Cronenberg raggelato alla Fondazione Prada
L’occasione di vedere (o rivedere) parte della collezione di cere anatomiche del Museo della Specola di Firenze è ghiotta. Per la mostra Cere anatomiche presso la Fondazione Prada di Milano ne è stato selezionato un nucleo di grande valore storico, che comprende quattro Veneri e nove cere dedicate alla gestazione. Proseguendo nel solco dell’esperienza di Il sarcofago di Spitzmaus e altri racconti, progetto espositivo del 2019 a cura di Wes Anderson e Juman Malouf, nonché delle mostre Human Brains, dedicata alle neuroscienze, e Useless Bodies?, firmata dal duo Elmgreen & Dragset, la Fondazione coinvolge un altro nome di rilievo del cinema, David Cronenberg, regista che più di tutti ha indagato con passione da anatomista il tema del corpo e lo sguardo nella sua accezione necrofila.
La scelta di un nome come quello di Cronenberg, capofila indiscusso del body horror, sembra voler dare risonanza a un’esposizione che sulla carta avrebbe potuto rimanere una curiosità da wunderkammer: in questo caso è d’obbligo il condizionale, essendo le cere anatomiche in grado di raccogliere l’interesse di un pubblico trasversale e non solo l’oggetto d’interesse di una nicchia di specialisti (come dimostra Encyclopaedia Anatomica, il corposo volume edito da Taschen e disponibile sul mercato già da diversi anni, dedicato proprio alla collezione). La scelta di Cronenberg quale guest star della mostra appare quindi motivata dalla volontà di aggiungere un elemento immaginifico e pop a dei manufatti tutt’oggi carichi di meraviglia, ma che necessitano di un inquadramento storico rigoroso per essere apprezzati pienamente.
La mostra è parte di un percorso più ampio attraverso il quale la Fondazione si propone di ospitare le collezioni storiche di musei che possano entrare in dialogo con l’ipercontemporaneità. Presupposto stimolante, che coglie al volo l'opportunità di un prestito eccezionale dalla Specola, parte del Museo di Storia Naturale e del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Firenze, uno dei musei scientifici più antichi d’Europa, attualmente chiusa per lavori di restauro.
Inaugurato nel 1775 per volere di Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena (e con i proventi della vendita di oggetti medicei), che riunisce tutte le collezioni scientifiche delle gallerie granducali in un’unica sede, L’Imperial Regio Museo di Fisica e Storia Naturale diviene ben presto, per tutti, La Specola. Diretta da Felice Fontana, fisiologo, chimico, anatomista e già professore di logica presso l’Università di Pisa, la Specola vede l’officina ceroplastica già attiva a partire dal 1771 e fino alla seconda metà dell’800: nel corso del tempo, raccoglie la più importante collezione di cere anatomiche settecentesche, tra cui cinque rare opere del maestro siracusano Gaetano Zumbo, che si inscrivono in un totale di circa mille e quattrocento cere complessive.
Prodigio illuministico, la ceroplastica anatomica si diffonde durante tutto il Settecento e l’Ottocento grazie all’abilità di maestri modellatori come il precursore bolognese Ercole Lelli, Giovanni Manzolini (che lavora con la moglie Anna Morandi), Giuseppe Ferrini, lo Zumbo, il fiorentino Clemente Susini, Francesco e Carlo Calenzuoli, Luigi Calamai e altri ancora. Sospesa tra la necessità didattica dello strumento scientifico e la raffinatezza dell’opera d’arte, mondana e religiosa, la ceroplastica si sviluppa per sopperire al bisogno di preparati anatomici in un’epoca nella quale l’utilizzo di cadaveri ai fini scientifici risulta ancora difficoltosa per ragioni prettamente igieniche. Non che l’utilizzo della cera in ambito artistico non fosse già ampiamente diffuso: la realizzazione di figure votive nella Grecia e nella cultura etrusca è assodata, così come la produzione di maschere funerarie è pratica già ampiamente presente nell’arte romana e di lì a seguire, grazie alla natura mimetica di un materiale in grado di riprodurre come nessun altro la consistenza e i colori della carne. Il Cinquecento è poi il secolo di massimo splendore della ceroplastica, quando oltre al costume riprodurre le figure dei nobili defunti, da utilizzate durante le cerimonie funebri, diventa pratica comune l’ostensione dei “boti”, ex-voto che riproducono corpi interi oppure mani, piedi, arti, talvolta appesi con delle funi alle travi dei soffitti e tanti da riempire intere chiese. Due esempi che valgono per tutti sono Orsanmichele e soprattutto la S.S. Annunziata di Firenze, letteralmente colma di boti, nella città che per lungo tempo detiene il primato quale centro di maggior importanza della produzione di preparati in cera.
La storia della ceroplastica si perde nella notte dei tempi, e da sempre la capacità di una materia così duttile di dare forma a rappresentazioni estremamente realistiche trova applicazione ideale nell’ambito dei riti funebri. Grazie alla capacità di sembrare ciò che non è, la cera evoca il feticcio, il corpo morto e l’automa, e la sua versatilità trova la propria epitome nel museo delle cere, grande attrazione popolare fino all’avvento della fotografia, luogo da sempre in grado di inquietare i visitatori. Vero è che oggi, in un modo che mai si era verificato prima, la morte è stata espunta dalla realtà quotidiana tanto da risultare scioccante o essere fonte di disagio e spavento per chi si trova a farne anche solo esperienza visiva. Non così per un cittadino del passato: almeno fino al Seicento era esperienza comune la visione dei cadaveri, e con la morte esisteva una relazione di familiarità. La tanatofobia arriva dopo, nel secolo dei Lumi e degli editti cimiteriali napoleonici, per poi rovesciarsi in morbosa attrazione nell’Ottocento gotico e sepolcrale, e trovare una nuova forma ancora nel nostro contemporaneo che corteggia suggestioni transumaniste. Possiamo quindi affermare che certe visioni mettano più a disagio uno spettatore contemporaneo rispetto a un nostro avo, e che ragionare sulle cere anatomiche fuori dal loro scopo precipuo – l’essere strumenti di e per la scienza, in un periodo in cui per assistere alle dissezioni nel teatro anatomico si pagava un regolare biglietto e l’anatomia diventava una materia di studio in gran voga ma anche un intrattenimento popolare – ci condurrebbe giocoforza a intraprendere una lunga disamina antropologica, estetica e filosofica sul rapporto tra l’uomo e la morte negli ultimi dieci secoli. (Si vedano al riguardo Storia della morte in Occidente di Philippe Ariès, Rizzoli, 1998, e Il Grande Libro della morte. Miti e riti dalla preistoria ai cyborg. di Ines Testoni, Il Saggiatore, 2021.)
Se c’è stato un tempo lontano in cui l’effige in cera è stato simbolo di bellezza, da un certo punto in poi quello che l’arte dei ceraioli ci ha restituito è piuttosto quell’ambiguità che Gombrich focalizza in un celebre passaggio di Arte e illusione: «spesso ci mette a disagio col suo esorbitare dai limiti della rappresentazione simbolica». Tale ambiguità aleggia anche nella sala della Fondazione Prada dove trovano spazio le quattro figure intere tra cui la cosiddetta “Veneri de’ Medici” (ispirata alla Venere ellenistica visibile agli Uffizi, nel calembour del nome richiama sia la famiglia fiorentina sia il suo appartenere all’ambito scientifico) in assoluto tra i pezzi più importanti della collezione, oltre alle nove sezioni dei parti e alle settantadue copie di disegni anatomici a fini espositivi. Le “venerine”, adagiate su morbidi giacigli adornati con passamanerie preziose, hanno un incarnato roseo, un’espressione serena e lieve, hanno lunghi capelli (veri) serici e perfino una collana di perle (posta per nascondere un punto di congiunzione delle parti mobili, ma forse anche quale iconografia di vanità). Fanno così mostra di sé e dei propri organi interni, quasi come delle sante in preda al deliquio divino. La delicatezza della figura disassemblata e la leggiadria complessiva corrispondono al preciso intento di non riprodurre le espressioni di dolore o di spavento di un corpo agonizzante.
Questa bizzarra forma di bellezza e l’idea di estasi legata a un corpo sezionato ha colpito Cronenberg, che proprio in Crimes of the Future mette in scena la chirurgia estrema come nuova forma della sessualità e la dissezione del corpo vivente come pratica sessuale. Il film è un melodramma esiziale che ruota attorno al tema del corpo e dell’arte: il lavoro artistico, performativo, su un corpo morto e su un corpo in transizione, che produce nuovi organi senza una reale funzione, organi “estetici”, l’affermazione di un canone di bellezza del tutto alternativo, il culto della carne che nasconde in sé ancora dei misteri da svelare e delle possibilità che restituiscono un senso inedito a una visione ultramaterialista dell’esistenza.
Quella bellezza che non è interiore ma interna, non viscerale ma delle viscere, Cronenberg la ritrova nei pezzi anatomici e nelle Veneri squadernate della Specola. Il suo sguardo, e il nostro di spettatori, fruga negli anfratti anatomici, muovendosi tra il disgusto e l’incanto, tra una dichiarata distanza analitica e una sottesa eccitazione scopica (verrebbe da dire sadica, che infatti il Divin Marchese, dalle fonti, risulta essere stato spettatore entusiasta delle cere fiorentine e dei teatrini della peste dello Zumbo).
I feti, i genitali, gli organi sono adagiati nelle teche originali fatte di legno di rosa, e offerte allo sguardo dello spettatore in un sottile equilibrio tra leziosità e orrore. L’allestimento curato dal Random Studio pone le figure in modo che chi guarda sia obbligato a mantenere una distanza minima dalle opere stesse, delimitate da una linea gialla sul pavimento, distanza che non permette la visione ottimale né dell’opera, né dei disegni, e che sembra voler proteggere più lo spettatore che l’opera stessa da un eccesso di visione. La scelta allestitiva di utilizzare delle luci che degradano fino a spegnersi e viceversa lascia perplessi: si predilige la creazione di un’atmosfera “palpitante” e d’effetto, che impedisce però una fruizione ottimale dei lavori, i quali invece necessiterebbero di un’illuminazione scientifica, capace di restituire la straordinaria perizia tecnica e il gusto per il dettaglio che caratterizza ogni pezzo.
Purtroppo, la sala delle cere anatomiche è anticipata nel percorso da un teatro nel Podium dove è proiettato il cortometraggio realizzato da Cronenberg, intitolato Our Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection (Quattro donne mai amate, alla deriva su un mare senza scopo, sperimentano l’estasi della dissezione). Nel video, le quattro figure sono adagiate su dei materassini e galleggiano sull’acqua di un mare indefinito, tra gemiti di piacere e movimenti di macchina che indugiano sulla lucida superficie corporea. Evidentemente il regista deve aver pensato all’estasi delle sante trasverberate, a certe dame e giovinette scolpite in deliziosa agonia, e a una bellezza carnale che attiene precipuamente al porno, ma l’unica cosa sconcertante del video sembra essere l’effetto kitsch che riduce le povere Veneri a quattro bambole gonfiabili in una piscina posticcia.
È un fatto che Cronenberg sia sempre in bilico tra maestosità e ridicolo, tra vertigini filmiche e noia, tra “sporcizia visiva” e intuizioni quasi profetiche sul futuro dell’umanità. Ossessionato da un ganglio concettuale che si inerpica attorno al tema del corpo, e si dirama attraverso la chirurgia estrema, la trasformazione della carne, la mostruosità, il piacere erotico e/o sessuale correlato all’evoluzione della carne, la morte violenta come viatico per il piacere, la malattia come opportunità di evoluzione, la tecnologia come veicolo per la scoperta di potenzialità inespresse della materia, tutto ciò lo ha reso sulla carta un interlocutore ideale rispetto ai temi della mostra, ma spiace rilevare che la sua ossessione d’auteur qui conduca in un cul de sac dall’esito semplicemente imbarazzante. Un autore anti-ideologico, anarchico, che anche in virtù della sua refrattarietà a essere irregimentato in tendenze di qualsivoglia natura o stagione è stato ed è capace di perturbare lo spettatore come pochi altri, ma che in occasione della mostra alla Fondazione Prada realizza un cortometraggio deludente, pur avendo chiari punti di contatto con la sua ultima opera filmica – opera questa invece davvero in fuga in avanti, struggente e così piena di autorimandi da risultare autoptica.
Nel catalogo Claudia Corti, la curatrice della collezione presso il Museo di Storia Naturale di Firenze, in relazione alla domanda di come potrebbero venire percepiti i modelli della Specola nello spazio espositivo di Prada, afferma (forse presagendo la traiettoria della mostra): «Mi auguro che saranno percepiti secondo l’intento dei loro artefici, che hanno voluto questa collezione per promuovere conoscenza e non per comunicare disagio o morbosità.» Una prospettiva disattesa, dove l’intreccio strabiliante tra pratica artistica e scientifica che s’incarna nella ceroplastica settecentesca rimane in secondo piano, a favore di una messa in scena che flirta con l’horror e i b-movie, senza farne propria però la radicalità dei presupposti. Tra spettacolo e didattica, la mostra sceglie la prima strada ma senza vero coraggio, in un intrattenimento che si apparecchia con vesti di lusso per sterilizzare tutto ciò che è purulento e informe. Nel perseguire una certa pruriginosità, un certo gusto per il grand guignol, non è poi così dissimile dagli spettacoli dei dissettori che facevano pagare un biglietto al pubblico per assistere alle autopsie nei teatri anatomici, e neppure dal freak dead show dei corpi plastinati di Gunther Von Hagens. Certo, qui lo spettatore non è esposto allo scandalo della carne e delle sue miserie (e sublimi bellezze), qui “il tranquillizzante artificiale prendeva il posto dell’inquietante nature”, per citare Francesco Paolo De Ceglia; i fictores ci restituiscono la vertigine dello sguardo che si spinge dove non si può osare, lo sguardo del medico e del macellaio, e ce lo offrono filtrato da tutte le scorie organiche. Penetriamo dentro Venere fingendo un distacco che è doppia menzogna: se già in origine queste figure di cera appaiono sospese in una irrisolvibile condizione di liminalità tra piacere e orrore che la destinazione scientifica tenta di emendare, perché oggi mettere in scena una mostra raggelata, in cui dissimulare la componente erotica/orrorifica per poi perseguirla nel risultato? Ecco, forse in questa ipocrisia risiede il peccato imperdonabile di un’esposizione che avrebbe potuto essere straordinaria ed è, invece, solo anestetizzata.
David Cronenberg ph. Flavio Pescatori.
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