiri, i rotoli che popolavano la Biblioteca di Alessandria, poi soppiantati dal codex, il libro, che si è affermato con il cristianesimo, secondo la ricostruzione di Antony Grafton e Megan Williams (Christianity and the Transformation of the Book, Belknap Press, 2006). All'epoca i tablet erano le tavolette cerate utilizzate dai bambini per imparare a leggere e scrivere e dagli adulti per rapidi ed effimeri appunti.
Risorge anche l'oralità. Fino ai primi secoli dell'era cristiana, non esisteva la lettura silenziosa e solitaria, oggi prevalente: quando Agostino, giunto a Milano dall'Africa, vide il vescovo Ambrogio leggere senza pronunciare alcuna sillaba, ne fu tanto sorpreso da annotare l'episodio nelle sue Confessioni. In questi anni, grazie anche a multinazionali come Audible e Storytel, si diffondono audiolibri e podcast. Le “giornate della lettura ad alta voce” rivalutano una pratica che può essere destinata a persone in difficoltà e soprattutto all'infanzia. La narrazione ad alta voce permette all'adulto di sintonizzarsi con la propria parte infantile, e al bambino di ampliare la conoscenza del mondo, di sviluppare fantasia e immaginazione, di ampliare la capacità di attenzione e concentrazione, come spiegano Marta Stella e Sara Luna Bruzzone nel loro blog di sostegno alla genitorialità www.mammechefatica.it.
Ma perché lo leggi?
Non esiste un solo modo per leggere. E non è mai esistito. Utilizziamo i testi con obiettivi diversi e in maniere diverse, con livelli variabili di attenzione e di coinvolgimento emotivo: un manuale di anatomia quando studiamo medicina, un noir o un rosa per distrarci in spiaggia o sul treno, l'Almanacco di Frate Indovino per sapere quando interrare i bulbi, un dizionario di inglese, le istruzioni della nuova lavatrice, il resoconto dell'ultima partita della nazionale, una poesia di Hölderlin, la deposizione di un imputato... Ognuno di questi testi attiva centri d'attenzione diversi a seconda del lettore: nell'ultimo caso, il verbale cambia significato se a leggerlo è l'avvocato difensore, il giudice, un giornalista o lo storico.
Che ci siano diverse modalità di lettura, e diverse motivazioni che spingono a leggere, i professionisti dell'editoria lo sanno da sempre. Sul fronte delle motivazioni, la stessa definizione dei generi letterari, e la disposizione dei volumi sugli scaffali delle librerie, riflette la loro varietà e complessità. Editori e librai sanno che esistono testi che “dobbiamo” leggere per motivi di studio o manuali che ci insegnano come svolgere determinati compiti, e che ci sono testi che leggiamo per svago e per passare il tempo (la “letteratura d'evasione”) o per ampliare il nostro bagaglio culturale (per esempio i classici o i testi di storia e le biografie), o per essere informati sull'attualità.
La distribuzione di un testo nello spazio vuoto si adegua ai nostri limiti percettivi. La pagina di un quotidiano, di una rivista illustrata, di un volume utilizza diversi corpi, ovvero caratteri di dimensioni diverse, e cambia anche la giustezza, ovvero la lunghezza della riga. È necessario rispettare l'equilibrio tra le due misure: una riga troppo lunga in un corpo minuscolo risulta illeggibile. I titoli utilizzano corpi maggiori: risultano più facilmente leggibili e attirano l'attenzione. Il testo deve risultare più leggibile delle note. Vengono così suggeriti e quasi imposti una gerarchia e un ordine di lettura. Lo stesso accade in rete, anche se lo schermo rigetta molte sottigliezze dell'arte tipografica.
Per una nuova scienza della lettura
I nostri organi di senso e il nostro cervello non sono stati progettati incorporando un efficace sistema di OCR (optical character recognition). L'invenzione dell'alfabeto risale più o meno al 1200 a.C., l'homo sapiens si è evoluto in un ambiente dove la scrittura non esisteva. Riusciamo a leggere grazie a quello che Stanislav Dehaene definisce “riciclaggio neuronale”: funzioni cerebrali nate per altri scopi sono state riadattate a un nuovo compito (I neuroni della lettura, Raffaello Cortina, 2009). Alcuni adattamenti avvengono nell'infanzia. I bambini che usano i tablet – e dunque guardano a lungo un oggetto a distanza ravvicinata – rischiano più facilmente disturbi alla vista: per evitare questa “miopia acquisita”, i medici raccomandano di farli giocare o passeggiare all’aria aperta per almeno un’ora al giorno. La plasticità neuronale non riguarda solo i bambini. Il gruppo guidato da Gregory Berns della Emory University ha fatto leggere ad alcuni studenti un page turner come Pompei di Robert Harris (Mondadori, 2003), per scoprire che leggere un romanzo può cambiare la connettività cerebrale, in particolare nelle aree che regolano il rapporto sonno-veglia (Short- and Long-Term Effects of a Novel on Connectivity in the Brain, “Brain Connectivity”, 1 Dic. 2013, 3(6): pp. 590–600).
Ma cosa succede nel nostro cervello quando leggiamo, sulla carta o su uno schermo, o se ascoltiamo un audiolibro o una lettura ad alta voce? È davvero la stessa cosa?
Diversi ricercatori stanno cercando di capire quali siano le aree del cervello e le funzioni attivate nel complesso processo di lettura, decodifica e interpretazione di un testo. Il processo di storytelling è fondamentale nella costruzione della nostra identità personale, offrendoci una gamma di narrazioni in cui riconoscerci e sulle quali modellare la nostra identità. La capacità di capire una storia e le sue emozioni non dipende da fattori culturali, ed è dunque radicata nel profondo, come ha dimostrato lo studio del gruppo guidato da Morteza Dehghani Decoding the neural representation of story meanings across languages (“Human Brain Mapping”, Dic. 2017, 38(12), pp. 6096-6106): è stato possibile dedurre quale delle 40 storie selezionate stesse leggendo il soggetto (nella sua madrelingua: inglese, cinese o farsi), a partire dalla rilevazione tramite neuro-imaging delle aree del cervello attivate.
La lettura coinvolge i centri del linguaggio e della cognizione, oltre alle emozioni, ma non solo. Leggere può attivare i neuroni specchio. I neuroni che mettono in moto i muscoli del nostro braccio non si attivano solo quando vediamo compiere il gesto da chi sta di fronte a noi, ma anche mentre leggiamo Madame Bovary ed Emma alza la mano per salutare. La lettura avrebbe dunque un ruolo importante nell'attivare l'empatia anche a livello neuronale. Se leggiamo un romanzo “attentamente”, si attivano regioni del cervello allineate con quello che stanno facendo i personaggi e con le emozioni che provano. “Madame Bovary, c'est moi” non lo può dire soltanto Flaubert (che pare non l'abbia mai detto), lo possono dire anche i lettori del suo capolavoro. La narrativa ci permette di capire – fisicamente prima che razionalmente – che cosa significa “essere un altro”. Per la scrittrice Jane Smiley, una società in cui il romanzo diventasse marginale, rischia di imbarbarirsi e di diventare più violenta perché gli individui perderanno la capacità di capirsi.
Quello sull'empatia è solo uno dei filoni della ricerca sulla lettura affrontati in questi anni. Un’ampia serie di ricerche ha l'obiettivo di valutare “a posteriori” l'effetto della lettura di un testo, sia al livello della comprensione sia al livello delle tracce che lascia nella memoria a medio e lungo termine. In questi anni sono diversi i ricercatori che hanno studiato l'impatto della lettura su carta e su dispositivi elettronici (un po' meno, finora, quello di un audiolibro), attraverso una serie di test che mettevano a confronto le diverse esperienze.
Tecno-fan e tecno-apocalittici
La rivoluzione digitale è ancora in corso. Ebook, tablet e smartphone si sono diffusi capillarmente solo nell'ultimo decennio. Sul fronte degli innovatori gli entusiasti, a cominciare da tecnocrati e uffici marketing delle grandi multinazionali, magnificano i benefici e le potenzialità dei nuovi strumenti e spingono per la loro diffusione, anche in ambito scolastico. Come sempre accade, hanno iniziato a far sentire la loro voce anche gli scettici. Manfred Spitzer, neuroscienziato tedesco, lancia l'allarme fin da titoli e dai sottotitoli dei suoi documentatissimi saggi: Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi (Corbaccio, 2013), Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale? (Corbaccio, 2016), Connessi e isolati. Un'epidemia silenziosa (Corbaccio, 2018). Ugualmente preoccupata è un'altra neuroscienziata cognitivista, specialista della scrittura sumera e dell'alfabeto greco, l'americana Maryanne Wolf: dopo aver esplorato i meccanismi della lettura in quello che è già un classico, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (Vita e Pensiero, 2009), ha lanciato un accorato appello nel pamphlet Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale (Vita e Pensiero, 2018).
La diagnosi dei due studiosi, basata su varie ricerche in tutto il mondo, è chiara. Leggere su carta e leggere sullo schermo sono due attività diverse. È diversa l'attenzione: sullo schermo restiamo concentrati meno a lungo e scivoliamo sulla superficie del testo. Di conseguenza l'impatto è diverso: capiamo meno, ricordiamo meno e meno a lungo quello che abbiamo letto. Anche per questo l'82% degli studenti delle scuole superiori italiane preferisce ancora studiare sui vecchi e pesanti libri cartacei, dice un sondaggio su oltre 4.000 studenti d’Italia condotto da Scuolazoo. E risultati analoghi si trovano per le università americane.
Ma gli effetti della lettura online riguardano anche gli adulti. Secondo alcune valutazioni, la capacità media di memoria di molti adulti è diminuita di oltre il 50% nell'ultimo decennio (Daniel Levitin, The Organized Mind. Thinking Straight in the Age of Information Overload, Dutton Penguin, 2014). Particolarmente devastante sarebbe l'effetto sui bambini: l'uso di tablet e pc (e internet) abbassa i risultati scolastici. Clifford Stoll (autore di Miracoli virtuali, Garzanti, 1996), in un'intervista al “New York Times”, paragonava già nel 1995 i computer ai video usati in classe: “A noi piaceva guardarli, perché per un'ora non dovevamo pensare. Agli insegnanti piacevano, perché per un'ora non dovevano fare lezione e ai genitori piacevano, perché dimostravano che i figli frequentavano una scuola all'avanguardia. Però non imparavamo niente”.
Il paradosso del lettore forte
La decodifica di un singolo testo non avviene nel vuoto pneumatico. La lettura, come altre esperienze culturali, è “cumulativa”. Senza un bagaglio di conoscenze di base, qualunque testo risulta incomprensibile. Il cumulative reading, ovvero l'elaborazione di una grande quantità di testi, è alla base dei nuovi algoritmi utilizzati dai traduttori automatici, che non si affidano più alle rigide “tabelle” dei dizionari bilingui ma operano su base statistica. Ogni nuova informazione entra in dialogo con quello che già sappiamo. Nel caso della lettura profonda, ogni parola entra in risonanza con una galassia ricordi, emozioni, associazioni... Dunque più libri abbiamo letto, maggiore è il nostro bagaglio culturale, e più facilmente riusciamo a interpretare un testo attraverso la deduzione e l'analisi critica. Ma nel momento in cui siamo travolti da un’alluvione informativa, sprofondiamo in un paradosso, di cui paghiamo il prezzo: semplifichiamo, elaboriamo le informazioni più rapidamente, seguiamo le priorità. Spesso utilizziamo informazioni predigerite e distillate. Il bombardamento costante produce noia, disaffezione.
È questo il motivo che ha ispirato a Maryanne Wolf la sua riflessione. Pressata dalle necessità della ricerca, aveva smesso di leggere libri, o meglio aveva continuato a leggere ma “più per essere informata che per immergermi nel libro, e ancor meno per essere trasportata al suo interno”. A quel punto decise di fare lei stessa da cavia. Iniziò a leggere Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, per accorgersi che un decennio di letture veloci aveva cambiato il suo stile di lettura: “Adesso leggevo superficialmente e molto rapidamente; leggevo troppo velocemente per comprendere i livelli più profondi, il che mi costringeva continuamente a tornare indietro e rileggere varie volte la stessa frase, con crescente frustrazione; ero impaziente nei confronti del numero di proposizioni subordinate in ogni frase, come se non avessi mai incontrato con reverenza le ben più lunghe frasi di Proust o di Thomas Mann; mi sentivo assolutamente offesa dal numero di parole che Hesse riteneva necessario usare in una frase sì e una no; e, infine, i miei cosiddetti processi di lettura profonda non 'riemergevano'. Ecco. Ero cambiata” (pp. 95-96).
La mutazione non riguarda solo i “nativi digitali” della “Generazione Z”. Ha conseguenze significative per tutti. Una comunicazione fondata su immediatezza, facilità ed efficienza tende a ridurre il tempo e lo sforzo necessari a un autentico processo interpretativo e azzera il pensiero critico, ovvero la capacità di esaminare e potenzialmente confutare le proprie convinzioni e credenze. Senza un sistema di convinzioni personali, e senza attivare gli aspetti profondi e cumulativi della lettura, è impossibile attivare il pensiero critico.
Gli antidoti
Di fronte a questa diagnosi, si possono e si debbono attuare alcuni correttivi. Il primo è quello lanciato dal libro-manifesto di David Mikcis, Slow Reading. Leggere con lentezza nell'epoca della fretta (Garzanti, 2015). Si tratta di “leggere per provare piacere e per capire”, in modo che “otteniate di più da ciò che leggete” (pp. 7-8).
Sul versante della formazione è possibile far ricorso al close reading, diffuso nei programmi scolastici americani (ma adottato in varie forme anche altrove). È “l'analisi ponderata e critica di un testo, che si concentra su dettagli e motivi, con l'obiettivo di sviluppare una comprensione profonda e precisa di un testo, della sua forma, delle sue modalità di produzione, dei suoi significati eccetera” (vedi Beth Burke, A Close Look at Close Reading, disponibile online). Le tecniche sono diverse: utilizzo di brevi estratti, confronto diretto con il testo senza attività preparatorie, concentrazione sul testo, riletture, riletture con annotazioni, segnalazione degli elementi di difficile interpretazione, discussione collettiva, rispondere a domande sul testo... Si tratta di un allenamento alla lettura che parte dal confronto con la “vera presenza” del testo (per rubare l'espressione a George Steiner), prima che dal suo inserimento in un contesto storico e culturale.
Forse il rimedio più efficace è concentrarsi sulle motivazioni. Anche qui possiamo affidarci alla scienza. Per cominciare, leggere – e in genere praticare attività culturali – fa bene al cervello. Secondo lo studio Short- and Long-Term Effects of a Novel on Connectivity in the Brain (“Brain Connectivity”, 1 Dic. 2013, 3(6), pp. 590–600) leggere aumenta la connettività delle diverse aree cerebrali, tra cui quelle associate all’elaborazione linguistica e alla risposta sensoriale primaria (che aiuta a comprendere e visualizzare il movimento). Questa attivazione, secondo il neuroscienziato Gregory Berns, non è effimera, ma resta “quasi come una memoria muscolare”.
Per alcuni, leggere un libro ci renderebbe persone più brillanti ed eticamente migliori. Secondo il filosofo Gregory Currie, professore di filosofia all’Università di York, che l'ha affrontata in un editoriale sul “New York Times” nel 2014, la questione è controversa: siamo persone migliori perché leggiamo Proust, oppure leggiamo Proust perché siamo persone migliori? Anche se va aggiunto che questo non implica che dobbiamo smettere di leggere Proust, anzi.
Alcune ricerche sembrano suggerire che leggere ci rende davvero persone migliori: a queste conclusioni sono giunti Raymond Mar e i suoi collaboratori negli studi Bookworms versus nerds: Exposure to fiction versus non-fiction, divergent associations with social ability, and the simulation of fictional social worlds (“Journal of Research in Personality”, 40 (5), October 2006, pp. 694-712; ed Exploring the link between reading fiction and empathy: Ruling out individual differences and examining outcomes (“Communications”, 34(4), December 2012, pp. 407-428). ùLeggere ci rende più empatici, perché ci consente di identificarci nell'altro e di comprendere le sue motivazioni.
Sono decine gli studi pionieristici realizzati negli ultimi anni. Certamente ne arriveranno altri, che amplieranno e approfondiranno le nostre conoscenze: la mutazione è stata troppo rapida e profonda, e le sue conseguenze restano difficilmente immaginabili. Come al solito, la battaglia vede contrapporsi i futuristi e gli apocalittici. Al momento, per chi ama leggere, l'importante è non privarsi del piacere del testo, quel godimento sottile che ci porta a perderci nelle parole degli altri, per emozionarci, ragionare, imparare, divertirci, commuoverci. E poi magari ci aiuta a ritrovare noi stessi.
Questo saggio è tatto dalla rivista "Pretext", n. 11, in uscita in questi giorni, con il titolo "Perdersi tra le righe"