Arbasino tutto stile
Ma perché mi piace Arbasino? Non riesco a rispondere a questa domanda. Neanche ora che ho terminato di leggere Ritratti italiani, un libro in cui si fondono i tanti Arbasino che conosciamo: il narratore, il saggista, il giornalista. Ma un libro in cui ogni pagina è il frutto di ibridazioni stilistiche.
Quando Arbasino affronta snodi cruciali, come ad esempio lo stile “chiarificatore e nitido” di Moravia, il saggista si ricorda di essere romanziere, e dipinge un Moravia che cede alle sue manie come un personaggio dei suoi romanzi. Ma la prima pagina del libro, in cui sarebbe facile tirare fuori un romanzo dalla figura di Gianni Agnelli, il grande Gatsby del nostro Novecento, è invece una intricata mappa di riferimenti letterari e filosofici, da Giordano Bruno a Hemingway, da Castiglione a Calvino.
E la Loren? L’intervista alla Loren disegna un personaggio che non è certo l’attrice nazional-popolare di tanti film di successo. Si parla di Gide, Voltaire, dei racconti di Cechov, della Nausea di Sartre, di Fitzgerald… Sempre spiazzante e, si sarebbe detto qualche anno fa, straniante, Arbasino si diverte a ritrarre un’attrice che ha gusti raffinati e idee che soltanto Kubrick avrebbe potuto realizzare, come quella di un film da Moll Flanders. Poco prima, del sommo Contini si ricorda invece l’”indirizzo mitico”: Pian dei Giullari a Firenze, casa e giardino in cui Guicciardini prendeva il fresco… Come un abilissimo corniciaio, che sa modificare il senso e il valore di un quadro scegliendo, di volta in volta, una cornice leggera o sontuosa, Arbasino riesce a svelare il lato meno scontato di ogni personaggio.
In fin dei conti, l’impalcatura del libro, che è una dilatazione strutturale della figura retorica prediletta da Arbasino, l’enumerazione, è già una forma di mescidazione: Arbasino infatti sceglie di presentare i ritratti secondo l’ordine alfabetico, e così può capitare che Eco ed Einaudi si trovino vicini, o che dopo Longhi spunti la Loren… Strani abbinamenti, accoppiamenti poco giudiziosi, casuali accostamenti che l’autore non tenta neppure di evitare. Ma non si tratta di una mancata scelta o di una soluzione di comodo per risolvere un problema editoriale.
Lasciando che sia soltanto il cognome dei personaggi a decidere quale sarà la posizione del ritratto nel libro, Arbasino ci dice che non ci sono gerarchie, non c’è una cultura alta o bassa, non ci sono ordini, strutture, giudizi di valore da trasmettere. E può capitare che Gadda, a cui sono dedicate solo tre pagine, sembri quasi una figura di rincalzo…
Ritratti italiani è però anche un libro imprevedibile. Non credevo che Arbasino avesse così tanti ricordi e riflessioni su Pasolini, al quale dedica un ritratto molto originale e ricco di sfaccettature. Venticinque pagine che facilmente potrebbero essere dilatate e trasformarsi in un libro.
Venticinque pagine in cui Arbasino finisce per parlare di se stesso, e dell’opera di una vita, Fratelli d’Italia, scritta e riscritta fino all’ossessione, prendendo però spunto da Petrolio, forse lasciato incompiuto o forse, semplicemente, non compiuto (pp. 395-396). Non credevo neppure che Arbasino potesse rimpiangere di non essere stato più vicino a Tondelli, considerato uno dei tanti scrittori post-sessantottini e quindi tenuto a distanza soprattutto per motivi “generazionali”.
Come in quasi tutti i libri in cui Arbasino veste i panni del critico e del giornalista, Ritratti italiani è un libro che ci aiuta a riattraversare il Novecento con mappe dettagliate e spesso inedite. Ma, ed è la novità che, appunto, più sorprende, in Ritratti italiani ci sono anche molte pagine in cui Arbasino svela i suoi dubbi di scrittore, le sue fatiche, il suo difficile rapporto con il mondo letterario italiano.
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