Determinati o liberi?
Nel secolo scorso, tra gli studenti dei college statunitensi, ha circolato a lungo una storiella con protagonista W. James: si raccontava che, dopo una lezione sull’origine della vita e sulla natura dell’universo, una signora anziana presente in aula avesse avvicinato il professore, esprimendo alcune rimostranze: “Professor James, quel che Lei ha descritto è tutto sbagliato”. Invitata ad argomentare, la signora avrebbe aggiunto: “Le cose non stanno affatto come ha appena detto, perché il mondo giace sul dorso di una gigantesca tartaruga”. James avrebbe allora cercato di replicare con cautela: “Potrebbe anche darsi, gentile signora; tuttavia, occorrerebbe stabilire su che cosa poggi la tartaruga: se poggiasse su un’altra tartaruga, si innescherebbe un regresso di rettili alquanto illogico…”. Al che l’anziana signora, interrompendo l’insigne accademico, avrebbe invece concluso in maniera brusca: “Eviti di insistere, professor James: ci sono tartarughe all’infinito!”.
Lo scambio immaginario tra James e la signora anziana (una rielaborazione in chiave ironica del problema noto come “turtles all the way down”, preso in esame da numerosi filosofi e logici a partire dal Settecento) intendeva alludere scherzosamente al dialogo sterile tra i sordi sostenitori di dottrine opposte: riducendo la realtà a una serie di tartarughe, sarebbe più ragionevole individuare una tartaruga prima o ultima che non poggia su niente ma che sorregge tutte le altre, oppure concedere un regresso di tartarughe all’infinito?
R. Sapolsky, nel suo ultimo libro (Determinati, tr. it. di M. Simone e R. Voi, Macerata-Milano 2024), non ha alcun dubbio: le obiezioni dell’anziana signora sono legittime. Non ci sono tartarughe sospese sul vuoto, generate eventualmente dall’atto libero di un creatore; la realtà del mondo che ci circonda si presenta come un «tartarughismo» continuo e privo di iati: «La scienza che studia i comportamenti degli esseri umani mostra che le tartarughe non possono fluttuare nell’aria: c’è davvero una sequenza di tartarughe che si dispiega all’infinito» (p. 8).
Da qui, la tesi principale di Determinati: l’essere umano, non essendo creato liberamente da un Dio a propria immagine e somiglianza, risulta sprovvisto del libero arbitrio. Se l’esperienza assume un andamento continuo e deterministico, cioè, risulta implausibile individuare un punto entro cui insinuare un atto decisionale che ne inverta il decorso: «L’assurdità nel bel mezzo di questo continuum è pensare che disponiamo del libero arbitrio, e che esista perché, in qualche momento, lo stato del mondo che è venuto prima di un altro è occorso a partire dal nulla» (p. 109).
Per le stesse ragioni, occorre prendere atto dell’imponderabilità della ‘coscienza’, intesa come entità autonoma, in se stessa unitaria, in grado di condizionare l’ordine degli eventi: essa si rivela «un dettaglio irrilevante» (p. 47).
Le argomentazioni esposte in Determinati muovono da un presupposto radicalmente riduzionista e fisicalista: Sapolsky assume che le neuroscienze attestino l’impossibilità di individuare un neurone che si sottragga alla continuità dell’esperienza psichica. Ogni azione individuale, difatti, risulta pre-determinata, ché la sua decisione matura lentamente e inconsapevolmente: allorché la consapevolezza subentra, «il “dado neurobiologico” è già stato tratto» (p. 37).
Questo è peraltro quanto dimostra il cosiddetto “effetto Libet” (esperimento che prende il nome dello scienziato che lo realizzò), che accerta l’impossibilità effettiva, per l’essere umano, di una libera scelta tra alternative: «I neuroni responsabili della scelta della mano con cui premete uno dei due pulsanti si attivano prima che voi abbiate consapevolezza della vostra decisione» (p. 32). Risulta per ciò stesso legittima la ricostruzione e determinazione il processo causale che ha indotto un certo comportamento: «Il comportamento si è manifestato perché qualcosa, che l’ha preceduto, l’ha determinato. E perche si è verificata quella circostanza antecedente? Perché qualcosa che la precedeva, a sua volta, l’ha causata […] Giammai c’è una tartaruga fluttuante, né un particolare fatto che non consegua da un altro» (p. 9).
Neppure le più recenti istanze della fisica quantistica, si legge ancora in Determinati, sdoganano l’ipotesi del libero arbitrio, né smentiscono l’irrefragabilità del determinismo: esse si limitano a individuare l’esistenza del caos, ovvero di una porzione di realtà non immediatamente determinabile (secondo gli attuali parametri osservativi) ma non di per sé indeterminata: «Sebbene il caos sia imprevedibile, è comunque determinato» (p. 190). La medesima complessità emergente del caos, rileva inoltre Sapolsky, tende progressivamente ad assumere un ordinamento stabile – più o meno usuale o in linea con le aspettative delle nostre previsioni, ma comunque determinato, e quindi “necessario”: esistono «regole che vengono reiterate un’enorme quantità di volte, […] sicché emerge una complessità ottimizzata. Tutto ciò si realizza senza dipendere da “autorità” centralizzate che confrontino opzioni e compiano liberamente delle scelte» (p. 227).
Ma se fosse tutto deterministicamente orientato, se la libertà non avesse alcun margine di azione, cosa ne sarebbe del concetto di agency e, più radicalmente, dell’idea di un’etica, o di un sistema penale?
Per Sapolsky, i vocabolari della giurisprudenza, della morale e persino della politica esigono un aggiornamento, ché contaminati da concetti aleatori come ‘soggetto agente’, ‘responsabilità’, ‘colpa’, ‘punizione’, ecc., guardati dalle teorie contemporanee sulla mente con sospetto sempre crescente. Dobbiamo «togliere la responsabilità dalla nostra concezione degli aspetti che caratterizzano il comportamento» (p. 427), poiché «se non c’è libero arbitrio», non «c’è riforma che possa offrire anche solo un accenno di correttezza alla punizione retributiva» (p. 432).
Certo, si precisa in Determinati, non si tratta di ridurre l’impossibilità (morale) di imputare la colpa a un eventuale soggetto cosciente o libero all’incapacità di riconoscere un’azione come deprecabile a livello “umano”. Per quanto evidente che nell’insussistenza del libero arbitrio «verrebbe meno l’intenzione o l’impegno, che le persone manifestano quando compiono le loro azioni» (p. 312), la negazione della libertà e, conseguentemente, della responsabilità decisionale, non intende proclamare un regime di auto-giustificazionismo: l’obbiettivo prospettato dall’autore, dunque, non è quello di sdoganare senza riserve l’effetto Amok, ovvero la possibilità di «impazzire come un pollo senza testa, che si agita freneticamente» (p. 309), in modo irresponsabile.
Al modello delle colpe e delle pene imputabili ex post a soggetti responsabili, potrebbe essere sostituito quello incentrato sulla prevenzione – il modello della “quarantena”: l’individuo potenzialmente pericoloso, non semplicemente “colpevole”, dovrebbe venire isolato dalla società – per un lasso di tempo limitato (p. 439). Il determinismo, che esclude l’imputabilità della responsabilità, potrebbe quindi favorire l’esercizio della giustizia anticipando azioni potenzialmente dannose o almeno la loro reiterazione, configurando un nuovo assetto sociale: «Queste sono le ragioni rilevanti per esprimere ottimismo; dopotutto, non cadrà necessariamente il firmamento, se le persone smetteranno di credere nel libero arbitrio» (p. 337).
Ebbene, come molti grandi testi destinati a far parlare di sé per lungo tempo, Determinati potrebbe risultare convincente soltanto in parte: le tesi di Sapolsky risulterebbero irresistibili se e soltanto se fossimo disposti ad ammettere la riduzione dell’istanza della libertà a quella del libero arbitrio.
Ma è davvero possibile (o necessario) concederlo? La nozione di libertà si esaurisce realiter nel concetto di libera scelta, vale a dire in ciò che Kant definiva il «“movimento libero” dell’orologio, il quale muove da solo una lancetta che non può venire spinta dall’esterno»? Se la libertà consistesse in ciò, forse nessuno avrebbe mai eretto una sola barricata a Parigi: la ghigliottina del determinismo si sarebbe abbattuta su di essa spietatamente, circuendola sin dapprincipio, riducendola a un fantasma.
E se invece considerassimo un’altra accezione del concetto di ‘libertà’, identificandola, come suggeriscono i filosofi dell’evoluzione da alcuni anni a questa parte, con l’istanza imprevedibile che contraddistingue e accompagna il nostro sviluppo organico?
In tal caso, si dovrebbe ammettere che a risultare contingente, ossia indeterminata, sarebbe la medesima necessità che contraddistinguerebbe la determinazione attuale della realtà. Si tratterebbe di confessare che il nostro mondo non è il migliore tra “diversi” mondi possibili: la sua necessità potrebbe non essere inscritta, in virtù di un presupposto teologico (o comunque sintomatico di un eccessivo ottimismo nelle capacità epistemiche umane), in un disegno logico eterno, in un meccanicismo razionale incontrovertibile e superiore – una sorta di armonia prestabilita che ne decreta l’inesorabilità. L’assetto deterministico del mondo, scandito secondo la continuità del meccanicismo causale (istanza adoperata con cautela anche presso i dibattiti neuroscientifici odierni), potrebbe serbare un margine di indeterminatezza costitutiva, un residuo di contingenza e di resistenza alla logicizzazione immediata, risultando da una molteplicità di casualità verificatesi simultaneamente e inopinatamente. Nietzsche ci aveva avvertiti: «Guardiamoci dal credere che il cosmo abbia una tendenza a raggiungere certe forme! Tutto questo è antropomorfismo». Del resto, «in tutta la storia dell’umanità non si può riscontrare né uno scopo, né una segreta guida razionale, né un istinto, bensì caso caso caso – alcuni casi favorevoli. Il caso è, la maggior parte delle volte, un insensato distruttore».
Non si tratterebbe, quindi, di rivolgersi a una realtà alternativa a quella che di fatto si è configurata, per sceglierla con un atto libero – ipotesi che Sapolsky invita opportunamente a declinare. Occorrerebbe piuttosto ammettere che la forma della realtà che necessariamente esperiamo si è rivelata l’unica possibile all’interno di un processo evolutivo che ha posto in essere una miriade di potenzialità – di cui una soltanto si è realizzata. La determinatezza dell’ordinamento attuale del mondo, cioè, potrebbe vantare una necessità soltanto posticcia, autoreferenziale: una volta istituita, potrebbe pure agire come la nottola di minerva di hegeliana memoria e, levandosi sul far della sera, interpretare retroattivamente la propria genesi per definirla “necessaria”. A priori, tuttavia, essa risulterebbe incapace di anticipare il corso dell’esperienza: la modalità del necessario le apparirebbe come un pleonasmo, una denominazione ridondante al cospetto del semplice accadere della realtà come fatto.
Se, dunque, le categorie di ‘necessità’ e ‘libertà’, ‘determinismo’ e ‘indeterminismo’, sul piano strettamente esperienziale, risultassero legate da un rapporto di dipendenza reciproca in grado di complicarne la distinzione? Per usare la terminologia kantiana, potrebbe non esservi atto più libero della constatazione del valore «alto e sublime» del dovere, della necessità, risultando quest’ultima infondata, indeterminata; per le medesime ragioni, tuttavia, il necessario potrebbe consistere nel prodotto finale di un processo storico ed evolutivo imponderabile, irrimediabilmente libero – ancora Nietzsche: «Il mondo è caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di ordine».
Insomma, l’ipotesi del continuum deterministico sostenuta dall’anziana signora contro James potrebbe non risuonare né più razionale né meno irragionevole della congettura della tartaruga sospesa nel vuoto difesa dal professore: il raziocinio umano si troverebbe costretto a fronteggiare un’antinomia irresolubile ma irriducibile, rivolgendosi all’altra metà della verità esaminata in Determinati.