Speciale
Una doppia geografia. Italo Calvino e Sanremo
Certi libri nascono come geografie che, simultaneamente, sono reali e immaginarie. Italo Calvino e Sanremo. Alla ricerca di una città scomparsa (Il Canneto, Genova, 2023) di Laura Guglielmi, è uno di questi libri, rapsodici, errabondi, precisi. Nel risvolto di copertina è subito la voce di Calvino che ci chiama: «Non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vedere». Guglielmi, nativa di Sanremo come Calvino, traccia un itinerario, nel tempo e nello spazio, che appartiene a lei come all’autore di Palomar: in questo percorso geografico-letterario affiora l’anima ecologista e quella fantastica di uno scrittore che traversa il suo tempo come se esistesse sempre uno o più universi paralleli.
Scrive Natalia Ginzburg, nel testo riportato in epigrafe: «Il nostro destino si fa riconoscere solo quando lo raccontiamo a noi stessi come se ‘io’ fosse un altro». Questa frase mi riporta a una definizione dello stesso Calvino: «Tutti i libri sono apocrifi». Lo spirito che orienta il libro è la ricerca di un paesaggio calviniano sempre polimorfo, dove anche i ricordi biografici, pur essendo veri, appaiono nella scrittura come invenzioni favolose, “racconti di bugiardi”. Scrive Guglielmi: «al posto di un io ben definito che opera nella scrittura, c’è una materia viva, anonima, fluttuante e informe dalla quale lo scrittore attinge di volta in volta invenzioni, parole, idee, e in cui l’io viene continuamente sospinto e ricondotto» (SC, p. 11). La Sanremo di Guglielmi e di Calvino appare un intreccio di vero e falso da dipanare e da percorrere, dove riconoscere luoghi e analogie, ad esempio il bosco a cui lo scrittore si ispirò scrivendo Il barone rampante o la speculazione edilizia che devastò la sua città natale.
In un certo senso Guglielmi compie un’operazione ‘impossibile’: ricondurre a tracce reali percorsi immaginati abbandonando quelle tracce. L’operazione è quasi “onirica” (e sottilmente ironica) ma intriga il lettore in una raffinata detection. D’altronde, la verità è sempre immersa in un intreccio di finzioni e il Barone Rampante potrebbe anche essere una creatura strampalata e reale, appollaiata su un albero, che difende da sempre i diritti degli animali e della natura. Scrive Calvino: «Ogni volta che rivedo la mia vera vita fissata e oggettivata sono preso dall’angoscia, soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io […] ridicendo le stesse cose con altre parole, spero sempre di aggirare il mio rapporto nevrotico con l’autobiografia» (SC, p, 11).
Guglielmi intuisce quanto lo scrittore sia legato al paesaggio della sua infanzia e della sua adolescenza: «Un legame talmente forte – scrive l’autrice – anche se il lettore non è tenuto a saperlo, perché nei suoi romanzi e racconti non nomina mai la sua città d’origine. In realtà Calvino era nato il 15 ottobre del 1923 a Cuba, dove il padre Mario, agronomo, dirigeva la Stazione Sperimentale per l’agricoltura di Santiago de Las Vegas» (SC, p. 15). L’autore, grazie alla sua scrittura, “la più cristallina e adamantina del Novecento” (Biamonti), costruisce, libro dopo libro, uno spazio letterario capace di custodire il suo personale inferno di identità multiple. Ma ogni vero scrittore non dimentica le sue radici. In una intervista a Maria Corti del 1985 scrive: «Come ambiente naturale quello che non si può respingere e nascondere è il paesaggio naturale e familiare. San Remo continua a saltar fuori dai miei libri, nei più vari scorci e prospettive, soprattutto vista dall’alto, ed è soprattutto presente in molte delle Città invisibili.
Naturalmente parlo di San Remo qual era fino a trenta o trentacinque anni fa e soprattutto di com’era cinquanta o sessant’anni fa, quando ero bambino Ogni indagine non può che partire da quel nucleo da cui si sviluppano l’immaginazione, la psicologia, il linguaggio; questa persistenza è in me forte, è quanto era stata forte in gioventù la spinta centripeta la quale si rivelò senza ritorno, perché rapidamente i luoghi hanno cessato di esistere» (SC, p. 15). Quei “luoghi che hanno cessato di esistere” Laura Guglielmi, con moto centrifugo opposto, li fa rivivere nel suo libro, in una delicata e complessa operazione letteraria che nega l’apparente astrattezza dello scrittore sanremese e ci restituisce l’uomo Calvino, creatura intrisa di ricordi e di fantasie legate al suo paesaggio natale, traversato da mulattiere con pietre traballanti, che si fermano davanti a un muro o un cancello, o da improvvisi scorci di pinete da cui si intravede il mare, ma non come paesaggio limpido. La limpidezza non è mai sorgiva.
Lo chiarisce il termine ubagu, nel suo racconto Dall’opaco (1971), dove il pensiero di Calvino definisce il paesaggio della sua scrittura. Annota Guglielmi: «...Calvino descrive, usando il dialetto, con una forte intensità emotiva, cosa sia il suo personale ubagu: “’D’int’ubagu’, dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l’io che scrive solo perché il mondo riceve continuamente notizie dell’esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’è”». L’opaco, l’ubagu, è il luogo da cui Calvino sa di scrivere, nonostante che i suoi romanzi e i suoi racconti si presentino come cristalline (e perturbanti) parabole. Osserva l’autrice: «in questo luogo oscuro, ma ricco di vita, scaturisce la sua scrittura, rifugiandosi dove non batte mai il sole, nei fondi dei ruscelli con le rive fitte di canne, nei versanti scoscesi delle montagne, tra le pieghe delle valli che si inarcano una dietro l’altra, nelle catene montuose parallele alla costa» (SC, p. 123). In quello stesso racconto l’autore scrive: «Tanto vale considerare come forma del mondo quella che ho davanti ai miei occhi».
Insoddisfatto di quella forma lo scrittore si concentra nello spazio allusivo della scrittura, da cui si diramano i racconti di Le città invisibili: «Venne il giorno in cui i miei viaggi mi portarono a Pirra. Appena vi misi piede tutto quello che immaginavo era dimenticato; Pirra era diventata ciò che è Pirra; e io credevo d’aver sempre saputo che il mare non è in vista della città, nascosto da una duna della costa bassa e ondulata; che le vie corrono lunghe e diritte; che le case sono raggruppate a intervalli, non alte, e le separano spiazzi di depositi di legname e segherie; che il vento muove le girandole delle pompe idrauliche. Da quel momento in poi il nome Pirra richiama alla mia mente questa vista, questa luce, questo ronzio, quest’aria in cui vola una polvere giallina: è evidente che significa e non poteva significare altro che questo» (CI, p. 99)
Pirra è il simbolo di un “opaco” destinato a mostrarsi solo attraverso la sua limpidezza: nessun inferno è visibile se non attraverso le parole che lo rappresentano. L’inferno “verticale e dantesco” (Biamonti) non è patrimonio della scrittura lineare di Calvino ma questa linearità, grazie alla gentile stregoneria delle parole, rivela il suo opposto. Guglielmi, però, non insiste sulle analogie tra dati biografici e testi narrativi, e il libro si chiude con una vera e propria dissolvenza musicale, riportandosi allo spirito originale di Calvino, che oltrepassa il visibile per mappare l’invisibile. «Tutto quello che abbiamo ci può essere tolto da un momento all’altro. Certo, godendo: non dico mica di rinunciare a nulla, anzi. Però sapendo che da un momento all’altro tutto quello che abbiamo può sparire in una nuvola di fumo (SC, p. 130)».
Queste “sparizioni”, queste mappature dell’invisibile, Calvino non smise mai di inventarle e di classificarle nella sua opera più complessa, Le città invisibili: in un racconto del ciclo Le città sottili appaiono, emblematiche, le due mezze città di Sofronia, che mostrano la doppia anima, opaca e cristallina, dello scrittore: «La città di Sofronia si compone di due mezze città. In una c’è un grande ottovolante dalle ripide gobbe, la giostra con la raggiera di catene, la ruota delle gabbie girevoli, il pozzo della morte con i motociclisti a testa in giù, la cupola del circo col grappolo dei trapezi che pende in mezzo. L’altra mezza città è di pietra e marmo e cemento, con la banca, gli opifici, il palazzo, il mattatoio, la scuola e tutto il resto. Una delle mezze città è fissa, l’altra è provvisoria, e quando il tempo della sua sosta è finito la schiodano, la smontano e la portano via, per trapiantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città» (CI, p. 69).
Di certo, conclusa la lettura di questo libro, Sanremo ci appare proprio come la “città scomparsa” evocata dal titolo, insieme Liguria della memoria e paesaggio di una scrittura indocile ma geometrica, rapita dai “destini incrociati” del libro-mondo.
Libri consultati
Laura Guglielmi, Italo Calvino e Sanremo. Alla ricerca di una città scomparsa (SC), Il Canneto, Genova, 2023.
Italo Calvino, Le città invisibili (CI), Einaudi, Torino, 1972.