Cronache da una tribù
Allievo brillante di Claude Lévi-Strauss, Pierre Clastres (1934-1977) pur nella sua breve vita è stata una figura senza dubbio originale e fondamentale nel mondo dell’antropologia. Specializzatosi nello studio di popolazioni amerinde, ha abbandonato fin dall’inizio ogni pretesa di oggettività, applicando una lettura politica al suo fare antropologia. Non a caso aveva scelto il continente sudamericano come terreno, teatro di grandi esercizi di sfruttamento e di genocidi.
Siamo negli anni Sessanta, quelli delle grandi indipendenze e delle grandi speranze, in cui i Paesi dell’Occidente sviluppato entrano in un periodo quanto mai favorevole, con una notevole distribuzione delle ricchezze e il consolidarsi della società dei consumi. La spedizione di Clastres in Paraguay segna una grande differenza rispetto a quanto sta accadendo nel mondo. La tribù Guayaki presso cui svolge la sua ricerca, sembra quasi opporsi a quel modello di sviluppo, di qui il celebre titolo di un altro libro di Clastres La società contro lo stato.
In Cronache da una tribù Clastres si pone la domanda di come possa vivere una società “primitiva” (oggi, in epoca di politically correct suona strano, ma in quegli anni i termini primitivo e selvaggio erano comunemente usati dagli antropologi, senza però connotazioni negative) senza Stato, senza leggi e senza doveri civici. Come si costituiscono la politica e l'economia di una tribù? Come si svolge la loro vita sociale?
È con un linguaggio assolutamente letterario, degno di un gran romanziere, che Clastres ci accompagna all’interno dei villaggi, con descrizioni che, a differenza di altri suoi colleghi, non cadono mai in un arido resoconto, ma restituiscono tutto il calore e la vita della gente che lo circonda. Un particolare, che fa da sfondo all’intero racconto è il particolare rapporto che i Guayaki hanno con l’ambiente naturale, che per loro «non è un puro spazio neutro, ma il prolungamento vivente dell’universo umano». In un’epoca in cui abbiamo compreso di non essere più in buoni rapporti con l’ambiente, è una lezione da non lasciare cadere. Allo stesso tempo Clastres, pur lasciando trasparire una certa nostalgia per il primitivismo, non cade nella trappola della mitizzazione del buon selvaggio in piena armonia con la natura. Un uomo, se non caccia e uccide prede, secondo i Guayaki, regredisce allo stato animale. Pertanto, deve uccidere.
Il libro si apre con la descrizione della venuta al mondo di un neonato – fatto quanto mai raro, in una popolazione sempre meno prolifica – con tutti gli aspetti rituali che accompagnano un simile evento, che rappresenta anche un momento di forte socializzazione tra famiglie un tempo nemiche, ma ora riunite per sopravvivere ai cambiamenti. Il racconto prosegue con le vicende della storia recente per cui due tribù rivali si sono alleate a causa della sempre maggiore invadenza dei bianchi, nel distruggere la foresta e nello sterminare o rendere schiavo chi vi si opponeva. Di qui la riflessione sul genocidio perpetrato ai danni dei nativi, in nome di un modello di sviluppo che richiede sempre maggiori risorse. Emerge il Clastres libertario, militante, che non teme di schierarsi a favore dei più deboli.
Lungi dal dipingere la foresta come un Eden tropicale, l’autore elenca le numerose guerre tra le diverse tribù, spesso sfociate in episodi violenti, per poi spiegare la loro organizzazione politica, in cui il capo non ha un’autorità basata sulla forza, ma deve convincere con i suoi discorsi il suo popolo. Deve sapere parlare, è un suo dovere. È per questo che è capo. La sua è un’autorevolezza, che ottiene con la capacità di persuasione. I Guayaki sono cacciatori-raccoglitori, con una divisione del lavoro basata sul genere, tipica di queste società. Gli uomini praticano la caccia e devono essere iniziati a questa attività, con rituali che prevedono prove di sopportazione del dolore. Essere cacciatore offre molte opportunità, come il diritto a partecipare alla politica della comunità o al matrimonio. Anche le donne sono convolte in riti iniziatici, per aumentare il loro grado di erotismo e di sessualità. Interessante anche l’importanza del miele, in quanto i Guayaki vedono nell’alveare una metafora della società: ogni alveare è una tribù, segno che non servono molte tribù per fare una società, ne basta una. E la festa del miele riunisce tutti i componenti della tribù.
Clastres nota che non ci sono molte donne, perché talvolta le donne vengono uccise quando sono troppo vecchie. Se un cacciatore maschio muore o viene ucciso, allora viene uccisa anche una donna della tribù per ristabilire un pareggio. Appena muore un uomo, muore anche una donna per alleviare il dolore della prima perdita o per vendetta. Questo rito è valido anche per i bambini. Se un bambino muore, anche sua sorella verrà uccisa. Può sembrare paradossale, ma questi atti di vendetta riportano la calma nel campo.
Non poteva mancare un capitolo sul cannibalismo, in cui l’autore sottolinea come il cannibale sia sempre l’Altro, il nemico, un ottimo modo per pensare noi come buoni e l’altro come disumano e fuori da ogni regola. Così i Guayaki sono stati definiti cannibali dai bianchi, per demonizzarli come nemici. Tra i personaggi del villaggio c’è anche un cacciatore maledetto, che per questo non può più cacciare e svolge compiti assegnati alle donne, per cui viene deriso dagli altri.
Una certa tristezza accompagna la lettura dell’ultimo capitolo, significativamente intitolalo La fine, in cui l’autore spiega con amarezza la progressiva scomparsa dei Guayaki. I membri della tribù muoiono di malattie, la caccia non è più redditizia come un tempo, gli animali della foresta scompaiono a causa dell’azione dell’uomo bianco, che occupa sempre più territori, la fame incombe. Nell’annunciare la fine di questo popolo Clastres denuncia la società occidentale, che distrugge le popolazioni indigene alla ricerca del profitto. Il libro termina con il discorso del capo dei Guayaki, che rimpiange i tempi passati.