Racconto che ne fui profeta / Così morì Airbnb
Airbnb ebbe vita breve. Pochi anni dopo la sua creazione fui testimone, mio malgrado, del suo lento e inesorabile declino. Ritrovati dei ricordi in un vecchio computer, ho deciso d’impiantarli su Triplozero.
Attorno al focolare domestico
Nel centro pedonale di un paesino svizzero, la padrona di casa affittava la camera del primogenito, partito a lavorare altrove. Mi accolse calorosamente, facendomi fare il giro dell’appartamento che si sviluppava su due livelli. Bastava dormire sul materasso e nella stanza del figlio per essere trattato con un occhio di riguardo. La sera m’intrattenni a lungo con i due bambini, seduto attorno al focolare e sorseggiando l’acidula kombucha fatta in casa di cui la signora mi lasciò la ricetta, non senza decantarne esageratamente le proprietà benefiche. Parlammo di viaggi in India, di trekking sulle montagne svizzere, di libri che l’altro avrebbe dovuto assolutamente leggere. Prima di andare a letto, i bambini mi diedero il bacio della buonanotte e quando partii la più piccola mi regalò un disegno: se il mio naso era gigante, più grande del corpo, in compenso indossavo un bellissimo vestito screziato da cavaliere della tavola rotonda.
Tornato a Parigi, la signora si premurò di scrivermi sul mio account per chiedermi se il viaggio era andato bene e quale era il nome di quell’artista di cui le parlavo (quale? ne avevamo menzionati una dozzina). Restammo in contatto sulle reti sociali di allora, dove ci scambiavamo like ed emoji di simpatia. Rimpiango solo di non esser più riuscito a tornare in quella regione ridente.
Leggere attentamente le istruzioni
In un anonimo quartiere residenziale de L’Aia suonai al citofono. Causa ritardo del treno, mi presentavo dopo cena. Il padrone di casa era in salone a guardare la tivù. Mentre formulavo scuse per l’ora tarda, con pochi convenevoli mi mostrò la mia camera e la mia sala da bagno. Non feci in tempo a formulare una domanda che mi mise tra le mani un foglio stampato dove, come puntualizzò, c’era scritto tutto quello che un guest voleva sapere. Tornò in salone e senza girarsi disse che per qualsiasi cosa lui era là. Scorsi il foglio. C’era in effetti tutto quello che volevo sapere: la password per la connessione internet, i ristoranti e i supermercati del quartiere, il cestino dove lasciare le lenzuola e l’asciugamano sporchi, la regolazione dell’aria condizionata, la funzione delle tre chiavi del palazzo. E altre regole di base per il quieto vivere. Un host premuroso. “Enjoy your stay!!” recitava l’ultima riga, in cui i due punti esclamativi (perché due? e non uno o tre?) tradivano una mancanza di spontaneità.
Già, pensai, immagina tu a dover ripetere le stesse cose ogni volta che uno sconosciuto bussa alla tua porta. Già, un’altra parte della mia mente discorsiva ribatté, ma allora perché mettersi su Airbnb? tanto vale affittare la camera a lungo termine, no? La mattina il proprietario uscì prima di me. Sentì che ero già sveglio e dall’uscio buttò un “Goodbye Rikardo, I have to go”. La porta si chiuse con un gran fracasso. In quell’istante realizzai che non gli avevo chiesto dove erano le cialde per il caffè. Allungai un braccio e presi le istruzioni sul comodino. In effetti avevo sorvolato il punto 23, in cui erano dettagliati i colori delle cialde – verde, blu, rossa – e i vari tipi di caffè: forte, leggero, decaffeinato e quello caramellato, su cui cadde la mia scelta.
L’agenzia immobiliare e i suoi avatar
Trovai l’annuncio di un appartamento da sogno ad Amsterdam gestito da una coppia. Le foto e la descrizione erano accattivanti: nel salone s’intravedeva una collezione di dischi e una chitarra elettrica; lui era designer lei attrice, di due nazionalità diverse; il quartiere era storico ma non troppo centrale, calmo ma pieno di caffè. Il prezzo più alto della media, giustificato dal valore aggiunto delle condizioni speciali. Prenotai.
“Quando arriverai sarò già via”, mi scrisse, lasciandomi un indirizzo dove recuperare le chiavi. Non era praticissimo, voleva dire spostarsi con le valigie in due quartieri diversi ma almeno, pensai, vedrò il suo studio di design, che immaginavo come una gremita start-up piena di hipsters con le cuffie, indaffarati davanti ai loro schermi. Mi ritrovai invece in una scialba agenzia immobiliare dove l’impiegato coi capelli impomatati e una camicia bianca di una taglia di troppo mi chiese, in perfetto inglese, il numero di prenotazione. Prelevò una busta bianca sigillata tra la trentina allineate sul tavolo. Stampò il percorso da googlemaps, che ricalcò con una penna stilografica.
Quest’agenzia aveva in mano decine di appartamenti, i cui proprietari non avevano il tempo o la voglia di occuparsene. Scoprii in seguito che il mio era uno dei rari casi in cui il proprietario vi abitava; gli altri, in genere, erano vuoti come camere d’albergo. E soprattutto realizzai che l’agenzia, che aveva accesso al profilo del designer, gestiva anche i messaggi che ci eravamo scambiati. Mi sentii un po’ tradito. Lei non la incontrai mai, lui lo intravidi una sera quando, di corsa, stava uscendo. Dispiaciuto di non aver tempo da dedicarmi neanche per i convenevoli, m’indicò un posto dove fare colazione. E io diligentemente, per stabilire una minima connessione con lui, feci colazione proprio là, contento di non incontrarvi alcun italiano.
Discrezione, disse lei
Un monolocale, piccolo ma confortevole, vicino la stazione di Rennes. I commenti erano globalmente positivi, si somigliavano tutti, quelli tradotti da altre lingue erano insensate insalate di parole. La foto della padrona di casa appena percepibile, coperta dal muso di un gatto persiano che mi fece subito simpatia. Alla stazione ricevetti un suo (della padrona) messaggio: si scusava che non poteva accogliermi. Tuttavia dettagliò le informazioni necessarie per entrare in casa, che seguii alla lettera. Riconobbi il portone dalla foto inviata, composi il codice dell’immobile, individuai la cassetta della posta socchiusa, trovai sotto la pubblicità del supermercato la busta con le chiavi, attraversai il cortile, presi la scala C, salii al terzo piano, contai la quarta porta. Le cose erano andate sin troppo bene.
Uno, due, tre… là tentennai: ma la porta delle scale e quella della spazzatura contavano? Le porte non avevano né nome né numero. Cercai la luce ma era un campanello. La luce del pianerottolo era fulminata. Usai quella dell’ascensore per orientarmi nel lungo corridoio. Infilai la chiave nella toppa sbagliata, che provocò dei latrati di un cane. Passai alla successiva sperando che la chiave entrasse. Entrò.
Il letto pieno di cuscini, le pareti spoglie, la televisione incastrata in un angolo del muro come il quadrato nero di Malevich, un portariviste con brochure turistiche su Rennes del 2013. Avevo dimenticato lo shampoo ma in bagno c’era a malapena il sapone. Chiamai la proprietaria che mi dettò per telefono il lunghissimo codice internet. A causa del segnale debole e del suo accento francese esitante che bofonchiava lettere e numeri, mi ritrovai con diverse versioni della password. Tutte possibili, tutte improbabili. Prima di attaccare mi ricordò che il check-out era alle 10 in punto, anzi qualche minuto prima, perché a quell’ora sarebbe arrivata la donna delle pulizie. Mi chiese di rimettere le chiavi nella cassetta della posta e di seppellirla per bene sotto la pubblicità. “Sia discreto, mi raccomando”, mi apostrofò secca, abbandonando le esitazioni precedenti della sua voce. Il giorno dopo ricevetti l’annuncio di Airbnb per scrivere la recensione. Copiai e incollai quella del cliente precedente.
Non oltrepassare quella porta
Gli annunci su Aarhus erano tanti e allettanti, ma quella camera vicino al museo dove si teneva la conferenza era la più pratica. Esitavo perché non c’era neanche un commento, la descrizione era stringata e solo in danese, le foto scattate di notte col flash, lo spazio vuoto come se non ci vivesse anima viva, il tasso di risposta ai minimi storici. Con un clic mi assicurai un letto e ci misi una pietra sopra. Finché la ragazza mi contattò chiedendomi se potevo portare le lenzuola. “Viaggio in aereo, vorrebbe dire mezzo bagaglio a mano”, risposi cortesemente. Silenzio. Dopo due giorni: “Va bene”, disse, “ma almeno puoi portare l’asciugamano?” Mi fece sorridere ma in realtà cominciavo a preoccuparmi: non è che questo profilo è un fake? dov’è il contatto del Team Assistenza Clienti? Eppure risulta “verified”. “Ma poi come faccio a rimetterlo tutto bagnato in valigia?”, buttai lì. Quando ricevetti una terza mail, il giorno prima la partenza, ero pronto a tutto: “Ehi, metti un rotolo di carta igienica nel bagaglio a mano se non vuoi pulirti il culo con le mani”. In realtà era solo per avvertirmi che le chiavi erano sotto lo zerbino e che lei non ci sarebbe stata.
Una porta dell’appartamento era in effetti chiusa con un lucchetto a quattro cifre. La sua camera, dedussi. Come in quelle ville in cui si può entrare ovunque tranne che in quella camera. E quella camera comincia a popolarsi dei fantasmi della tua mente – e la mente produce mostri. Di notte mi alzai per far pipì, orientandomi con la luce che filtrava da fuori. Passai davanti a quella porta e allungai il passo, come se qualcuno – come se qualcosa – potesse afferrarmi e inghiottirmi in un buco nero.
Tutto sommato preferivo stare da solo. Ripensai a quell’appartamento in Iowa in cui m’illudevo di essere l’unico inquilino finché il terzo giorno incrociai un tipo in cucina, il coinquilino della proprietaria, che si prese un bello spavento: “non sapevo che saresti venuto”, precisò con uno sguardo circospetto che mi fece sentire in colpa. La sera, mentre mi preparavo un tè, lo sentii chiudersi a chiave in camera sua – non si sa mai. Non mi sentivo a mio agio a restare in cucina, così rientrai in camera e, già che c’ero, mi chiusi dentro pure io. Così, per dispetto. Tiè. “L’affidabilità è la chiave”, recitava il sito di Airbnb.
Sulla via di casa costeggiavo un hotel, il cui bar-ristorante illuminava il marciapiede. Dietro le ampie porte-finestre ornate di piante rampicanti gruppuscoli internazionali parlavano e leggevano, scandinave scese dal cielo ridevano e bevevano. Chissà se il bar era riservato ai clienti dell’hotel o se potevo venire qui a colazione, per l’aperitivo o il dopocena. Non osai chiederlo all’usciere che, vedendomi passare almeno due volte al giorno, prese a salutarmi con un enfatico: “Hello Mister”.
Prima di lasciare Aarhus volevo lasciare un messaggio succinto di ringraziamenti. “Thanks…”, oddio come si chiamava la tipa, un nome con tante consonanti, non ricordo, avrei dovuto prendere il computer ma andavo di corsa. Avrei potuto lasciare il messaggio così, Thanks. Ma avevo messo un punto dopo “Thanks” – thanks period, non era elegante. Grazie… Cosa. Alla fine optai per il punto esclamativo, “Thanks!”.
Feci un’ultima veloce ricognizione per assicurarmi di aver recuperato tutti i miei effetti personali. Mi cadde l’occhio sul lucchetto: le quattro cifre erano cambiate, ne ero certo. La sequenza era progressiva con parecchi numeri pari, adesso erano dispari e in ordine sparso. Segno che durante il giorno – o la notte – qualcuno era passato? Non lo seppi mai. Fui attraversato da un brivido freddo. Uscii di corsa dall’appartamento e dalla mia bocca eruppe un inappellabile “AIRBNB È MORTO”. La storia dimostrò quanto fui allora profeta.