Dress code 8. T-shirt, una semplice maglietta
Comunichiamo per affermare di essere e rendere palese un nostro sentimento, per condividere energicamente la nostra posizione rendendola concreta e visualizzabile. I mezzi per farlo sono molteplici, ma c’è un oggetto a cui spesso deleghiamo celebrazioni e ideologie, mettendole vicine al nostro cuore indossando una semplice maglietta. Le t-shirt rappresentano una peculiare manifestazione di un sentire comune, qualità che le configura come un ambito peculiare del linguaggio di moda, dove si mette in discorso una cultura eterogenea atta a plasmare i modi della sensibilità: le persone le indossano per parlare di loro stesse, per criticare la cultura “altra”, quella in cui non ci sente rappresentati, innescando un concatenamento di citazioni intertestuali che fungono da cliché, da tasselli usati per comporre una mitologia. Le citazioni sono dotate della proprietà di replicabilità in un nuovo testo tramite la procedura discorsiva chiamata sampling o campionamento, volta a sovvertire un senso ormai stabile in una cultura data – una sorta di “classico” – dotandolo di nuovi significati perché attivato in una nuova forma espressiva.
Nel vasto campo delle t-shirt con stampe e scritte si registrano corsi e ricorsi di tendenze, la cui durata è proporzionale a ciò che celebrano. Possiamo indossare messaggi e gruppi senza tempo – Peace o il suo simbolo, The Beatles –; omaggi a persone legate a un movimento specifico – t-shirt da soldato di Zelenski, verde militare e con un piccolo tridente ucraino –; marchi e frasi che assumono senso solo se guardate da chi ha lo stesso bagaglio di conoscenze. Chi era teenager/giovane adulto all’inizio del nuovo Millennio, probabilmente ricorda l’imperversare di varie t-shirt “con le scritte” note perché indossate dai massimi esponenti del trash televisivo come Uomini e Donne e Il Grande Fratello. All’epoca, petti e pettorali si adornavano con cuori rossi, scritte “Rich”, rane monelle. Riguardo queste ultime, per la serie corsi e ricorsi storici, mi è capitato di imbattermi di recente nel brand “Monella Vagabonda”, reo di aver spalmato ranocchie qua e là, tornato in vita grazie alle tendenze accessorie della Moda Y2K, celebrativa degli anni 2000.
Monella Vagabonda ha in catalogo t-shirt per dire “vaffanculo”, per dichiarare di essere “il sogno italiano” (quale?), oppure qualificarsi come monella. La monelleria è un’estetica molto popolare in tutto il mondo perché codifica l’abbigliamento di persone indipendenti, che celebrano la loro espressione sessuale con unghie simil-artigli, indossando abiti succinti, minigonne, baby-tee (magliette corte). Ci sono tantissime sfumature di senso corrispondenti ad altrettante etichette, che vanno da una marca sessualizzazione al suo opposto, cioè alla infantilizzazione: slutcore, bubblegum bitch, bimbocore, bratcore… La cosa interessante è che una buona traduzione di monella è brat, e il 2024 è una brat summer, lo dichiarano le baby tee indossate dalla comunità LGBTQI+ e dal fandom della cantautrice britannica Charli XCX. Quest’ultima, in quanto autrice dell’album di successo “Brat”, ha consolidato una vera e propria forma di vita, di cui fanno parte persone festaiole, oneste, schiette, a volte rudi e capaci di dire qualsiasi cosa passa loro per la testa, anche se stupida. Brat non è una semplice scritta su una baby-tee, è una presa di posizione a sostegno di Kamala Harris, “brat” d’eccezione, il cui team incaricato della gestione dei social media ha deciso di far coincidere l’identità visiva della politica con quella della hit estiva. E da qui meme a pioggia, color verde disturbante di “Brat” e con sottofondo canzoni dell’album come “Von Dutch”, altro brand Y2K stampato su migliaia di magliette di party girl e boy. Kamala IS brat – per citare Charli XCX su X – perché ride a crepapelle, dice frasi tipo “amo i diagrammi di Venn” oppure “pensate di essere caduti da un albero di cocco”?
Il caso di Brat dimostra ancora una volta che le t-shirt, in quanto un oggetto culturale, si intrecciano a doppio filo alla vita di chi li indossa e li parla, raccontandoli.
Rende molto bene l’idea Haruki Murakami, che passa in rassegna la sua collezione di circa 200 t-shirt in una serie di articoli per la rivista giapponese Popeye, poi raccolti in un volume dedicato (Le mie amate t-shirt, Einaudi 2022). Le t-shirt sono spesso legate a un evento, celebrano un luogo o una persona, sono un souvenir, un ricordo. Lo stesso Murakami puntualizza che l'utilità di questi suoi scritti sta nel fotografare e mettere a disposizione delle generazioni future, dunque storicizzare, il senso di un capo banale inquadrato negli usi e costumi di uno Zeitgeist. Una t-shirt da un dollaro trovata per caso in un negozio di usato delle Hawaii può ispirare una storia di successo come quella di Tony Takitani (1990). Nel racconto, Tony sposa una maniaca della moda che muore in un incidente e gli lascia uno spropositato guardaroba che il vedovo impone di indossare giorno per giorno alla sua segretaria. Alla fine, vende la collezione di vestiti per ereditare quella di vinili del padre defunto. Una t-shirt souvenir serve per portarsi appresso atmosfere di altri paesi, per empatizzare con altre culture e scoprire nuovi cibi. Murakami racconta di aver ricevuto molte magliette autocelebrative, tra cui una stampata da un editore spagnolo con gattino che gioca con le parole Keep Calm and read Haruki Murakami il cui posto è nel cassetto insieme a quelle dei brand di whisky perché non indossabili nel quartiere Aoyama di Tokyo, dove abita lo scrittore. La frase "Keep calm and carry on" è apparsa per la prima volta su un poster creato da un'agenzia di stampa inglese alla vigilia della Seconda guerra mondiale con l'intenzione di tranquillizzare la popolazione e prevenire il panico. Tuttavia, negli ultimi anni è stata ripresa e riproposta in una varietà di modi, diventando una vera e propria moda. Le t-shirt innescano in Murakami un flusso di coscienza sulle sue passioni e sul suo passato: le magliette con sopra i vinili conducono a una serie di recensioni dei negozi di dischi usati del globo terracqueo oppure le t-shirt realizzate per le maratone gli fanno ripercorrere le sue esperienze da atleta. L’aneddoto sulla Great Aloha Run conferma la visione dell’immagine pubblica che Murakami propone nei suoi romanzi a partire dalle descrizioni vestimentarie. Nel 2006 questa maratona hawaiana viene sponsorizzata da Louis Vuitton, il cui logo compare sulla maglietta di quell’anno. Murakami tiene a precisare che non si tratta di una t-shirt “originale” della maison francese, ma metterla lo diverte molto perché le persone per strada lo guardano “con una faccia come a dire: «Oh, ma ha una T-shirt di Louis Vuitton!»”. Certo, le t-shirt con logo e slogan di brand e aziende rendono simili a sandwich-man & sandwich-woman, le mettiamo con fierezza senza renderci conto – nota Murakami – di fare pubblicità gratuita. La confezione e stampa delle t-shirt ha prezzi molto bassi; pertanto, è un buon modo di investire nella promozione del marchio. Lo insegna la storia del brand streetwear Supreme (dal 2024 proprietà di EssilorLuxottica), protagonista di una collaborazione proprio con Vuitton, che vede nascere nel 1994 l’hype per il box logo da una t-shirt distribuita ai clienti affezionati per pubblicizzare il negozio di articoli da skateboard di Lafayette Street a New York. Non esiste la decorazione ideale per una maglietta, però bisogna chiedersi quali messaggi si debbano affidare a una T-shirt. Murakami cita tra i buoni esempi la maglietta realizzata da Harvard per la raccolta fondi a sostegno delle vittime del terremoto del Giappone orientale accaduto nel 2011, un buon esempio di potere filo-sociale. Per rimanere sul vago e per evitare di stancarsi dell’indumento, Murakami consiglia le t-shirt a tinta unita, che aiutano anche a non incorrere in cortocircuiti di senso come spesso accade quando si compra una maglietta stampata grossolanamente in una lingua a noi sconosciuta. Mi è capitato di leggere indosso ad alcuni amici frasi esilaranti, offensive o senza significato alcuno perché scritte in maniera errata. O ancora, un altro misunderstanding ricorrente, assai irritante per la sottoscritta, è quando si comprano t-shirt di cantanti o gruppi senza averli mai ascoltati. Murakami informa che il modo corretto di “consumarle” è di acquistarle solo se si assiste a un concerto, per conservare una forma materiale dell’esperienza di ascolto. E invece no, complice la maledetta fast fashion, teenager e giovani adulti le comprano senza cognizione di causa il sabato pomeriggio al centro commerciale o, peggio ancora, su Shein. Mi è capitato di fare i complimenti a una persona per la t-shirt dei Soundgarden per sentirmi rispondere “l’ho comprata da H&M perché mi piaceva il tono di rosa” e in effetti non credo che nel merchandising del gruppo del compianto sia mai stato previsto il rosa. O ancora, e qui pura indignazione, ho visto un quattordicenne indossare la t-shirt di Bob Marley senza manco sapere fosse un musicista. Credo che un simile processo accada con le Università: si ha il diritto – si chiede Murakami – di indossare una maglietta senza averla frequentata?
Tramite una semplice stampa si concretizza, come direbbe Dick Hebdidge, il processo di oggettualizzazione di un’ideologia, finalizzato a costituire un segno da cui si sviluppano i discorsi che supportano una data subcultura. Non appena impressi sugli indumenti, i significanti delle subculture trasformati in beni vengono congelati, decadendo dall’essere marche di resistenza poiché inglobate nell’economia di massa. Per cogliere tali significati bisogna calarsi nella cultura di riferimento condividendone il dizionario, per non incorrere nel rischio di una decodifica aberrante dei contenuti.
Così come altri capi di abbigliamento più complessi, le t-shirt innescano emozioni e reazioni, positive se raffigurano animali carini, e, nella fattispecie, il “solito” Murakami si riferisce allo sguardo femminile. Pur se kawaii – carino in giapponese – lo sguardo giudicante di chi abita ad Aoyama – il vero specchio di Murakami – gli toglie il coraggio di passeggiare con indosso la scimmia George o un bradipo. Insomma, la tematizzazione delle t-shirt è pressoché infinita, ma la scelta di indossarle o meno dipende da come si percepiscono i rapporti sociali. A tale proposito Murakami riflette su quanto sia difficile indossare le magliette a tema automobile, perché dalla scelta del brand o dal tipo di macchina ritratta si determina come si comunica la propria identità all’alterità. Se non si vuole apparire snob meglio evitare le supercar, oppure, per non essere etichettati come mediocri lo stesso vale per le utilitarie. C’è solo un’automobile che mette d’accordo, il Maggiolino Volkswagen perché “si inserisce sempre nel contesto nel modo piú naturale”, non si rischia di ostentare con una vettura della classe media, “non dà l’idea di povertà, ma suggerisce uno stile di vita”. Il criterio di indossabilità di una t-shirt sta nel tipo di connotazioni: il logo di Superman è sovrasemantizzato, al contrario, una scritta il cui scopo non è evidente è semplice e si adatta alla persona.
L’ostensione permanente è il leit motiv del discorso di moda, l’unico regime di visibilità contemplato dalla modalità del voler mostrare la vita “vera”, la sfera intima, come modo di autenticare il reale e di rendere intellegibile il doversi vestire in una determinata maniera. Descrivendo un outfit in una narrazione – finzionale o quotidiana – si costruisce con dovizia di particolari la migliore verità per i personaggi con quel certo stile, per farli sembrare vivere al meglio delle loro possibilità, con naturalezza di pose e gesti. Persino quando indossano una t-shirt.
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