Riccardo Musatti / Un meridionalista in Olivetti
Il 1955, l’anno in cui è dato alle stampe La via del Sud, è inaugurato lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli. È il primo caso di trasferimento tecnologico di una grande azienda del Nord nel Mezzogiorno. Per Adriano Olivetti l’industria è la chiave di volta per modernizzare il Sud che, con più alti redditi, ha la possibilità di diventare un mercato importante per il resto d’Italia. Scrive Olivetti che l’industrializzazione è da considerare un mezzo «ma senza dimenticare il fine; la promozione di una civiltà fondata sull’armonia dei valori, sul rispetto delle libertà democratiche, sull’autonomia della persona». Riccardo Musatti è stato, per passione civile, il meridionalista del mondo olivettiano. Oggi, a oltre sessant’anni dalla prima pubblicazione del libro, molti nodi restano irrisolti e gli squilibri permangono. È parso quindi utile riproporre quelle pagine che hanno nel tempo acquistato un significato più profondo e aumentato il rimpianto per un tempo più fervido di idee e di uomini che si battevano per affermarle.
La “questione meridionale”, negata per motivi diversi dal fascismo e dall’idealismo crociano in nome della sacralità dello Stato unitario, torna al centro del dibattito politico-culturale nell’immediato dopoguerra. Nell’Italia che prende forma nei lavori della Costituente il divario tra Nord e Sud appare inaccettabile a tutte le principali forze politiche.
In quel tempo tornano a circolare i classici del meridionalismo: sia il filone che insiste su una necessaria riforma economica per colmare lo squilibrio tra le due parti del Paese (Nitti, De Viti, De Marco, Luigi Einaudi), sia chi propone una più radicale riforma dello Stato in senso federalista (Salvemini). Il rinnovato interesse verso il Meridione nasce tuttavia da un capolavoro poco classificabile, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, narrazione antropologica di un Sud fuori dalla storia, scritto nella Firenze occupata dai nazisti, uscito nel 1945 e destinato in poco tempo a un successo internazionale. Nello stesso periodo si raccolgono gli scritti di Guido Dorso (La rivoluzione meridionale), dove si auspica la nascita di una classe dirigente locale che sostituisca quella centralista e parassitaria già denunciata da Salvemini, e soprattutto vengono alla luce quelli di Antonio Gramsci, dove la tesi di fondo è l’alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud perché possa nascere una società davvero nuova. Una concezione ripresa dai giovani intellettuali social-comunisti che si radunano qualche anno più tardi (1954) attorno alla rivista «Cronache meridionali» (Alicata, Amendola, Francesco De Martino). La battaglia meridionalista si combatte anche in altre riviste come «Il Mondo» di Mario Pannunzio, punto di coagulo tra la tradizione crociana e gli insegnamenti di Gaetano Salvemini, anziano ma ancora molto pugnace. Vicina alle posizioni di «Il Mondo», è «Nord e Sud», mensile fondato a Napoli nel 1954 da Francesco Compagna e palestra per una nuova generazione di intellettuali meridionalisti. Fondamentali per tutti sono le riflessioni di Manlio Rossi-Doria e della scuola di Portici sulla riforma dell’agricoltura come motore di sviluppo sociale prima ancora che economico. Due sono le questioni al centro del dibattito: l’applicazione della Riforma agraria (1950) che mise fine alla pratica del latifondo attraverso una redistribuzione della terra ai piccoli proprietari, e l’utilizzo della Cassa per il Mezzogiorno (1950), nata come agenzia di sviluppo locale sull’esempio del New Deal rooseveltiano, che fu l’esperienza ideale, anche perché più tecnica e meno ideologica, a cui quasi tutte le parti in causa si richiamarono.
In questo contesto nasce La via del sud di Riccardo Musatti, pubblicato dalle Edizioni di Comunità, libro a metà tra saggio e pamphlet che merita di entrare nello scaffale dei classici del nostro meridionalismo. Un’opera tuttavia dimenticata, come ricordato da pochi è oggi Riccardo Musatti, nato esattamente cento anni fa.
Riccardo Musatti è stato una sorta di prototipo di una classe dirigente di cui nel nostro Paese si è potuto contare su un esiguo numero di esemplari. Nato nel 1920 a Roma, città da lui sempre amata e oggetto delle sue ricerche storico-artistiche, studia al liceo-ginnasio Tasso, scuola di élite frequentata tra gli altri dai figli di Mussolini. Di origine ebraica, si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza nel 1938, l’anno delle leggi razziali. Nel periodo universitario è uno dei protagonisti della “beffa delle stelle filanti”, una precoce manifestazione di antifascismo in chiave goliardica (tuttavia rischiosa) con i compagni Franco Lucentini, Antonio Giolitti e Giuseppe Pampiglione. È il 1941 e, quello stesso anno, si laurea in Storia dell’arte con una tesi sul pittore fiorentino Cosimo Rosselli con Pietro Toesca, un maestro dal quale apprende un severo metodo di studio critico-filologico. È tuttavia la politica il centro dei suoi interessi: milita nel Partito d’azione e, dopo la clandestinità nella Roma occupata dai nazisti, nel novembre 1944 diviene redattore-capo dell’edizione romana del suo quotidiano, «L’Italia Libera», che nel 1947, dopo la fine del partito, cambia nome e diventa «Italia socialista» sotto la direzione di Aldo Garosci, già combattente nella guerra civile spagnola e secondo dei maestri di Musatti. Il quotidiano era discretamente foraggiato da Adriano Olivetti, ma il mutato clima politico fa esaurire quell’esperienza all’inizio del 1949. Il terzo e decisivo maestro di Musatti è proprio Olivetti. Scrisse Giorgio Soavi, ricordando Riccardo Musatti, che «siamo finiti per lavorare con un uomo che sembrava inventato esattamente per noi, tanto era difficile catalogarlo, o quanto meno, costringerlo entro limiti normali. L’uomo era Adriano Olivetti e Riccardo Musatti lo amava e lo temeva, un poco come tutti noi».
Musatti è stato, insieme al da lui diversissimo Franco Ferrarotti, l’intellettuale più vicino a Olivetti.
Nei difficili anni Cinquanta il suo impegno politico si trasferisce al Movimento Comunità, di cui diventa il punto di riferimento a Roma in virtù dei moltissimi rapporti maturati negli anni precedenti. Oltre a redigere con l’amico Umberto Serafini i principali manifesti politici del Movimento, è lo sherpa nei sentieri stretti che portano alla presenza delle liste di Comunità alle elezioni politiche del 1958. La sua occupazione principale è tuttavia un’altra: diviene il coordinatore dei piani urbanistici di Matera, col trasferimento di una parte della popolazione dai Sassi al nuovo quartiere La Martella, e del Piano E, un’azione di sviluppo urbanistico nella zona di confine tra Abruzzo e Molise. Sono attività che dipendono dall’UNRRA-Casas (United Nation Relief and Rehabilitation Administration) – uno degli enti di ricostruzione americani nati a guerra ancora in corso per far fronte alle necessità immediate della popolazione europea, poi trasformatosi in Italia in un’agenzia di sviluppo per l’edilizia sociale – e coordinate da Olivetti in qualità di presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Sono qualcosa di molto nuovo per l’Italia di allora, con una metodologia d’intervento che parte dall’inchiesta sociale, prosegue nella progettazione urbanistica e ha come esito le scelte architettoniche. I nomi delle persone coinvolte – architetti e urbanisti come Ludovico Quaroni, Leonardo Benevolo, il sociologo Friedrich Friedmann; assistenti sociali come Angela Zucconi, Rigo Innocenti, Paolo Volponi – forze locali come il medico Rocco Mazzarone, una figura oggi quasi mitica, i fratelli Leonardo e Albino Sacco – dimostrano la qualità delle intenzioni. Musatti, mobile proconsole di Olivetti, funge da ufficiale di collegamento ed è la voce di quell’esperienza, a partire da un articolo, Viaggio ai “Sassi” di Matera («Comunità», n.9, 1950), accompagnato dalle memorabili immagini della fotografa sociale americana Marjory Collins.
Nell’introduzione all’edizione del 1955 Musatti definisce La via del Sud un “pamphlet”. Eccede forse per modestia perché se così si può definire la seconda parte dell’opera, nella prima ricostruisce, attraverso la discussione di un’ampia letteratura, le vicende della “questione meridionale”, mescolandole, e qui sta il suo fascino peculiare, con osservazioni di costume e affondi paesaggistici. La lezione principale è negli scritti di Lewis Mumford, a metà tra sociologia e urbanistica, che hanno come sfondo la storia della civiltà e delle sue trasformazioni.
Il Mezzogiorno che Musatti attraversa in automobile scendendo da Roma negli anni Cinquanta è meno immobile di quanto fosse stato fino al decennio precedente. Sono in corso grandi lavori infrastrutturali (strade, dighe, acquedotti, bonifiche), ma la società è ancorata a modelli antichi, con la popolazione che si raduna attorno a grossi borghi (le “capitali contadine”).
La terra, dopo la Riforma agraria, è divisa tra grandi proprietà, appezzamenti piccoli e piccolissimi, con un bracciantato che lavora stagionalmente. L’emigrazione, «una rivoluzione condotta dalle plebi rurali» contro l’immobilismo sociale, è ripresa dopo il Ventennio. La borghesia intellettuale resta esigua e confinata nelle città più grandi. Difficile pensare, come scrivono Gramsci e Dorso, che la sua azione possa saldarsi agli interessi del proletariato agricolo per diventare la leva di una rivoluzione sociale. L’unica figura di mediazione e di possibile cambiamento della società contadina è individuata nella figura del Sindaco.
Anche Rocco Scotellaro fu uno di questi. Musatti riconosce l’impegno dei governi a guida democristiana di sanare, attraverso la riforma agraria, la frattura tra Stato e masse rurali, mentre considera la Cassa per il Mezzogiorno una “legge speciale” come le tante che, fin dall’Unità d’Italia, sono state uno strumento d’intervento dello Stato nel Sud. Sono tuttavia provvedimenti calati dall’alto, così i benefici raggiungono i soliti pochi, mentre il frazionamento fondiario e la creazione di una classe di piccoli proprietari diviene l’ideale bacino elettorale per la Dc, producendo un’economia di sussistenza che non promuove la mobilità sociale. Definisce La Martella «il più bel borgo rurale d’Italia», a confronto dei borghi residenziali, i borghi di servizio e i centri aziendali costruiti dalla Cassa per il Mezzogiorno senza un’idea estetica comune. In questo modo si perde l’idea di vicinato, la naturale mutua assistenza cemento della società meridionale. Musatti accusa la neutralità della tecnica dietro cui si nascondono scelte politiche ed economiche a favore dei governi in carica. Ritiene altresì improbabile l’alleanza tra classe operaia del nord e mondo contadino, propugnata dal Pci di Togliatti e dagli intellettuali del partito, perché le posizioni di partenza sono troppo distanti tra le parti per pensare a un riscatto della plebe meridionale. Fumosi o immersi in un mondo mitico gli appaiono gli approcci di Carlo Levi, Ernesto De Martino (pur non nominato) e dello stesso Scotellaro. Per Musatti i problemi del Sud non riguardano più soltanto lo Stato nazionale ma vanno inquadrati in un contesto europeo e mediterraneo.
L’esempio di Matera insegna che la popolazione locale va ascoltata, che va creato un centro comunitario come base di democrazia, come luogo d’incontro ma soprattutto di organizzazione autonoma. La pianificazione deve essere pensata su scala regionale, essendo molte le differenze all’interno dello stesso Meridione. Nel finale Musatti riprende le idee di Olivetti e scrive della necessità «del federalismo all’interno della nazione, federalismo tra le nazioni [...] perciò non la conquista dello Stato, ma la sua riforma istituzionale è l’autentico traguardo del rinnovamento, cui possono legittimamente aspirare le masse meridionali, tenute finora lontane dal governo dai propri destini». È questa per lui la via del Sud.
Il libro ha una seconda edizione (quella qui riprodotta) nel 1958 alla quale l’autore aggiunge una “postilla e conclusione”.
Il 1958 è l’anno in cui l’emigrazione verso il Nord passa dalle decine alle centinaia di migliaia di unità ogni anno. Commenta Musatti: «La fuga dalle campagne è una necessità che non è solo inevitabile ma benefica in un paese che ancora costringe oltre il 40 per cento dei suoi figli a cercare sostentamento in un’agricoltura molto più povera di quella che, in altre nazioni, mantiene aliquote assai più modeste di cittadini [...] Ma senza piani [...] l’esodo dalle campagne investirà città impreparate ad accoglierlo, creerà problemi e incomprensioni e trascinerà nell’avventura, senza riguardo ai reali bisogni, forze umane che avrebbero potuto trovare sistemazione nei loro luoghi di origine».
Fu facile profeta, ma già dall’estate 1957 si era trasferito a Milano nella direzione centrale della pubblicità Olivetti, dove continuò a occuparsi della società italiana e delle sue trasformazioni, per esempio negli articoli Una “questione settentrionale”? Vigore e inerzia del Nord («Comunità», n.70, 1961) e Design per la luna («Notizie Olivetti», n.84, 1965). Ed è proprio negli uffici di via Clerici che la morte lo coglie a tradimento nel giugno 1965.
Questo testo è l'introduzione alla nuova edizione di La via del Sud, di Riccardo Musatti, Edizioni di Comunità , che ringraziamo di avercelo concesso.