Lettura d'autore / Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne
Addentrarsi in Tristram Shandy è come addentrarsi in un labirinto almeno a quattro dimensioni. Dico subito che le mie saranno divagazioni shandyane su Tristram Shandy, esattamente quello che Carlo Levi, uno dei più grandi lettori e ammiratori di questo capolavoro, dichiarò di non voler fare.
Per ingranare lentamente partirei dai lapsus, dai modi e tempi verbali che si trovano in punti chiave delle opere letterarie, spesso negli incipit, e che appaiono inadatti. Diversi dai passati remoti o dagli imperfetti narrativi a cui la letteratura ci ha abituati.
Il primo è quello dello stesso Tristram: «Avrei desiderato che mio padre e mia madre avessero badato a quello che facevano, quando mi generarono».
Il secondo è l’apertura del romanzo di Hašek, Le vicende del bravo soldato Švejk: «E così ci hanno ammazzato Ferdinando».
Il terzo è quello con cui Proust apre la sua Recherche: «Per molto tempo, mi son coricato presto la sera». A chi si riferisce quel molto tempo, al narratore o all’autore? Frase che più ambigua non si può.
Poi i cinque versi, a mio parere, più belli e suggestivi della poesia occidentale:
Hìc tamen hànc mecùm | poteràs requièscere nòctem
frònde supèr viridì: | sunt nòbis mìtia pòma,
càstaneaè mollès | et prèssi còpia làctis,
èt iam sùmma procùl | villàrum cùlmina fùmant
màiorèsque cadùnt | altìs de mòntibus ùmbrae.
La situazione è storicamente collocabile. Virgilio riprende il genere letterario dell'idillio teocriteo, l’idillio pastorale, l’arcadia ideale in cui prevale il registro scherzoso, lieto, la bellezza della natura, e lo riprende in chiave cupa, ambientando il dialogo sotteso a questi versi in un nord Italia indefinito, in mezzo a una natura che è insieme familiare ed estranea. Sospesa fra il restare e il partire. Partire verso l'ignoto e restare in ciò che si conosce. La Storia incombe ferocemente sulla composizione. Dopo la battaglia di Filippi viene ordinata la confisca dei terreni per redistribuirli ai veterani della guerra civile. Questa operazione colpisce anche la città di Mantova e lo stesso Virgilio che, astutamente, si rivolge a Ottaviano Augusto e riesce a ottenere la restituzione dei suoi possedimenti. Non fu così per i suoi amici.
La prima ecloga nasconde questi eventi. Titiro e Melibeo sono pastori, si incontrano in un contesto ideale ma brumoso, in una natura che è insieme teocritea e fertilizzata dal sangue delle battaglie della guerra civile. Melibeo sta partendo. Spinge il suo gregge verso l'ignoto. Sta per abbandonare tutto ed è colto dalla malinconia che prende gli uomini nei momenti decisivi, nei momenti in cui si compie una scelta, nei punti di non ritorno. Quella malinconia che è fatta sempre come una bilancia a due piatti: da un lato c'è quel che si lascia, dall'altro quel che si teme. Entrambi i piatti pesano moltissimo. Da una parte l'ignoto, la paura del futuro – quella che oggi si chiamerebbe, con un po’ di superficialità, adrenalina. Dall'altra il paesaggio conosciuto ma, soprattutto, il paesaggio dell'anima: le coordinate con cui si riconoscono le proprie relazioni e si costruisce l'immagine che si ha di se stessi.
Quella in cui si trova Melibeo è la situazione di esilio che contraddistingue la condizione umana, ma è anche il motore fondamentale dell’arte di narrare, del gesto del narratore fin dalle origini, dalla prima parola coscientemente scritta per essere trasmessa come racconto letterario.
Qualcosa è stato tolto per sempre all'uomo ed egli, pur di riaverlo, si abbandonerà ai suoi sogni, che cominceranno a camminare da soli, con le loro gambe, dentro al mondo, e diventeranno miti. Sarà disposto a qualunque cosa, fino a mettere in moto quel meccanismo violento che è la civiltà. Il meccanismo dello sviluppo civile nasce da una narrazione, nel momento in cui i sogni mettono le zampe e diventano miti. Il mito esiste soltanto se detto, parlato, narrato. Prima viene la narrazione e poi l'azione, l’agire civile.
Questa idea è contenuta nello scudo di Achille. L'eroe, prima dell'ultimo duello, si veste con armi che riassumono l'intero universo di ciò che ha lasciato dietro di sé. Lo scudo di Achille descrive scene ideali: la vita in campagna, la città in pace, la città in guerra, i campi, l'apicoltura, le attività dell'uomo, l’artigianato. Tutto è racchiuso nei suoi cerchi concentrici. Le figure rappresentano i sogni dei guerrieri che si trovano a vivere un momento di pausa prima della fine inevitabile. Tutti sanno che Troia cadrà. Tutti sanno che questa caduta sarà la fine dei combattenti di entrambe le parti. Non si può che morire. Achille sa che morirà. Una profezia ha rivelato che l’eroe non entrerà vivo a Troia. Per agire, per spingersi all'azione, egli ha bisogno della narrazione e narra il suo paradiso perduto. La sua è la stessa malinconia congelata nel gesto narrativo della prima ecloga di Virgilio.
Cosa c'entra, tutto questo, con un romanzo illuminista, spiritoso, umorista ed enigmista come Vita e opinioni di Tristram Shandy? Prima traduciamo i versi meravigliosi di Virgilio. Sopra ho fatto cenno alla presenza di tempi verbali strani, forse sbagliati. Poteras è una scelta ambigua: letteralmente avresti potuto. La scena è questa. I due pastori si sono parlati, rassicurati. Titiro ha invitato Melibeo a restare con lui, ma Melibeo sente il destino che incalza. Il paesaggio familiare è stato violentato dalla storia, non è più abitabile. Forse i suoi sogni incarnati in narrazioni si sono infranti e hanno bisogno di nuove narrazioni. Spinge avanti le sue pecore, le sposta verso la valle. Melibeo ha già alzato il piede, sta per compiere il primo passo. Ma Titiro lo ferma, sospende l'azione. Congela la storia, la progressione verso il destino, con queste parole:
Tuttavia stanotte avresti potuto riposare qui con me
su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi,
tenere castagne e latte rappreso in abbondanza.
E già lontano fumano i tetti dei casolari
e più lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre.
L’immagine delle ombre che premono – le ombre della storia, del destino, le ombre dell’amicizia fra i due – blocca l'azione. La prima ecloga finisce qui, si chiude con un colpo di genio: Melibeo con il piede sollevato da terra. Non sappiamo se lo poggerà per partire o se, accettando l'ambiguità contenuta in quel poteras, si fermerà per un’ultima nobile pausa, prima di andare incontro al destino. Il senso di queste pagine è spiegare perché ho usato l’aggettivo «nobile» per definire questa pausa. Da più di duemila anni la letteratura occidentale rimane sospesa in quel passo non fatto. In quel passo c'è l'avventura di Tristram Shandy.
Tristram Shandy è un romanzo straordinariamente divertente e complesso. Inizia con una specie di promessa. Tristram promette di raccontare la sua nascita e al quarto libro, dei nove che compongono il romanzo, non è ancora nato. Come ha scritto Carlo Levi: «La nascita di Tristram è un capolavoro di rifiuto. Ci vogliono più di duecento pagine perché il bambino venga alla luce, con tutti i possibili rinvii, cortine, bastioni e difese e mascheramenti».
È il primo di una lunga serie di contrattempi. Tristram Shandy può essere definito il romanzo dei contrattempi, dei sentieri interrotti. Ogni strada tracciata porta dove non dovrebbe e si perde, come certi fiumiciattoli nella sabbia del deserto. Gli abitanti di Shandy Hall sono simpaticissimi. Pazzi inconcludenti. Chiacchierano senza mai finire le loro discussioni. Litigano e non arrivano né a una conciliazione né a una rottura.
Se c'è un cardine che cigola, nessuno lo riparerà e quello continuerà a cigolare, finché non si troverà una soluzione provvisoria per aprire comunque la porta. Nel frattempo, saranno iniziate mille altre azioni inutili che non giungeranno a niente. Chi cerca una narrazione lineare in queste pagine è perduto. Un romanzo di piccoli contrattempi che Tristram Shandy narratore e Laurence Sterne autore raccontano col piglio della grande letteratura epica, come se si trattasse delle imprese di Achille o dei personaggi di Virgilio. In realtà, sono contrattempi umoristici, il più famoso dei quali è la dispersione degli umori vitali del padre di Tristram al momento in cui dovrebbe concepire il figlio. Per quattrocento pagine l'unico rapporto fra Tristram e il mondo sarà un cordone ombelicale. Eppure lui si racconta prima della nascita e dopo di essa. Confonde i tempi e li inverte.
Anticipo subito le parole di Ugo Foscolo. Foscolo, svestiti i panni di Jacopo Ortis e indossati quelli di Didimo Chierico, traduce e interpreta Il viaggio sentimentale di Jorick, l’altro capolavoro di Sterne. Tuttavia ci ammonisce: tutto quello che gli interpreti settecenteschi vi hanno visto è valido, così come sosterrà anche Carlo Levi nel secolo successivo.
Tristram Shandy incarna la teoria della traduzione proposta da Friedrich Hölderlin – una dottrina giudicata folle, nel senso clinico del termine, dai suoi contemporanei. Hölderlin teorizzava il tradimento del testo. Traducendo le tragedie classiche greche, introduceva valori e linguaggi che non appartenevano alla cultura ellenica. Il testo contiene potenzialità che sfondano l'ordine lineare del tempo e maturano, come dei semi, grazie al concime che la terra in cui sono piantati riceve nei secoli successivi, da altre opere, da altri autori.
Tradurre Sofocle agli albori del XIX secolo non può essere la semplice riproduzione di un intervento già compiuto uno o dieci secoli prima. Ci si confronta con opere diverse, perché il tempo e la storia della loro ricezione le hanno cambiate. Il dovere del traduttore, a costo di scandalizzare l’universo mondo, consiste nel dare conto di tutte le potenzialità che il testo non sapeva di avere, né l'autore immaginava di aver seminato nella sua opera.
Tristram Shandy, in qualche modo, dimostra questa follia di Hölderlin, perché le sue interpretazioni, a seconda dell’epoca in cui lo si legge, cambiano in modo netto, ma sono tutte valide. In queste pagine ne vedremo due. Una è ottimistica, illuminista, l’altra la definirei holderlinianamente virgiliana.
L’episodio iniziale, lo abbiamo detto, è quello della dispersione degli umori vitali. Il padre e la madre di Tristram si accingono al concepimento. Inizia il romanzo. Tristram ci ha concesso una piccola appendice preliminare sul concepimento dopo averci promesso la storia della sua nascita. Questo è il primo contrattempo:
Penso che voi tutti abbiate udito parlare delle essenze vitali, di come si trasmettano dal padre al figlio, eccetera, eccetera… e di molte altre cose inerenti a ciò; ebbene, credetemi, nove volte su dieci il buon senso o la stupidità di un uomo, i suoi successi o le sue disgrazie in questo mondo dipendono dal dinamismo e dagli impulsi di queste essenze vitali, nonché dai vari indirizzi che voi imprimete loro in quel determinato momento culminante. E quando avete dato loro l’avvio, giusto o sbagliato che sia (ciò è del tutto trascurabile), ecco che se ne vanno confusamente, come pazze frenetiche, e, calcando più volte le stesse orme, ne fanno una strada levigata e agevole come il viale di un giardino, dalla quale, una volta addestrate, neppure il diavolo le potrà dirottare. «Scusami caro…» chiese mia madre, «non ti sei per caso dimenticato di ricaricare l’orologio?» «Perd…!» strillò mio padre, pur sforzandosi nel contempo di moderare il tono della voce. «È mai capitato, dalla creazione del mondo, che una donne interrompesse un uomo con una domanda così stupida?»
«Ma, scusate… che stava dicendo vostro padre?» «Nulla».
Dopo la battuta del padre adirato, c’è la prima irruzione dell'autore, che interviene interponendo un dialogo extratemporale rispetto alla narrazione: «Ma, scusate… che stava dicendo vostro padre?» Si capirà, allora, cosa intendo quando dico che Tristram Shandy è un romanzo di contrattempi costruiti con un formidabile controllo della lingua e della struttura. A un certo punto, nel settimo libro, durante un viaggio in Francia, Tristram si ferma a raccontare la storia, piuttosto volgare, della badessa di Andouillets. La badessa, che non riesce a convincere dei cavalli a partire, cerca una soluzione con la sua giovane conversa. Alla fine sussurra alcune paroline nelle orecchie degli animali, ma l’espediente non funziona. Quando però, ricordando l’episodio, le usa Tristram, le parole funzionano, e il cavallo si mette in moto. La badessa aveva dunque sbagliato la pronuncia delle parole. Attenzione. Una parola era foutre, che non ha bisogno di traduzione. L’altra era bouger «sbrigarsi, muoversi». Solo che il pubblico inglese del Settecento pronuncia bouger come bugger, che significa «sodomita» (in francese bougre). E bugger ha la stessa radice di bulgar, «bulgaro», nome che a quel tempo veniva dato agli eretici che commerciavano spiritualmente con l’Est europeo, gli eredi dell’eresia catara e bogomila.
La badessa finisce, quindi, per essere di una volgarità infinita. Interrompe la narrazione e allude, con la sua figura e l’accostamento infelice delle parole mal pronunciate, all’eresia e al trattamento degli eretici da parte della chiesa. Qui emerge la posizione di Sterne nei confronti del Vaticano e della Chiesa cattolica. Una posizione antipapista, del tutto coerente con lo spirito del Toleration Act, la legge inglese che nasce dall’opera di John Locke e che sostiene la tolleranza verso ogni credo religioso tranne quello cattolico. Poiché i cattolici non sono capaci di tolleranza, non meritano che la società rispetti le loro posizioni.
Ecco che da espedienti formali di tipo digressivo compaiono i pilastri concettuali del rapporto dell'autore con il suo tempo. Sono fughe laterali, in avanti e indietro rispetto alla narrazione, doppi sensi, giochi di parole, digressioni nel passato e nel futuro, storie interpolate, storie che si infilano in altre storie, opinioni.
Il romanzo digressivo esiste da quando esiste l'umanità. Una delle scritture più antiche a noi pervenute è la vicenda, variamente rielaborata, di Shahrazād, una principessa indiana che riesce a sfuggire alla condanna a morte inflittale da un potente signore raccontandogli ogni notte una storia. Le Mille e una notte è il romanzo digressivo per eccellenza. Shahrazād inganna il suo carnefice con l'arte di interpolare storie. Racconta una storia, si interrompe e all'interno ne innesta un'altra, suscitando la curiosità dell’ascoltatore. Nel frattempo giunge l'alba, ma la storia non è finita, e così le viene concessa un'altra notte di vita. Questo rimandare continuerà per tre anni, al termine dei quali Shahrazād presenta al califfo i due figli che ha generato senza che lui se ne accorgesse. La donna ha ingannato la morte con la narrazione.
Anche Gargantua e Pantagruel di Rabelais è un’opera digressiva, così come l'Orlando furioso, nel quale i cavalieri fanno di tutto tranne che recarsi a Parigi per difendere la città dai mori. Digressivo per eccellenza è Cervantes: quando nel Don Chisciotte entriamo in un'osteria, non ne usciamo prima di cento, centocinquanta pagine.
Sterne conosce benissimo tutti questi precedenti. Li prende e li usa. Ma forse è il primo che, consapevolmente, fa della digressione una tecnica narrativa, uno stile, una sintassi, una punteggiatura. Ne fa il cuore della narrazione. Violenta e stravolge il contenuto con una sorveglianza ferrea della struttura, simile a quella con cui Proust cattura i lettori e li costringe a seguirlo dove vuole lui per quattromila pagine.
Sterne dissemina la scrittura di trattini lunghi che non si sono mai visti prima, di asterischi, puntini, linee ondulate, spezzate. Ci dice che l’attività della scrittura, quando è fatta bene, è soltanto un altro modo di conversare. E questo dà già l’idea di un parlare interrotto, inframezzato, rapsodico. Ma Sterne va oltre e a un certo punto presenta una pagina nera, anticipando così il Quadrato nero di Malevič. Oppure ne riempie un’altra con una sola parola: «spleen». Poi c’è la famosa pagina marmorizzata, emblema variegato della sua opera, definita da Carlo Levi una specie di Pollock. Questa pagina è la più importante del romanzo, perché esprime la comunicazione nella sua forma assoluta: non solo comunicazione non scritta, ma addirittura non verbale.
Sterne è arrivato a fare degli strumenti primordiali della letteratura una tecnica severamente controllata, che coincide con il contenuto stesso di ciò che vuole raccontare. Siamo davanti alla manifestazione di una capacità combinatoria e ordinatrice mai vista prima. Si tratta di ordinare l'esperienza secondo rapporti che si moltiplicano all'infinito. È il potere che John Locke attribuisce allo spirito nel Saggio sull’intelletto umano: «La sola fonte della conoscenza sono le idee, ma la sola fonte delle idee è l'esperienza». Noi possiamo solo ricostruire, attingere dall'esperienza, ma non possiamo occuparci della sostanza che sta sotto all'esperienza. Questo è un vantaggio, perché l'esperienza è manipolabile. La possiamo riprendere, montare e smontare. A partire da idee semplici, possiamo costruire idee complesse e manipolare i dati dell'esperienza in combinazioni infinite.
Sotto la trama del Tristram Shandy è possibile intravedere, in filigrana, il Saggio sull'intelletto umano di Locke, esattamente come sotto la trama di Alice nel paese delle meraviglie appaiono le regole del gioco delle carte e sotto quella di Alice attraverso lo specchio c’è il gioco degli scacchi. È molto utile avere un sottotesto, una traccia formale che permetta di tenere insieme tutte le strade che si aprono e si chiudono. Questa capacità manipolatoria e assemblatrice ha, nell'epoca di Sterne, un solo corrispettivo in ambito musicale: Wolfgang Amadeus Mozart. Mozart arriva a forme radicalmente nuove di espressione vissute dal contesto sociale come eversive.
Un breve passaggio che esprime questa capacità digressiva è quello in cui il padre di Tristram, Walter Shandy, spiega la sua teoria dei verbi ausiliari:
«Non hai mai visto un orso bianco?», esclamò mio padre, rivolgendosi a Trim che se ne stava in piedi dietro la sua sedia. «A Vossignoria piacendo, no!» «Ma sapresti parlarne, Trim, in caso di bisogno?» «Come è possibile, fratello?», intervenne zio Tobia, «se ti ha appena detto che non ne ha mai visto uno». «Qui ti volevo!», esclamò il padre. «E ora ascoltami. Un ORSO BIANCO! Molto bene. Ne ho mai visto uno? Potrei vederne uno? Sto per vederne uno? Dovrò mai vederne uno? O potrò mai vederne uno? Avrei potuto vedere un orso bianco? (Come me lo immaginerei?) Se vedessi un orso bianco, cosa direi? Se non dovessi mai vedere un orso bianco, allora? Se io mai ho, posso, devo, avrò da vedere un orso bianco vivo, potrò vederne almeno la pelle? Non ne ho mai Visto uno dipinto? Nessuno me lo hai mai descritto? Ne ho mai sognato uno? Mio padre, mia madre, mio zio, mia zia, i miei fratelli o sorelle, videro mai un orso bianco? In tal caso, che darebbero per vederlo? Come si comporterebbero? E come si comporterebbe l’orso bianco? Sarà selvaggio o addomesticato? Terribile, ispido o morbido? Val la pena di vedere un orso bianco? Non vi è peccato in ciò? È meglio di uno NERO?»
In questo frammento la manipolazione sintattica e grammaticale è un modo per catturare il mondo intero. Il Tristram Shandy si configura come un'opera-mondo nella forma, nella struttura. La sostanza è un pallido mito, non interessa troppo. È questo l'empirismo inglese.
Le digressioni segnano uno scarto fra il tempo della storia che viene narrata e quello in cui viene scritta. Anzi, c’è un ulteriore passaggio intermedio tra scrittura e storia narrata: quello in cui viene enunciata l’opinione. E le opinioni sono separazioni. Le digressioni e i rallentamenti non sono artifici letterari, ma espressioni della libertà dello spirito umano che associa e dissocia le idee, costruisce mondi. La narrazione di Tristram costruisce un mondo che, nonostante le follie, ci sembra più vero di quello vero perché non è un’imitazione del mondo reale, ma un’imitazione del processo stesso attraverso il quale il mondo si costruisce. Per noi il mondo è soltanto esperienza, non può essere altro. Esso si costruisce grazie alla capacità manipolatoria dello spirito umano e il Tristram Shandy è una narrazione isomorfa al processo con cui noi costruiamo il mondo. Siamo alle soglie del pensiero di Kant. Costruiamo gli oggetti e li mettiamo in relazione.
Siamo in un'epoca storica di grande ottimismo. Un’epoca divertita e divertente. Sono gli anni in cui l'Inghilterra afferma la sua potenza economica. La Compagnia delle Indie (una compagnia commerciale privata) ha ottenuto il diritto di riscuotere le tasse nel continente indiano, un fenomeno paragonabile al potere delle multinazionali di oggi. Un potere da sempre appartenuto alla sovranità degli imperi e delle forme statuali passa nelle mani di una compagnia commerciale privata. La pace di Utrecht ha messo fine alla guerra di secessione in Spagna e allo svago preferito dello zio Tobia, un personaggio simpaticissimo del nostro romanzo. Ufficiale in pensione, passeggia in un giardino da cui non esce mai. Se ne va in giro in questo luogo con il suo fido caporale Trim e ha un hobby che viene tradotto in alcuni libri, tra cui l’edizione Mondadori, come dada. Il suo dada consiste nel ricostruire in un campo da bocce – facendo segni nel terreno e posizionando alcuni oggetti che simboleggiano i reparti delle armate – gli assedi delle città europee durante la guerra di secessione spagnola nella quale ha combattuto per Guglielmo III, di cui ricorda l'onore militare e la straordinaria capacità di comando.
L'Inghilterra è ricca di risorse culturali, economiche, di spirito industriale grazie alla scelta lungimirante di accogliere i profughi ugonotti dalla Francia, che costituiscono un tesoro straordinario per lo sviluppo della società inglese. Nascono le industrie. Il nonno di Charles Darwin, Erasmo Darwin, inventa straordinari sistemi di organizzazione industriale. Si diffondono alcuni principi fondamentali della società inglese come la cittadinanza e una giurisprudenza costruita su due pilastri: la libertà religiosa sancita dal Toleration Act e l’Habeas corpus, cioè il diritto alla libertà individuale. Ognuno è proprietario del suo corpo («a ognuno la propria carcassa», dirà Charles Dickens). Ognuno ha in consegna se stesso, diritto che non potrà essere alienato.
È questo il contesto storico in cui si sviluppa l'ottimismo borghese che Foscolo individua come spirito, umore vitale del romanzo di Sterne. Foscolo, infatti, paragona gli anni del Tristram Shandy a quelli del Decameron di Boccaccio: una società laica, disincantata, ricca, ottimista, imprenditoriale, lanciata verso un futuro organizzato che apre nuovi spazi al diritto, alla cultura, all'arte e al culto del bello. Prima John Locke critica la sostanza (noi viviamo solo nell'esperienza), poi David Hume, in modo ancora più radicale, toglierà di mezzo anche la causa: tutto quello che noi siamo abituati a considerare in modo causale non è altro che contiguità di fenomeni su cui non c'è alcuna garanzia. Quale garanzia abbiamo che domani il sole sorgerà di nuovo, anche se è sempre sorto? Per la borghesia dell’epoca è sufficiente, per agire, che si possa contare su una ragionevole previsione in tutti gli ambiti dell'esistenza.
In quel periodo, nelle campagne inglesi si aggira uno strano personaggio, John Wesley, un predicatore metodista che nega la predestinazione al male. Scrive e legge i suoi sermoni a dorso di un cavallo simile al Ronzinante di Don Chisciotte e si propone di volgere le anime dal male al bene. La borghesia inglese, che dà lavoro ai minatori, lo percepisce come un pericolo. Tutte le classi dell’epoca sono invitate a mangiare al piatto di questa Inghilterra ottimista, tutte tranne una: i minatori. I minatori sono considerati una specie di sotto-uomini, rimangono esclusi da ogni contesto sociale, sono visti come povere creature sofferenti, sacrificate necessariamente al progresso (un tema di grande attualità, quello del sacrificio necessario al progresso: pensiamo alle giovani generazioni e allo strumento del precariato). Allora si sacrificavano interi villaggi con lo strumento delle miniere. John Wesley si rivolge proprio ai minatori e per questo viene fatto fuori. Lo stesso accade a Yorick, il predicatore che si incontra nelle pagine del Tristram Shandy. Yorick, insieme allo zio Tobia, è uno dei personaggi più affascinanti del romanzo, più dello stesso Tristram, di cui conosciamo le opinioni, le contraddizioni, le digressioni, ma poco il carattere.
Yorick morirà come John Wesley. Però si chiama Yorick, e il suo nome è una traccia che ci porta alla seconda interpretazione, quella un po’ meno empirista, razionalista, ottimista.
Yorick è il teschio in mano ad Amleto, Yorick è il buffone del re. È il teschio che Amleto apostrofa con il celebre «Ahimè povero Yorick». Ora, il pastore John Wesley diventa Yorick. Nella capacità combinatoria illuminista entra una folata di vento gelido, la prima che incontriamo. Troviamo un altro termine di paragone per le digressioni, le sospensioni, le soste, le pause di Tristram Shandy, ed è Amleto. Quale personaggio più digressivo di Amleto, che rimanda la sua azione senza fine e si addentra in tutte le possibili digressioni, compresa la follia? Fugge al di là del mare e poi introduce il suo Io come un nuovo elemento nella macchina della tragedia (elemento inesistente nella tragedia greca). Questo Io vive la digressione con un rapporto drammatico nei confronti di quanto ci viene segnalato dal cenno al povero teschio che Amleto raccoglie dalla fossa. La figura di Yorick è anche la figura di John Wesley, il simbolo del massimo punto di redenzione, di ottimismo, di conciliazione sociale, che la società inglese di quel tempo riesce a esprimere. John Wesley apre alla possibilità di salvezza anche per i predestinati. Apre alla possibilità di socialità anche per i minatori. John Wesley compie il suo destino, cavalcando a dorso di mulo, e porta una parola di società e di socialità nel suo tempo. Anche Yorick appartiene al meccanismo metodologico messo in moto da Tristram Shandy per raccontarci la sua storia, ma lo fa in una maniera che semina un dubbio, che mette inquietudine. E la dichiarazione di metodo che Tristram stesso fa nel primo volume, o forse Sterne per voce di Tristram, conferma questo elemento di allarme:
Per esempio, stavo proprio dandovi le linee essenziali del carattere molto eccentrico di zio Tobia, quando venne a intromettersi la storia di zia Dina e del suo cocchiere. Poi un ghiribizzo mi condusse per milioni di chilometri, fin dentro al cuore del sistema copernicano; nonostante ciò, avrete notato che lo schizzo del carattere di zio Tobia ha proseguito allegramente. Se non proprio le linee essenziali del suo temperamento (ciò era impossibile), avrete almeno afferrato qua e là, man mano che il racconto proseguiva, qualche particolarità o indizio efficace del suo carattere. Perciò, ora vi trovate in possesso di una conoscenza di zio Tobia più profonda di prima. Proprio per questo modo di procedere, il meccanismo del mio romanzo è unico nel suo genere. In esso vi sono due correnti contrarie, che finiscono col riconciliarsi e compendiarsi a vicenda, anche se prima si pensava che potessero dar luogo a una narrazione slegata degli avvenimenti. In una parola, il mio racconto è digressivo e progressivo allo stesso tempo.
C’è una nota allarmante e cupa, in questo progressivo. Un elemento enigmatico. Progressivo verso che cosa? Cominciamo a capirlo nel sesto volume, al capitolo 25, quando Tristram narra la morte dello zio Tobia, ma la racconta sospendendola in più punti del tempo. È già avvenuta nel momento in cui racconta, ma non è ancora avvenuta nel momento «di cui» sta raccontando. Interpola un frammento di tempo in cui lo zio Tobia muore fra il momento in cui racconta e il momento «di cui» racconta. C’è un punto intermedio. (Qualcosa di simile farà Proust con la morte di Swann, di cui veniamo a conoscenza in un inciso del quinto volume).
La morte dello zio Tobia viene annunciata così:
Ma cos’è questo, cos’è? Paragonato al terribile che verrà, quando vedrò il mantello di velluto decorato con le medaglie militari del tuo padrone, il primo, il migliore di tutti i mortali, e vedrò te fedelissimo servitore deporre la sua spada e il suo fodero con mano tremante sulla bara e poi tornartene terreo come la cenere alla porta per afferrare il cavallo bardato a lutto per la briglia e seguire il carro funebre secondo i suoi desideri?
Sterne ha in mente anche un'altra parte della dottrina di Locke, quella che indica la misura della durata del tempo. Noi possiamo stabilire la durata: ciò che rimandiamo, ciò che facciamo durare, ciò che è al di fuori della corsa pazza verso la fine che il tempo rappresenta. Ma lo possiamo stabilire solo in maniera relativistica, esattamente come il moto si stabilisce in base a un punto di riferimento. Il punto di riferimento che ci permette di stabilire il senso della durata è l'incalzare del tempo. È il soffio della fine che arriva. E in qualche modo Tristram si sottrae al tempo con un coraggio formale, narrativo, mai visto prima. Combatte contro il tempo, ma onora la parte contro cui si batte, la natura di ciò che trascorre:
Non voglio farne una questione; il tempo cancella anche troppo presto; ogni lettera che scrivo mi dice con quale rapidità la vita insegue la mia penna. I giorni, le ore, più preziosi, mia cara Jenny, dei rubini attorno al tuo collo, prendono il volo sopra le nostre teste come nubi leggere in una giornata di vento e non ritornano più… gli eventi si accavallano… mentre stai attorcigliandolo, quel riccio, guarda! Diventa grigio. Ogni volta che bacio la tua mano per dirti addio, le ore di lontananza che ne seguono sono un preludio di quella separazione eterna a cui fra breve dovremo sottostare.
Si capisce, allora, chi è il vero antagonista in questa battaglia combinatoria e labirintica che Tristram Shandy stabilisce con la narrazione della sua vita e Laurence Sterne con il suo romanzo. C'è qualcosa di crepuscolare in questa fuga. Il tempo, prima di essere tempo, è durata. Ma solo nel romanzo. Il narratore vede nel futuro un avvenimento che è accaduto nel passato. Ha la visione che si può permettere, nel nostro secolo, il cinema, oppure che Kurt Vonnegut, in Mattatoio n. 5, attribuisce agli alieni di Tralfamadore.
Il soldato Vonnegut, americano di origine tedesca, viene catturato dai tedeschi in Francia e condotto in un campo di prigionia. In questo campo lavora in un mattatoio sotterraneo, dove il tempo è scandito da un tedesco che porta le razioni per mangiare. Un giorno il tedesco non arriva più, i prigionieri escono a vedere cosa è successo e scoprono che la città, Dresda, è stata rasa al suolo dopo uno dei bombardamenti più spaventosi della Seconda guerra mondiale. Vonnegut si trova senza parole, non sa raccontare questa tragedia, perché è difficile confrontarsi con una catastrofe del genere, tanto più se si è un americano di origini tedesche. E passa tutta la vita, fino alla scrittura del romanzo, a cercare un modo di raccontare la distruzione di Dresda, senza trovarlo. Lo trova solo grazie a Mattatoio n. 5. Nel romanzo si fa rapire dagli alieni di Tralfamadore – degli sturalavandini con una manina in testa e un occhio al centro del palmo – che stanno allestendo uno zoo galattico. Gli alieni lo portano sul loro pianeta e gli rivelano che morirà il 16 settembre dell’anno successivo. Lui va nel panico e un tralfamadoriano gli chiede perché si è spaventato tanto, visto che è sempre morto il 16 settembre del 1964.
Allora lui capisce che i tralfamadoriani vedono il tempo come una quarta dimensione, lo vedono intero. Quindi lo dominano, vedono l’inizio e la fine come simultanei. Hanno un oggetto davanti a loro, non hanno un tempo progressivo. Spinto da questa consapevolezza il soldato riuscirà a uscire dallo zoo galattico e a tornare sulla Terra, dove racconterà Dresda. Se la narrazione riesce a fermare il tempo, allora riesce a dire cose sul tempo inteso come progressione, durata, epoca. E anche questa è un’idea sterniana. Sterne racconta la morte di zio Tobia come un tralfamadoriano. La racconta in simultanea. Non era mai accaduto niente del genere, nemmeno in Cervantes, nemmeno in Rabelais.
Torniamo all’equivoco da cui siamo partiti, la dispersione degli umori naturali del padre di Tristram dovuta a un’improvvida battuta della mamma su un orologio. Tristram nasce sotto il segno dell'orologio. E sull’orologio devo citare alcuni autori.
Il primo è Giuseppe Gioacchino Belli, secondo il quale la morte è nascosta negli orologi. Cominciamo a capire, credo, perché Tristram non voleva nascere. Se nasci, entri in una corsa che viene imposta. Se nasci, cominci un cammino progressivo. Ecco perché era cupo quando diceva: «il mio racconto è digressivo e progressivo allo stesso tempo». L'ha scritto poco dopo aver riempito una pagina con la parola «spleen». Il suo marchio di fabbrica. Ecco qual è la progressione, il senso della lotta. Si costruiscono strade alternative per non arrivare alla fine.
Mi viene in mente un altro grandissimo capolavoro, Le vicende del bravo soldato Švejk di Jaroslav Hašek. Il romanzo racconta la storia di un bravo soldato asburgico, che parte per il fronte senza mai raggiungerlo. La Prima guerra mondiale è il tritacarne dove il buon soldato Švejk fa di tutto per non arrivare. E come fa per evitarla? Racconta barzellette. Si può leggere tutto il romanzo pensando che sia un libro umoristico, ma in realtà le barzellette sono delle finestre aperte sull’epoca che immobilizzano la narrazione.
Sull’orologio non si può non leggere una pagina di Carlo Levi tratta dall’Orologio, libro consapevolmente sterniano. L’autore scrive di una sera in cui va a dormire e impiega molto tempo ad addormentarsi:
Così pensavo, e evocavo, mentre cominciavo a spogliarmi […] Mi spogliai in fretta. Col gesto abituale di ogni sera, levai l’orologio dalla tasca: lo tenni un poco in mano, e lo avvicinai all’orecchio, prima di posarlo sul tavolino accanto al letto. Sentivo il suo ticchettio regolare, e pensavo che il tempo dell’orologio è del tutto l’opposto di quel tempo vero che stava dentro e attorno a me. È un tempo senza esitazioni, un tempo matematico, continuo moto materiale senza riposo e senza angoscia. Non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni. Ora l’orologio era sul marmo del comodino, appoggiato obliquamente sul suo moschettone ripiegato, fermo e insieme animato da un moto interno, come un grosso moscone lucente, pronto al volo. Era un bellissimo orologio d’oro, a doppia calotta, di ottima marca: un cronometro Omega, che non perdeva un secondo. Me lo aveva regalato, come è usanza, moltissimi anni fa, quando mi ero laureato, mio padre. Tutti questi orologi da tasca, grandi, pesanti, in un certo modo solenni, e un poco antiquati (ma il mio aveva, oltre le lancette delle ore e dei minuti e quella più piccola dei secondi, quella lunga e sottile e scattante al comando di una leggera pressione, del contasecondi, elemento moderno in quella annosa macchina del tempo), tutti questi orologi hanno una loro storia, familiare e paterna. È raro che se ne faccia acquisto per il proprio uso. Essi sono quasi sempre un regalo, e un regalo importante, del Padre, o del Nonno, o dello Zio, in una occasione importante, nel momento più decisivo della vita, quello in cui il giovane entra nel mondo, acquista la sua autonomia, si stacca dal passato, dalla sicurezza indistinta del tepido clan familiare, per cominciare a percorrere il proprio tempo personale. È allora che si riceve dal Padre l’orologio che ci seguirà per sempre, che seguirà tutte le nostre ore, attaccato alla sua robusta catena d’oro perché non si perda, perché non si smarrisca. Così, legato come un servo, egli comincerà la sua vita nella liscia oscurità del taschino, appiattato e nascosto nel buio come un cuore d’insetto, un cuore senza intermittenze, spietato, che non pompa nelle vene il caldo sangue, ma che batte tuttavia come una essenza intellettuale e senza corpo, e tirannico cerca di trascinare con sé il nostro cuore. Il nostro cuore non se ne accorge, dapprima, e continua svagato; poi resiste e si difende; ma, a poco a poco, si lascia sedurre e corrompere da quel ticchettìo sempre uguale: è così difficile non andare al passo! Ecco, i soldati sfilano, dietro una allegra fanfara: Uno! Due! Uno! Due! I nostri piedi pare si muovano da soli, e, senza avvedercene, li abbiamo seguiti. Ma quella cadenza, quella andatura militare, si accelera, il nostro cuore la segue, non sa più staccarsene, e il tempo corre e vola, e l’oggi, in un istante, è già fatto ieri, e si unisce, senza più potersi contemplare e conoscere, al tempo che già si perdé. Così, la catena d’oro che teneva legato l’innocente orologio, diventa la catena che ci lega e ci trascina, ed è la piccola macchina del taschino che tiene ormai dal suo capo, come un padrone, la catena ben salda, e ci mena alla cavezza, come buoi da sgozzare, sempre più in fretta, sempre più in fretta, chissà dove. Com’erano lunghi, senza fine, i giorni dell’infanzia! Un’ora era un universo, un’epoca intera, che un semplice gioco riempiva, come dieci dinastie. La storia era ferma, stagnava in quel gioco eterno; lo stesso forse che ho visto fare, sul selciato di una strada della Città Bassa, a New York, da un bambino cinese, con i segni di gesso per terra, e i salti su un piede solo. I tramonti duravano ore e ore, come se la giornata si rifiutasse di terminare, e quel sole infantile, già mezzo nascosto tra le montagne azzurre, stesse troppo bene in cielo. Erano tramonti lentissimi, pieni di tutti i colori più meravigliosi; dove il rosso del fuoco passava all’arancione, ed al giallo, e a uno strano verde marino pieno d’incanto, e al viola dei fiori, chiaro come le prime violette di primavera, e poi sempre più cupo e notturno. Quei colori scendevano dalle nuvole, si muovevano dolcemente, come una donna che si svegli, riempivano Paria e sembrava la facessero densa come un’acqua trasparente. D’un tratto, in quell’aria visibile, apparivano i pipistrelli, e svolazzavano silenziosi in cerchi incerti, neri come la notte prossima, e così lontana. Suoni vaghi si facevano strada fra quei voli oscillanti, come luci di paradiso, e parevano navigare, barche piene di vele, in quell’acqua del cielo. Il mondo era lí, aperto, sotto il balcone, e non sarebbe finito mai, come una cerimonia interminabile (gli occhi che guardavano dovevano essere ben grandi!). Ed ecco una musica di trombe giungeva improvvisa dalla riva del fiume, come un ultimo colore pieno di barbagli d’oro. Era la ritirata del 3° Alpini: cominciava a capo del ponte, sotto l’orologio municipale della casa d’angolo; di qui i soldati partivano verso la caserma, seguiti dai ragazzi del Borgo, e la musica si allontanava, si faceva più oscura e indistinta, come il cielo. Poi, un poco più tardi, quando l’ombra già copriva le case, una nota lunga e commossa suonava il silenzio, la finestra si chiudeva, e tutto era finito.
Carlo Levi ci introduce all'idea di un tempo concreto, pieno di cose, e di un tempo astratto, in cui vale solo la forma, il ticchettio, lo scatto progressivo. Il tempo che scivola verso la fine è astratto. Il tempo che non va verso la fine, che rifiuta questo scivolare, è un tempo concreto, pieno di vita, di giochi. Per approfondire questo motivo leggo un’altra pagina stupenda, tratta da Il libro dell'orologio a polvere di Ernst Jünger.
Per noi è inconcepibile vivere senza orologi. Ovunque andiamo, ovunque ci troviamo, siamo abituati a sentirli ticchettare e a battere le ore, a portarli con noi e a lanciar loro rapide occhiate, vuoi che si tratti di minuscoli orologi da polso, vuoi degli enormi orologi da torre. Sembra che nei luoghi dove gli orologi si moltiplicano il tempo sia sempre più scarso, più prezioso […] Come poteva l'uomo compiere efficacemente il suo lavoro quotidiano quando ancora non conosceva la misurazione del tempo e neanche ne sentiva la mancanza. Possiamo rendercene conto ancora oggi, osservando gli indigeni che vivono senza bisogno di orologi nelle grandi foreste. Ma anche nella nostra vita ci sono momenti nei quali ci congediamo dalla civiltà e ci avviciniamo alla natura, alla selvatichezza. In questi casi l'orologio riveste un'importanza minore del solito. Ci allontaniamo dal tempo misurato. E proprio quando siamo immersi in occupazioni piacevoli e divertenti, che non prestiamo la minima attenzione al tempo misurato. Quando giochiamo, purché i nostri giochi non abbiano niente a che vedere con quei processi lavorativi chiamati sport. Dunque soprattutto quando giochiamo come se fossimo bambini non siamo soggetti al ritmo dell'orologio. […] Il cacciatore, il pescatore, il contadino erano estranei all'orizzonte del tempo misurabile, astratto. Il loro era un tempo concreto, perché scandito dalle attività che vi svolgevano.
Ciascuna di esse definiva le ore e il loro valore, mentre la maggior parte delle nostre occupazioni è regolata da orari, scandita dall'orologio. Una lezione scolastica, una seduta in parlamento, un'ora di lavoro in una fabbrica meccanica possono essere rinviate e si possono dislocare a piacere come pietruzze usate per il calcolo o sostituire l'una con l'altra. È impossibile invece spostare l'ora in cui la selvaggina va ad abbeverarsi o un branco di pesci si avvicina alla costa. Anche la semina e il raccolto, le processioni, le feste seguono ritmi dettati da una necessità oggettiva, concreta. Essa è diversa da quella astratta, automatizzata delle nostre fabbriche. Diversa da quella della sirena che chiama al lavoro. Ad essa è associata la stessa libertà che notiamo immediatamente quando osserviamo una società primitiva e che ci cattura se prendiamo parte alla sua vita. I piccoli lavori ai quali si attende presso il ricovero delle barche, davanti al capanno di caccia, al fuoco dei bivacchi vengono svolti con molta più libertà rispetto a quelli che si eseguono nel tempo misurato. Lo si vede dai movimenti che sono privi di costrizione. È questa l'autentica fonte del piacere che riempie i giorni di vacanza. Il riposo è tanto maggiore quanto meno ricorriamo all'orologio.
Gli orologi cosmici, tellurici, a differenza di quelli meccanici, scandiscono la concezione del tempo alternativa rispetto a quella progressiva. Le concezioni del tempo più note sono quella progressiva e quella ciclica. Esse coesistono. La differenza è determinata dalla nostra attenzione, dipende da quale delle due concezioni siamo disposti ad ascoltare. Quella ciclica è legata all'idea del ritorno: ogni ora ha il suo carattere, la sua luce, la sua preghiera. È un'antica idea di felicità. Cos'è che ritorna? Il sole, le feste, gli dèi, gli antenati. Un tempo che dona e restituisce, ore che ci vengono dispensate, diverse l'una dall'altra. Invece il progresso uniforma il tempo. Precede il suo contenuto. Conta la meta, perché si preferisce la struttura, la misurazione. Diventa preziosa la forma che sorregge il tempo, cioè il suo esito. Il tempo progressivo è fonte di utopie politiche, religiose. Il tempo che dona, invece, quello determinato dall’attività che vi si compie, è concreto. In questo senso, il tempo con cui Shahrazād rinvia la morte è un tempo concreto, perché si contrappone al tempo astratto scandito dal meccanismo dell'orologio. All'origine della narrazione c'è qualcosa di simile.
Chi si ricorda il primo ricordo? Il mio è una gabbia di procioni allo zoo di Novara. In teoria non potrei ricordarlo perché avevo solo due anni e mezzo, ma ricordo la strada che facevo per arrivare allo zoo, la piazzetta triangolare, le strisce dove dovevo attraversare, poi il giardino zoologico e il fosso dei procioni. E ricordo tutto questo grazie alle parole dei miei familiari. La comunicazione familiare si è fatta mito, ha messo le zampette alle parole e ha costruito un’immagine eterna ed eternamente attingibile.
Così nasce la prima opera di scrittura, quella che non ha precedenti: l'Iliade. L'Iliade parte dall’intuizione formidabile di rappresentare la vita umana come la guerra di Troia e il tempo della coscienza umana come l'opera, come l’Iliade. Quando il poema comincia, la guerra dura da dieci anni. Nessuno ricorda bene perché si combatte. Elena è una ragione insufficiente, tant'è che Achille e Patroclo si divertono in una tenda con due schiave e si chiedono perché combattere per Elena quando si può avere un'Elena al giorno. Che cosa succede? Nel secondo libro Priamo, re di Troia, va alle mura con Elena e vede le schiere dei greci, ma non sa chi sono. Allora Elena gli descrive i guerrieri greci, che stanno assediando la città da dieci anni. Si prende coscienza di ciò che accade solo alla fine, quando la guerra volge al termine. Tutti hanno la precisa coscienza di una delle due sole situazioni che l’arte di narrare riproporrà per i successivi tre millenni: l’assedio e il ritorno. Le uniche due storie che secondo Franco Ferrucci si possono raccontare.
La differenza è che l'assedio corrisponde alla condizione umana. Uno stato di stallo che non può essere superato se non con la fine di tutti. L'Iliade è metafora della vita. La coscienza si sveglia quando arriva la peste nel campo dei greci. Appena si accorgono che la guerra sta per finire, gli eroi sono spinti da un impulso atavico all'azione, ma sanno tutti che quell'azione sarà la loro fine e per questo, quando duellano, non si ammazzano. Nell'Iliade i duelli non ammazzano mai nessuno. C'è una strage infinita di pedoni, di gente che non conta niente, e non conta niente perché l’etica guerriera del tempo fa sì che solo gli eroi possano mettere in moto il meccanismo narrativo. Gli eroi si combattono e poi si scambiano le armi, oppure diventano amici, come nel caso di Glauco e Diomede. Si rendono onore, ma nessuno rimane ferito.
I due schieramenti sono fermi, ma improvvisamente il meccanismo si rimette in moto, perché Priamo riconosce gli assedianti, i quali capiscono che Troia è forte e tenterà qualcosa per difendersi. C'è una situazione di contrattacco, le navi vengono assediate. Achille se ne sta nella tenda, ma l’ha aperta. L’arrivo della peste è la messa in scena della consapevolezza. L’eroe si sveglia all'improvviso, in prossimità della fine. Nel momento in cui tutto il meccanismo divoratore della civiltà sta andando verso il precipizio, Achille stabilisce una pausa e da quella pausa giudica, perché giudica la struttura tribale del potere di Agamennone. Si mette fuori dalla storia per un istante e in questa pausa – penultima rispetto al penultimo momento della vita che è la coscienza – giudica la storia della sua vita e del suo popolo. Compie un gesto di coscienza, di lucidità e anche un gesto politico.
Intanto si susseguono situazioni di stallo. Addirittura, dopo la morte di Patroclo, c’è un punto in cui Omero descrive i due eserciti come se si trovassero dentro a una nuvola che ha sospeso il tempo, una nuvola di polvere dorata (la sabbia in cui combattono) nella quale nessuno avanza di un solo millimetro. Le situazioni si aggrovigliano. Tutti sanno che la fine è segnata. Ora, però, la consapevolezza si è svegliata. Vedono bene la storia, il destino, se stessi. Vedono con chiarezza cosa sta succedendo. Qualcuno ha una tentazione nobile, forse un po’ fascista: si lancia in avanti. Se deve succedere, che succeda. A cercare «la bella morte» va Ettore. Ettore accelera gli eventi affinché abbiano una fine. Accade poi un capovolgimento straordinario, perché in questo destino comune l'uomo non può che conoscere se stesso nell'altro. Non è l'altro che morirà. Non sono io che uccido. Io uccido me stesso. Io vivo me stesso. Infatti, quando Ettore riesce a provocare l'ira di Achille, e Achille si lancia sul campo di battaglia e sfida Ettore all'ultimo duello, cosa fa Ettore? Indossa l’armatura e le armi di Achille. E tutta Troia reagisce con terrore, perché vede Achille camminare nelle sue vie. Ma il più terrorizzato è proprio Achille. Perché quando si aprono le porte vede uscire se stesso. E allora diventa chiaro questo gioco della coscienza, del rimandare. A questo punto anche Ettore, saggiamente, apre la sua tenda, ma è una tenda che può durare meno di quella di Achille. I tre giri di corsa in cui fugge sono la sua tenda. Le parti si sono rovesciate al punto che quando Achille porterà il cadavere di Ettore a suo padre Priamo, il vecchio re dirà all’assassino di suo figlio: «Ricordati di tuo padre». Priamo adotta Achille, perché il destino è il destino di tutti. Allora l'Iliade stabilisce due principi straordinari, che sono i principi stessi del narrare. L’assedio come condizione umana e il ritorno come narrazione, come ciò che ci si inventa per scongiurare la situazione di assedio.
Alla base di questo discorso ci sono due intuizioni. Prima intuizione. Viviamo nel colpo di coda. Omero delimita lo spazio del narrare. Si può narrare solo quando si vede con lucidità se stessi e il mondo che ci circonda. Si vede con lucidità solo nel penultimo tratto della vita. Quando la coscienza si sveglia, però, è troppo tardi, l’inizio è stato dimenticato e la fine non si può raccontare, perché nessuno la esperisce. L'Iliade termina prima della guerra. Non sappiamo come va a finire. Lo scopriamo dopo, dagli Inni omerici, da Virgilio e da altri testi. La fine è nota ma terribilmente ignota, non è raccontabile. Questo è lo spazio del narrare, la parabola penultima.
Seconda intuizione. Viviamo in un lembo di terra, all'interno di questa penultima cascata, tenuto in vita da equilibri fragilissimi, ma contemporaneamente siamo spinti da una forza primordiale. Qualcosa ci è stato tolto (Elena) e dobbiamo riaverlo. E non perché si tratta di Elena (potrebbe esserci Briseide al suo posto), ma per il fatto stesso di essere stati privati di qualcosa. Quindi ci spingiamo in avanti, come Ettore. Mettiamo in moto quel meccanismo violento e distruttore che è la civiltà.
Finalmente torniamo a Tristram Shandy, opera digressiva per eccellenza, ma, come avverte Sterne, cupamente progressiva. Il settimo libro è fondamentale. Ha, come intestazione, Flight for my life «Corro per la mia vita», che è il motore di ogni parola, digressione, interpolazione che aggiunge tempo alla vita:
“Devo dire grazie mille volte a questo mio buon umore che mi ha insegnato a camminare sul sentiero della vita, portandone tutti i pesi senza preoccupazione. Non c’è attimo della mia esistenza in cui ricordi che tu mi abbia anche una sola volta abbandonato o abbia tinto di scuro o reso lividi e tristi gli oggetti, le cose, che mi si presentavano lungo il cammino. Nei pericoli hai saputo dorare l’orizzonte col colore della speranza; e quando la MORTE venne a bussare alla mia porta, tu le hai ordinato di tornare un’altra volta, con un tono così gaio e strafottente che pensò di essersi sbagliata”.
La situazione è questa. Laurence Stern sta morendo di tisi e sa, perché frequenta i medici, come si muore di tisi: travolti, soffocati. Sa che finirà nella follia, nell'incoscienza, e mette Tristram nella sua stessa condizione. Tristram si trova in Inghilterra e si accorge che la morte lo sta inseguendo. Allora giura «Perbacco! La costringerò a una danza che neppure si immagina! Galopperò come un pazzo senza voltarmi mai indietro, fino alle rive della Garonna; e se la udirò strepitare alle mie calcagna le sfuggirò, a costo di arrampicarmi fino in cima al Vesuvio, e da lì fino a Giaffa e da Giaffa fino in capo al mondo». Tristram fugge a rotta di collo attraverso tutta la Francia e naturalmente, in questa Francia, incontra lo stesso paesaggio brumoso e un po’ crepuscolare che abbiamo trovato in Virgilio.
Tristram, generato sotto l'influsso dell'orologio, sa che la morte lo sta inseguendo. Sa di essere nato sotto la maledizione del tempo e di quel tempo astratto dell'orologio che la madre manda a ricaricare. Il tempo astratto che scivola verso la fine di Jünger. Il tempo astratto del califfo che ha condannato a morte Shahrazād. Al tempo, però, si può dare una forma, lo si può modellare. Tristram non vuole nascere. Costruisce un labirinto di digressioni per allungare una linea retta. Se la linea retta è il modo più breve per arrivare da un punto all'altro, se ne possono interpolare altre, fatte di narrazione, digressioni, ritardi. La nascita di Tristram, lo capiamo ora, è un capolavoro del rifiuto. Al tempo che scivola astratto verso la fine viene contrapposta un'altra legge, un altro tempo: quello della fantasia, che è un tempo concreto. È anche eterno? No, perché l'opera è digressiva, ma anche progressiva. Però è un tempo lunghissimo, e può essere prolungato. L'arte di narrare si rivela, quindi, un'arma difensiva, come lo scudo di Achille. Se per descrivere un giorno ci vuole un anno, allora scrivendo si influisce sul tempo.
C'è però un problema etico. Se il mondo reale è fragile e fuggevole, se la vita è separazione e le opinioni sono la morte, serve una strategia per difendersi. All'inizio questa strategia è la meccanica ripetizione, la fissità del carattere, l’hobby (lo zio Tobia e il suo passatempo dada: gli assedi simulati nel campo da bocce). Un’altra difesa è la maschera del clown. Tutto ciò suggerisce una reazione, ma ci vuole uno scarto in più, che troviamo nel settimo libro. Tristram sta viaggiando con un mulo che gli suggerisce un colpo di genio: «Perché farti inseguire dalla morte? girati e inseguila».
Tristram non lo sa, ma c'è un altro genio digressivo nel suo tempo, Jan Potocki, un nobile polacco che scrive in francese e racconta una storia spagnola. Il manoscritto trovato a Saragozza è un’altra concatenazione di storie, una dentro l’altra, un labirinto (meno labirintico rispetto al romanzo di Sterne, perché è solo narrativo e non sintattico e filosofico). Potocki, uomo d’arme e di cultura, illuminista vivace, avventuriero e poeta, si dedica a un misterioso hobby. Ogni sera lima il pomolo d’argento di una zuccheriera. Dopo ventidue anni, quando il pomolo raggiunge le dimensioni della canna della sua pistola, si spara in testa. Potocki ha invertito la corsa. Ha inseguito la morte. Come Tristram, ha capito che inseguendola poteva rallentarla, ritardarla. Tristram, appena sceglie di inseguire la morte, si ferma a conversare di teologia con due frati. Perde tempo. Poi incontra una ragazza che vende dei funghi e le dice che vuole comprarli insieme al cestino. Il cestino, però, lo vuole senza le foglie di ippocastano intrecciate lungo il bordo. Continua a perdere tempo e a rallentare. Rallenta e rallenta. Con la narrazione si può prendere in mano il proprio destino. Si può inseguire la morte. Potocki e Sterne dilatano il tempo. La dilatazione del tempo è l'arte di incatenare una storia all'altra, di saper scegliere un momento per interrompersi. È l'arte orientale di Shahrazād. È l'arte inaugurata da Omero con l'Iliade.
Ma alla fine si arriva alla resa dei conti, perché la storia è anche progressiva. In un paesaggio simile a quelli teocritei, con la stessa sfumatura cupa della sospensione virgiliana, sembra proprio che Tristram Shandy incontri la morte. Arriva a un ballo pastorale. L'arte dell'illuminista, come l'arte dello stoico, è andare danzando, in piedi, là dove comunque saresti trascinato piangendo. E Tristram la incarna. Il romanzo finisce qui:
Il sole era tramontato; hanno terminato il lavoro; le ninfe hanno sciolto i freschi capelli e gli innamorati si stanno preparando per la festa. Il mio mulo fece uno scarto. «Sono soltanto un piffero e un tamburino», lo rassicurai. «Ho una fifa da morire», mi rispose. «Vanno a raggiungere l’allegra brigata», aggiunsi, dandogli un buffetto. «Per San Boogar e per tutti i santi che stanno fuori della porta del purgatorio», esclamò (prendendo a un tratto la stessa risoluzione della badessa di Andouillets), «non muoverò più un passo». «Molto bene, amico», risposi. «Mi guarderò bene dall’avere discussioni con gente della tua razza, finché campo!» Così scesi di groppa e gettando con una pedata uno stivale in un fossato esclamai: «E ora mi darò alle danze; tu resta pure qui». Una figlia della fatica, abbronzata dal sole, si levò dal gruppo per venirmi incontro, mentre mi avviavo verso di loro; aveva i capelli color castano scuro, quasi neri, tutti legati in un nodo, tranne una gran ciocca. «Abbiamo bisogno di cavaliere» mi disse tenendomi le mani mentre io le offrivo le mie. «E avrete un cavaliere» esclamai stringendogliele. «O Nanette, se tu fossi ornata come una duchesse! Ma ahimè, che maledetto strappo nella tua sottana!» Nanette sembrava non badarci. «Non avremmo potuto fare a meno di voi» disse lasciando andare una mano con grazia istintiva e conducendomi con l’altra. Un giovanetto storpio che Apollo aveva ricompensato della disgrazia col dono di un flauto e che si accompagnava con un tamburello, suonò dolcemente i primi accordi, accovacciato su una panca. «Legami questa ciocca» disse Nanette mettendomi in mano una funicella. Con quel gesto voleva farmi scordare che ero un estraneo. Tutto quanto il nodo si sfece ….. pareva ci conoscessimo da sette anni. Il giovanetto accennò una nota sul tamburello, il flauto lo seguì e noi balzammo via felici. Che il diavolo si porti quello strappo! La sorella del ragazzo, che aveva rubato la sua voce dal cielo, cantava col fratello …. Era un ronde guascone. VIVA LA JOIA! FIDON LA TRISTESSA! Le ninfe cantarono all’unisono e i loro amanti un’ottava più sotto… Avrei dato una corona perché quello strappo fosse ricucito! Nanette non avrebbe dato neppure un soldo… Viva la joia! era sulle sue labbra. Viva la joia! era nei suoi occhi. Una fuggevole scintilla d’intesa brillò tra noi… mi sembrava adorabile. Perché non avrei potuto vivere qui fino alla fine dei miei giorni? «O giusto dispensatore delle nostre gioie e dei nostri dolori», gridai, «perché un uomo non potrebbe sedersi qui, in grembo alla gioia, e danzare, cantare, recitare le sue preghiere e andarsene in paradiso con questa fanciulla bruna come il castagno? Lei teneva il capo chino deliziosamente da un lato e danzava, leziosamente insidiosa….”.
Siamo alla resa dei conti. Ogni battaglia è stata combattuta, da Shahrazād, da Jünger, da Hašek, da Potocki. Abbiamo imparato una lezione. Il tempo di un uomo è destinato a esaurirsi come il tempo di una vicenda narrata. Ma lo si può moltiplicare, confondendolo, sovrapponendo altri tempi, cioè altre storie. Sulla pagina scritta si conquista la contemporaneità eterna del mito. Ecco perché Marcel Proust, chiuso nel bozzolo della sua notte, rielabora mille volte il suo incipit, finché non gli viene in mente un avverbio, longtemps: «Per molto tempo, mi son coricato presto la sera». È un paradosso fra spazio e tempo. Una frase che può essere pronunciata fuori dal tempo in virtù di un rapporto speciale stabilito con esso. Ma è un rapporto che è stato stabilito quattromila pagine dopo, una vita dopo. In più c’è un elemento di ambiguità. Il narratore non sa dov'è, non riconosce la stanza, si confonde con le altre stanze che ha abitato nella vita. Proust, intanto, domina la struttura e guarda. Il lettore, per raggiungere il suo punto di vista, deve costringersi a tutto il percorso che Marcel, prima di lui, ha compiuto nell'errore per arrivare a quel geniale e maledetto longtemps. È come se il narratore dicesse: «Dammi il tuo ultimo tempo, io lo ingombrerò di mura, di eroi, di principesse, di cavalli, di immagini e te lo restituirò come tuo e come concreto. Non come tempo astratto che scivola verso la morte».
Siamo alla fine. Melibeo è ancora lì, con il suo passo sospeso. Achille è già uscito dalla tenda. Marcel ha scritto il suo romanzo, ci sta portando attraverso le sue quattromila pagine, e Melibeo mette il piede a terra. Virgilio non ci dice quale sarà la sua scelta: non sappiamo se resterà o partirà verso l'ignoto. Ma Laurence Sterne ha un'ultima trovata. Entra nel romanzo:
«È tempo di por fine ai balli», esclamai. Così, cambiando compagni, io danzai da Lunel a Montpellier… da lì a Pezenas, a Beziers. Danzai attraverso tutta Narbonne, Carcassonne, fino al castello di Naudary e giunsi felicemente al padiglione di Perdrillo, dove su un foglio a righe nere potei procedere dritto, senza digressioni o parentesi, verso gli amori di zio Tobia. Ora comincio…
Tristram non muore più. Si è dimenticato di raccontare gli amori di suo zio Tobia e seguiranno altri due libri. Tristram è ancora vivo e credo che la principessa indiana si alzi in piedi ad applaudire.
"L’ho scritta [la dedica] in un angolo remoto di mondo, in una casetta di campagna, dove vivo nel continuo sforzo di difendermi dagli acciacchi di una salute cagionevole e dagli altri mali della vita; eppure sono di buon umore, avendo la ferma persuasione che ogni qualvolta un uomo sorride o, meglio ancora, ride, aggiunge qualcosa alla sua breve esistenza".