Dissing: Fedez, Tony Effe e Sangiuliano

23 Settembre 2024

La sovrapproduzione di contenuti disorienta, confonde, rende impermeabili alla meraviglia. Lo sa bene chi fa parte della comunità artistica, che centellina le opere per seguire il corso della vena creativa e dare modo alla domanda di sopravanzare l’offerta. Se, in genere, la produzione artistica è limitata a un paio di pezzi all’anno, la pubblicazione di ben cinque canzoni inedite nell’arco di una settimana spinge a chiedersi perché gli esponenti di spicco dell’industria discografica italiana tendano a campare di rendita quando hanno a disposizione una così florida inventiva. Oppure si tratta di una strategia della saturazione, che stranamente coincide con la fashion week, settimana in cui si lotta per l'esposizione mediatica? Il riferimento è all’ennesima querelle privata impostaci dall’agenda mediatica, il cui funzionamento ha parecchi tratti in comune con il caso Boccia-Sangiuliano, basta pensare all’uso massiccio dei social media, a cui si aggiunge il linguaggio trap. Come in tutte le narrazioni mitologiche c’è la bella bionda al centro della disputa tra due maschi alpha, che si contendono il dominio sul territorio con l’aiuto di compagni di battaglia e oggetti magici. Non Elena, ma Chiara, non Menelao e Paride, ma Fedez e Tony, featuring, al posto del cavallo di Troia, bibite dal gusto opinabile (almeno per la sottoscritta) – Boem e Red Bull –, e, nei panni di Agamennone, Ulisse, Afrodite, ecc. un trapper selvaggio e alcune influencer. In più, eccezionalmente sugli schermi degli smartphone, Selvaggia Lucarelli nei panni di Omero o chi per esso: ogni epica vuole un’aeda (neologismo). Lucarelli può diventare anche Opponente per Fedez e viceversa. Così come Chiara da Oggetto di valore, passa a Soggetto-vittima delle azioni scellerate dei trapper. Nel mezzo una fittissima rete, diffusa sul Web, di citazioni, marchette pubblicitarie e trigger della suscettibilità individuale. 

Perché scriverne? 

Non bisognerebbe limitarsi a osservare con sdegno scambi di così basso livello intellettuale e umano (è un dato di fatto, non una critica)? 

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No, abbiamo una responsabilità morale nei confronti del sistema che abbiamo contribuito a creare dove una persona assume un valore numerico quantificabile in interazioni: 230 mila visualizzazioni in 5 ore (il teaser della seconda replica di Fedez a Tony Effe, dal titolo Tony Lucrarelli), 4,5 milioni di visualizzazioni in 24 ore (Chiara di Tony Effe) vs 3 milioni di visualizzazioni in un giorno (L’infanzia difficile di un benestante di Fedez). Sono cifre enormi, che descrivono l’attività su YouTube e su Instagram delle generazioni Z e Alpha, la cui visione del mondo potrebbe essere influenzata da questi scambi “modello”, cioè portati avanti da persone che si sono fatte strada nel mondo proprio per la loro capacità di influenzare pratiche sociali e comportamenti d’acquisto. Chiara Ferragni, l’ente all’origine della figura di influencer – da lei poi rigettata – ha saputo – come insegna l’etimologia – scorrere dentro le vite di chi la segue e l’ha seguita, mimetizzando, con attività di marketing camouflage (vd. il mio Social Moda, FrancoAngeli 2017), consigli per gli acquisti in ogni momento “iconico” e replicabile della sua vita. Ormai sappiamo che, fin quando si trattava di marchi e prodotti coerenti col suo stile di vita, la dissonanza percepita era minima, poi la brandizzazione selvaggia ha preso il sopravvento e mi sono chiesta perché una bambina dovesse andare a scuola con il quaderno di Chiara Ferragni piuttosto che con quello di Peppa Pig. Lo stesso vale per i trapper della partita, la cui ossessione per marchi e collaborazioni potrebbe sfociare in uno schema ricorrente nei loro brani, composto da nome brand/parolaccia/tipo di droga/offesa random a donna/citazione (oscura) della cultura pop. La conferma è nei testi: Tony Effe, nel dissing, – gara di insulti tra esponenti della scena hip-hop, dunque un sottogenere – cita 9 brand, mentre Fedez e Niky Savage si tengono sui 3-4 a testa. La frequenza aumenta con le droghe, nominate direttamente nei brani 14 volte, e ancor di più indirettamente (es. botta, botte, naso…). La caratura di queste persone si stabilisce in base al numero di donne con cui hanno intercorsi sessuali, ovviamente descritte alla stregua di bambole gonfiabili con le gambe aperte di default, a cui si aggiungono addominali e acconciatura. Quest’ultima è degna di menzione d’onore se viene copiata dalla massa. Va dato adito a Tony Effe che i riccioli sono in voga tra teenager e giovani adulti, ma non credo sia merito suo. Il superuomo si compie nella cultura ultras, un modo per esprimere appartenenza alla città e per circondarsi di amici pronti a passare alle maniere forti. Non è un segreto che Fedez ha come bodyguard dei capi ultrà milanisti con qualche carico penale pendente, mentre Tony Effe è stato supportato da alcuni striscioni romanisti su cui sono apparse invettive contro Fedez “amico delle guardie”, motivo di vergogna assoluta nelle frange agli estremi degli stadi. Mi auguro che, tra sostanze varie e rabbia collettiva, al prossimo scontro tra Milan e Roma non ci scappi qualche accoltellamento di un povero Cristo qualsiasi. 

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Le parolacce sono in genere elegantemente rivolte alle donne, mentre i riferimenti intertestuali sono mutuati da cartoni animati – Pokémon – oppure dalla cultura memetica – Hasbulla –. Infelice la scelta di Fedez di ricordare Luca Giurato per le sue gaffe, però gli va dato adito che alza il livello delle citazioni nominando gli attentati a JFK e Trump. A un livello più profondo però, ogni canzone articola le contrapposizioni tra verità e menzogna, sfera privata e pubblica. Le dimensioni di backstage e palco risultano completamente sovvertite, o almeno è questa la grande allucinazione collettiva data in pasto a milioni di persone che leggono, commentano e visualizzano. Certo, l’italianità prevede anche il lavare i panni sporchi in piazza – lo si vede anche in una patetica scena di Emily in Paris girata da Giggetto a Roma, dove la protagonista americana assiste divertita e incredula al litigio pubblico, rumoroso e animato, di una coppia italiana. Una delle tante ragioni per cui la nostra world e street credibility ne esce sconfitta, in quanto ridotta ai meta-meme degli stereotipi sull’Italia rigorosamente made in Italy. E il multiverso collassa ancora di più su sé stesso perché Tony Effe viene arruolato da Netflix in qualità di massimo esponente della romanità per promuovere Emily in Paris illudendo la comunità di follower, grazie al montaggio, di essere presente nella serie con un cameo. Beh, dopo Brigitte Macron, Tony Effe sarebbe stata la ciliegina sulla torta. L’importante è, in qualche modo, assicurare una presenza costante sugli schermi, lo dimostrano i tutti i reality nei palinsesti insieme alla vicenda Boccia-Sangiuliano. Il primo giorno dello scandalo mediatico Boccia aveva tra i 12k e i 15k follower, e ora, mentre scrivo, circa 20 giorni dopo, ne ha 136k. Migliaia di persone che non vogliono perdere neanche un minuto dei continui aggiornamenti scottanti, ora dibattuti in procura. Intanto Boccia ha fatto tremare il governo usando esclusivamente Instagram, dimostrando che la comunicazione ferisce più dei proiettili di cui cantano i trapper. 

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Cosa rimane a chi guarda? Resta una relazione non simmetrica, dove chi guarda pensa di avere una posizione di predominio, ma in realtà la sua attività visiva è scandita e controllata da chi si espone agli sguardi. L’entrare nelle loro case e negli studi di registrazione, conoscere prole pet e umana, non significa completa trasparenza, ma semplicemente restituisce un'illusione di magnificazione delle possibilità scopiche volta ad aumentare il desiderio di guardare, mirato alla massimizzazione di click, follow e interazioni di vario genere, gli unici elementi monetizzabili da queste persone. E qui entra in gioco Selvaggia Lucarelli, enunciatrice delegata del buon senso comune, delle persone stanche della mancanza di meritocrazia: grazie alla sua potentissima penna vengono coinvolte nuove frange generazionali, persone che fino all’uscita di Il vaso di Pandoro (PaperFirst 2024) non erano mai entrate in contatto con una quotidianità vischiosa e mimetica. Lucarelli non solo fa debunking, ma, al contempo, pur avendo dato un ulteriore fendente al picco in discesa dei follower di Ferragnez e similari, paradossalmente aumenta le interazioni in forma di commento e visualizzazione per via dell'effetto approfondimento. Quando Lucarelli scrive sul dissing, lettrici e lettori modello, per curiosità e voglia di contribuire ai discorsi sulla questione “calda” del momento, potrebbero dirigersi direttamente alla fonte dello sdegno, “tanto l'importante è non dare il follow”. A chi si sente un po’ al capolinea non importa se si tratta di commenti negativi o positivi, tanto i brand, specie se non italiani, guardano il numero di interazioni per valutare l’efficacia comunicativa. E addirittura chi non si distingue per spessore morale consuma beni. A tale proposito, sempre da Boccia impariamo che vale la rete di contatti, il sapersi trovare al posto giusto e al momento giusto. E allora cosa dire a chi studia musica, moda, comunicazione? Devono partecipare un dissing per fare carriera?

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Non è moralismo, ma morale, etica del saper vivere. Non si può cadere in basso per un errore di comunicazione se si studia e si conosce il mondo. Se un adolescente si sente tanto estraneo dalla famiglia da voler prima andare in Ucraina a combattere e poi decide di fare una strage, se una giovane donna dopo il secondo neonato sepolto nel giardino di casa si fa la foto di rito a Top of the Rock, in pieno stile Ferragni, stiamo assistendo a un cortocircuito di sottovalutazione dei rapporti sociali a vantaggio dell'osservazione. Non è colpa della musica: sono cresciuta idolatrando Kurt Cobain e Anthony Kiedis, rispettivamente cantanti di Smells Like Teen Spirit e Under the Bridge, inni all'eroina, ma non mi sono mai fatta una pera. Tante altre persone ci sono cascate però. La storia semplicemente si ripete? Non credo sia così. Nella musica ci sono campionesse e campioni del safe space inclusivo come Taylor Swift e i BTS, che a loro volta sono nella playlist di chi si definisce delulu perché crede che la forza di volontà possa manifestare un futuro idilliaco con la star preferita. Delulu is trululu, delulu is solulu, il delirio delle illusioni presentifica verità e soluzioni. 

La dissonanza è macroscopica, non è questione di genere o cultura, ma di come vengono convogliati questi messaggi. Ah, allora è il mezzo? È l’illusione di verità. È la fantasmagoria dell’assurdo che dissemina i codici sociali consoni alla monetizzazione.

Boccia, in 28 minuti di intervista a La7, ripete almeno 10 volte che agisce per amor di verità, Fedez giustifica parole e gesti turpi con la stessa motivazione. Bambini e cani sono là per rendere il tutto ancora più vero perché la carineria non può mentire. Che si tratti di pre-verità o post-verità, la svolta sta nel voler guardare, neanche nel voler credere. Posso affilare il mio sguardo in modo da poter comprendere i processi che innescano l'allucinazione collettiva della verità, con la consapevolezza che tutti gli effetti dipendono dal grado di pervasività dell'argomentazione. 

Leggere commenti di donne in visibilio per uno che “chiamo venti bastarde e poi ci faccio bunga-bunga” o di persone commosse dai particolari di un tentato suicidio, pensato per non sporcare il tappeto e raccontato come fosse una svapata è da trigger alert. Il pensiero suicidario non è lucido, non contempla il tappeto. Dove sono i censori e le attiviste? L’importante è stare a guardare. Il voyeurismo svuota le parole di senso, perché, vale pure per il picco di follower di Boccia, l’importante è sentirsi in prima fila. Il non poter raggiungere la fama, altro disvalore della nostra era, viene compensato dall’illusione di poter intervenire nel backstage di queste pseudo-celebrità, la cui assenza di interazione viene compensata dalla possibilità di esprimere giudizi e di partecipare alla manipolazione delle passioni collettive dell’opinione pubblica. 

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Che sarà mai se ogni due versi si incentiva una pratica illegale, l’importante è farsi intrattenere, curvi e ridenti sugli smartphone. I social media erogano “distrazioni di massa”, espedienti di controllo degli sguardi, il cui numero moltiplica le versioni del reale e delle sue verità. Nei contenuti, non si enunciano fatti, ma fatterelli e fatticci. La nota più triste è che le donne ne escono a pezzi, mute, non dotate della possibilità di rivendicarsi con versi, ma con frasi motivazionali o storie evanescenti su sfondo nero. 

La canzone su YouTube monetizza, con la storia – ormai – Ferragni non ci compra manco una pizza. 

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