Neoclassiciso / Un pittore, un musicista, un poeta
V’è molta ingiustizia, oltre che verità, nelle parole con le quali un celebre critico musicale censurò lo stile di canto del grande tenore Mario Del Monaco, parendogli che, se inizialmente si rimaneva “impressionati dal vigore e dallo squillo”, dopo due o tre arie l’interesse scadeva “per colpa della durezza del canto. Niente eleganza, niente grazia, poca fantasia”. A questo giudizio ripensavo, rileggendo la Pausania di Francesco Saverio Salfi nell’accurata edizione (a cura di P. Crupi, rist. 2017) con la quale l’editore Rubbettino l’ha scampato alla sorte di quei molti oggetti, consunti dal tempo e dall’oblio, dei quali Ariosto immaginò gremita la Luna, come al più conveniente dei pareri sopra i versi di questa tragedia. Di Salfi potrebbe dirsi, in effetti, aggiustando di poco le parole del critico sulla vocalità di Del Monaco, che se l’endecasillabo, lasciatogli in retaggio dall’Alfieri, conservava piuttosto bene la tempra del modello, la scarsa inventiva verbale finiva presto col renderlo piuttosto monocorde.
Una certa monotonia, d’altra parte, seppero ispirare ai contemporanei prodotti ben più eletti di quel gusto medesimo del quale Salfi si sforzava, nella Pausania, seguire le tracce: nota è, ad esempio, l’uggia che suscitavano in Thackeray i quadri di David: “mantelli bianchi” – scriveva – “bianche urne, bianche colonne, statue bianche, e ogni colore partecipa di questo pallore o livore marmoreo. Gli esempi più cospicui di sublimità si ricercano negli assassini e nelle morti di personaggi illustri…”; uggia per un gusto ch’egli seppe, peraltro, definire, con impeccabile arguzia, “classicismo da quinto atto di tragedia”. Se il giudizio dello scrittore inglese non è molto più equanime di quello del critico musicale, esso risponde, più dell’altro, al mutato intendimento di un’epoca nella quale gli eroi antichi, non più capaci a stimolare negli uomini l’azione, vivevano imprigionati nel recinto incantato d’un piatto viennese. Trascorso era il tempo delle armi; numi e guerrieri, in sereno ritiro, non s’industriavano adesso che in giochi domestici, baloccandosi talora con l’amore delle ninfe talaltra con la loro tetra mestizia di divinità avvilite in cui Heine vide struggersi perfino il vecchierello Giove, tribolata ombra fra i geli iemali. Enea, Bruto, Virginia, Oreste non erano più che innocui Indiani in riserve: Achille giocava ai dadi, Giove a fare il cigno. Doveva spiacere perciò all’autore di Vanity Fair il vederli risorti e come galvanizzati, di tela in tela da un David a un Gauffier, in una posa nella quale non sapeva più trovarvi altro che l’anchilosi d’una retorica muta!
Mantelli bianchi, bianche urne.
Nel 1780 quest’immaginario esercitava ancora una forte suggestione sui contemporanei come mostrano la Tomba d’Ercole o il Cenotafio di Newton, sepolcri colossali concepiti perché le spoglie degli spiriti grandi fossero additati a perpetua memoria. “Uom se’ tu grande o vil? Muori e il saprai”: è l’ammaestramento di Plutarco in versi alfieriani. Egualmente plutarchiana era la preferenza per vicende d’uomini esemplari per i quali si volle coniare un linguaggio nuovo che, secondando l’esigenza di un arte spoglia e primitiva, spiacesse agli entusiasti della tornita grazia rocaille. Il desiderio d’un verso tragico di nuda e remota grandezza spinse Alfieri a lamentarsi con Calzabigi per come “le poche nostre recite, che tal nome usurpano son sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose, insoffribili”. Diderot auspicava che una lingua simile fosse trasposta in pittura e perciò raccomandava di “peindre comme on parlait à Sparte”. L’appello non dovette restare inascoltato se s’osserva quanto i procedimenti stilistici alfieriani, così abili a spezzare, nell’attrito consonantico e nella corrusca scansione dell’accento, la liquida cadenza del verso metastasiano, consuonino con quelli che adottò David per emanciparsi dalle seducenti modulazioni tonali del rococò.
Anche musicisti come Gluck parteciparono a questo rinnovamento; e se non poterono restaurare filologicamente la musica antica lo fecero in spirito, epurandone quegli stessi elementi voluttuosi che già Alfieri e David avevano stimato nocevoli ad ogni serietà d’arte: “mi sono sforzato di ricondurre la musica al suo vero compito” – scriveva Gluck nelle lettera introduttiva della sua Alceste – “(…) Ritenni che ciò si poteva realizzare nello stesso modo in cui i colori violenti influenzano un disegno corretto e armonicamente disposto con un contrasto ben assortito di luce ombra, il quale vale ad animare le figure senza alterarne i contorni” e per quel che attiene agli abbellimenti che inghirlandavano il canto settecentesco dichiarava d’essersi guardato “dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello o dal prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola”. Che si guardino opere in musica, quadri o drammi il processo di palingenesi delle forme appare molto simile, consistendo in un rifiuto di moduli espressivi organici e complicati per una chiarificazione degli elementi costituitivi: la curva cede alla linea spezzata e la gentile chimera rocaille si scinde in un leone, una capra e un drago.
Così Alfieri rinuncia agli intrecci secondari per lasciar nuda la vicenda e frange, in sticomitie serrate, quel che era in Metastasio ondivaga carola di rime e assonanze; così David suddivide lo spazio del quadro in unità nette ed antifrastiche; così Gluck, perché la parola ne sgorghi nitida, spoglia il canto di fioriture e portamenti. Il poeta, il pittore, il musicista, cinti, come gli Orazi, da un’unica stretta, guardavano idealmente a Paestum: la loro Stonehenge.
Che questa non fosse che una delle molte confessioni della religione neoclassica lo dice l’evoluzione stilistica dello stesso David, il quale dai “drammatici conflitti di ombra e di luce, dalle drastiche cesure compositive” degli Orazi passò ai “nudi corpi levigati, idealizzati, entro uno scenario che risulta unificato cromaticamente e illuministicamente” del Ratto delle Sabine (A. Pinelli nel saggio introduttivo a J. L. David, La Rivoluzione in mostra, Castelvecchi, 2017). Anche altrove il pittore sembrò deporre quanto di marziale era nei suoi quadri repubblicani: Saffo e Faone, Amore e Psiche o, ancora, L’arrivederci di Telemaco ed Eurachis hanno la zuccherina grazia delle porcellane ed anticipano il linearismo rilassato dell’Ingres più lezioso, quello di Giove e Teti: la buccina ha qui ceduto alla lira.
Il magistero di Winckelmann si scorge, d’altra parte, in molte opere neoclassiche di quegli anni, sebben non sempre se ne possa avere una così estatica impressione come traversando le sale di Villa Albani, sulle cui porte e sulle cui pareti giocano i voluttuosi fantasmi di Ganimede e di Antinoo, fino a quella Sala del Parnaso, affrescata dal Mengs, dove il sogno neoclassico risplende in una tranquilla luce d’oro mite. I Grandi Romantici, pochi anni dopo, trovarono una continuità non più storica o politica ma sentimentale coi Classici – l’usignolo di Keats “light-winged Dryad of the trees,/ In some melodious plot/ Of beechen green, and shadows numberless,/ Singest of summer in full-throated ease”, gli dèi di Hölderlin riappaiono nei boschi di Heidelberg – che aprirà la via a Nietzsche, a Böcklin e a de Chirico; anche il neoclassicismo di Alfieri, di David e di Gluck, tuttavia, seppe parlare ai Moderni.
Quella semplificazione dei mezzi espressivi, rosi fino ad una nuda evidenza elementare, mossa in principio da intenti morali, si radicalizzò, in alcuni di questi artisti, con esiti che possono legittimamente ricordare le ricerche linguistiche delle avanguardie novecentesche: se certi disegni di de Superville parvero, infatti, ad Anna Ottani Cavina (I paesaggi della ragione, Einaudi, 1994) singolari anticipazioni delle spigolose xilografie di Die Brücke, partiture “riformate” come la Medea di Cherubini, hanno ispirato ai nostri contemporanei l’idea d’un Gluck “portato alle soglie dell’espressionismo”. Anche Alfieri, questo tragediografo limitato per il quale non potrebbe ripetersi quel che disse Citati a proposito di Shakespeare annoverandolo fra “gli scrittori immensi e anonimi che portano nel proprio grembo tutte le creature umane, le cose possibili e impossibili, le città reali e immaginarie”, fu un immenso creatore linguistico allorché si dette a forgiare l’endecasillabo spinoso e nervosissimo del suo verso. E se, d’altra parte, ci si provasse a immaginare un’ideale traduzione pittorica del suo sonetto-autoritratto, a chi si vorrebbero affidare le fulminee scalfitture della seconda stanza (“sottil persona su due stinchi schietti;/ Bianca pelle, occhi azzurri aspetto buono;/ Giusto naso, bel labro, e denti eletti;/ pallido in volto, più che re sul trono”) se non alla contratta brevitas di un Lorenzo Viani?