Prima puntata / Elogio del neokitsch (berlinese)
In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.)
Da una decina d’anni (a ottobre 2019 saranno esattamente dieci) il busto di Nefertiti (Nofretete per i tedeschi) è tornato sull’isola dei musei berlinesi al Neues Museum, ristrutturato in pieno centro storico-culturale. La bella regina dagli zigomi alti e dal collo lunghissimo fa ormai parte del repertorio di oggetti d’arte che sono passati dalla fruizione elitaria a quella massificata e che attirano folle di visitatori interessati esclusivamente a identificare quei certi pezzi (Gioconda, Primavera, Partenone ecc.) restando totalmente indifferenti a quanto stia loro intorno e al gusto di scoprire cose nuove. Metafora dell’industria culturale che sposta orde di viaggiatori da un’opera (luogo di memoria, monumento, artefatto) eccellente all’altra senza far perdere tempo prezioso tra le banali infrastrutture che costituiscono il tessuto connettivo di un museo, città o paese. Una catena di montaggio senza fine, priva di sorprese, belle o brutte, trionfo dell’armonia banalizzata. L’apollineo ridotto a mediocre convenzionalità che conosce come esperienza dionisiaca soltanto il pathos di rubare un selfie di fronte al capolavoro di turno sfuggendo al controllo dei custodi. Recente è l’invito dei responsabili di Auschwitz a evitare foto scattate in equilibrio sui tristemente famosi binari. Protagonisti di tali prodezze sono quegli stessi visitatori che inneggiano a Basquiat o Banksy purché ibernati tra le mura di una galleria, unico contesto in cui, dal loro punto di vista, la street art perde la sua minacciosa natura di indegnità da strada. In altre parole, si perpetua il concetto di album o antologia che raccoglie il meglio (o ciò che i responsabili hanno ritenuto tale) di un determinato ambito culturale e lo fornisce selezionato, ripulito, isolato da ogni vile contesto, liofilizzato. Pronto per il consumo, immediato e appagante, per chi capacità di scelta non abbia mai elaborato e di senso critico sia sprovvisto. Così anche un reperto di portata sublime come il busto della regina egiziana del 1345 ca. a. c. perde la sua valenza primaria e si abbassa fino ad assomigliare a una sua qualunque replica distribuita nei vari empori di souvenir.
Addirittura, la vera opera d’arte non è più quella originale, piccola, difficile da vedere per la folla che le si ammassa davanti, spesso deludente per gli occhi affamati di emozioni immediate, ma la riproduzione patinata e disponibile per tutti, in vendita nei gettonatissimi punti strategici. Questa modalità di fruizione, che trasforma le opere d’arte in icone mediatiche, allontana dal pensiero interpretativo (inutile e impegnativo) e invita ad adeguarsi all’apprezzamento puramente viscerale (facile e immediato), che prevede tra l’altro nel suo kit frasi fatte di commento, reazioni pseudo-estetiche preconfezionate e, soprattutto, la tanto agognata condivisione immediata con tutte le altre persone, fisicamente presenti o idealmente partecipi, che spartiscono l’ennesima finta emozione, universale ma vuota. Non si corrono rischi in questo modo, nessuno potrà essere messo in crisi o posto di fronte a complesse responsabilità. Assieme al piacere di aver goduto del “bello”, sciorinato senza alcun trauma, si porta a casa l’illusione di essere entrati a far parte della schiera dei colti intellettuali, indifferenti al fatto di aver liquidato il tutto con un paio di aggettivi seriali o di avere spiccicato, nel migliore dei casi, una sequela di luoghi comuni spacciati per pensieri profondi. Conformismo di massa sub specie di finto individualismo illuminato. Vladimir Nabokov aveva analizzato questo atteggiamento (1941) identificandolo come specifico di una certa cultura russa, pošlost’ (filisteismo). Più volgare che ruttare in pubblico è chiedere pardon in francese dopo aver ruttato. Oggi le sue considerazioni si sono allargate a coprire il mondo intero e la sua categoria etico-estetica dialoga da tempo con il kitsch sulle pagine di studi internazionali. Scrive Vanni Codeluppi: “In realtà, le motivazioni che orientano i comportamenti di consumo sono ancora quelle che derivano dalla ricerca di differenziazione sociale. Sono cioè quelle che derivano dal bisogno degli individui di credersi diversi da ciò che si è”.
Torniamo a Berlino e ad alcune realtà della capitale tedesca in cui l’analisi del kitsch, consapevole o inconscio, può offrire originali spunti di riflessione. L’idea per queste pagine è nata mentre visitavo per l’ennesima volta, attratto dal fascino di tanta e diversificata merce riunita sotto un solo tetto, un centro commerciale vietnamita che sorge nella periferia est della capitale: il Dong Xuan Center. Otto padiglioni uguali e distinti che si ergono a Lichtenberg sul territorio che, ai tempi della Repubblica Democratica Tedesca, era occupato da VEB Elektrokohle, l’industria che forniva prodotti di grafite all’intero Paese e impiegava circa 3000 operai. Il crollo del muro portò alla chiusura dell’impresa e all’abbattimento delle sue strutture. Un giovane vietnamita, Minh Nguyen Huu, faceva parte di quella grossa comunità asiatica in terra germanica che la DDR aveva accolto come popolo amico, a cui aveva fornito istruzione o contratti di lavoro ma per un massimo di cinque anni. Dopo la caduta del socialismo reale, si parla di circa 60.000 vietnamiti presenti nella Berlino riunificata, molti di questi per sopravvivere si diedero alla delinquenza o ai traffici illegali. Fu nel 2006 che l’idea di riscatto del giovane si concretizzò. Il centro commerciale, chiamato Dong Xuan (Prato di primavera) come quello di Hanoi, aprì le sue porte e offrì inusitate occasioni di lavoro ai concittadini, affiancandosi ai molti ristoranti nascenti e fornendo loro anche le preziose materie prime per cucinare autentico cibo vietnamita.
Oggi, sotto le volte degli otto padiglioni, fervono attività commerciali all’ingrosso e al minuto, gestite da vietnamiti (cica 16.000 nella Berlino odierna, 4000 dei quali stanziati a Lichtenberg), pakistani, indiani, turchi che propongono abbigliamento, elettrodomestici, oggettistica, giocattoli, parrucchieri, fiori di plastica, strutture per saloni di manicure, ristoranti e negozi di alimentari. Il tutto in una sequenza caotica e avvincente allo stesso tempo, tra tempietti buddisti votivi all’ingresso dei singoli reparti e afrori misti che vanno dagli olezzi dei centri estetici ai profumi di cibo emanati dalle cucine. Inevitabile parrebbe il giudizio di kitsch, per lo meno a una prima osservazione superficiale: ridondanza, ripetitività, accumulo, finto autentico, finto bello trionfano ovunque.
E Nefertiti? Che c’entra? Ebbene, c’è posto anche per lei. Accanto a cento altri personaggi riprodotti in serie, vero inconsapevole omaggio a Walter Benjamin, troneggiano pure le copie della regina.
“Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”. Ecco allora le replicanti vendute per tre soldi, in diverse dimensioni e, particolare non trascurabile, dotate di entrambi gli occhi. Come dire, non solo vi offriamo una Nefertiti abbordabile, ma le rendiamo ulteriore giustizia rimediando al difettuccio dell’originale, quell’orbita oculare destra così vuota e inquietante.
Come interpretare diversamente la volontà dei creatori delle riproduzioni? Il kitsch più autentico si compiace di rimuovere il brutto, lo scomodo, la merda, come scriveva Milan Kundera. Mette tutto a posto in modo da garantire che l’esperienza estetica sia distensiva e spensierata. Quanto funestamente attuale, anche al di fuori dei casi specifici di cui mi occupo in questa sede, risulta tale atteggiamento. E in settori e ambiti della vita, dalla politica allo spettacolo, dalla scuola alla stampa, che in teoria dovrebbero prenderne nette distanze anziché assecondarlo. La semplificazione, la riduzione di concetti complessi e importanti a nozioni banali per favorirne la divulgazione, l’innalzamento della convenzionalità a valore, l’elargizione di emozioni fasulle trionfano, ben al di fuori del centro commerciale in questione e pongono allarmanti incognite rispetto al futuro dell’umanità. Torniamo al nostro problema, solo apparentemente folcloristico e settoriale, e riprendiamo il ragionamento.
È noto e dimostrato che siano fruitore e fruizione a rendere kitsch un oggetto o un’esperienza. E dunque, chi sono gli acquirenti del centro vietnamita? Che cosa li porta là? Partiamo da chi vietnamita non è. Tedeschi, russi e polacchi non ricchi in prima istanza, attratti dai prezzi concorrenziali, che puntano ai reparti abbigliamento (l’acrilico trionfa, la vera lana o la vera seta non esistono), ai settori giocattoli e regali, agli articoli per la casa, molto più scarsamente alle sezioni commestibili. E scopriremo presto il perché. Gli unici tratti autentici, dove “l’hic et nunc dell’opera d’arte” ancora “costituisce il concetto della sua autenticità” (Benjamin), sono proprio i ristoranti e gli empori alimentari. Là non si fanno sconti al turismo, al gusto straniero. Nei giorni feriali centinaia di vietnamiti convengono al centro per rifornire sé stessi o i propri ristoranti di materie prime. Nei giorni festivi centinaia di vietnamiti si danno appuntamento al centro per celebrare le ricorrenze convivialmente. Nessun prodotto o piatto viene semplificato o adeguato perché piaccia a ogni costo a eventuali stranieri, anzi. Ci si fonda proprio sul gusto e sull’orgoglio di essere autentici, quindi, per molti palati non DOC, scomodi o fastidiosi. Responsabilità che affonda le proprie radici anche nella storia politica. I locali del Dong Xuan citano Hanoi e non Saigon, come fanno invece molti loro omologhi di Kant Straβe, a Berlino Ovest, dove anche il cibo servito ha subito parecchi adattamenti al gusto indigeno. Il muro di Berlino è caduto trent’anni fa, ma certe percezioni di confine e appartenenza non demordono. Il ritratto di Ho Chi Minh è presente in quasi ogni ristorante del centro commerciale di Lichtenberg, a differenza di quanto si riscontra nell’ex settore occidentale della città. Verdure, carni, salse, spezie, prodotti freschi e conservati si ammassano nei corridoi tra i banconi, fino alle vasche che contengono pesci vivi, brutalmente accoppati sul pavimento dagli inservienti dopo che il cliente ha compiuto la propria scelta. Le foto di queste operazioni non sono gradite, anzi vivacemente contestate. Eventuali denunce per maltrattamento di animali non mancherebbero, ma si scontrerebbero con quell’idea di veridicità che in questi territori ancora resiste. Acquirenti dei gadget più grotteschi sono invece quegli avventori, non attratti dalla prospettiva di una visita museale e non particolarmente colti che, dopo le imperative spese discount, si concedono un piccolo extra estetico-ornamentale in un ambiente loro più sintonico di quanto sarebbe una galleria d’arte.
Ha senso dopo queste considerazioni guardare con occhi diversi anche la moltiplicazione delle Nefertiti? Accanto a loro, secondo lo stesso principio, fianco a fianco con il trash più estremo (scheletri osceni, figure femminile discinte, mostri erotico-funerari), si allineano anche simulacri di Buddha e di altre divinità orientali. Difficile diventa discernere tra il blasfemo e il religioso. Come in molti banchi-souvenir annessi a cattedrali o abbazie cattoliche, per altro.
Riprenderò il problema del kitsch religioso nelle puntate successive. Accantoniamo la Nefertiti vietnamita, elemento di “omaggio” a Berlino in mezzo a un universo di paccottiglia variegato e indistinto, e torniamo al punto da cui abbiamo preso le mosse. Per essere più precisi, al sito webshop del Neues Museum in cui si illustrano, e vendono, i gingilli legati all’esposizione museale. Dopo cataloghi, porta chiavi, gioielli, carte da gioco, magneti e segnalibri che riprendono e riproducono svariati elementi in mostra (gettonatissima è la dea-gatta Bastet), si arriva a lei, Nefertiti, prima in forma di maschera proteggi occhi (come quelle fornite in aereo per poter dormire), poi di busto in copia conforme all’originale. La prima, in questo caso l’occhio sinistro è risolto con un ambiguo chiaro-scuro (permane evidentemente l’idea kitsch di non perturbare l’utente), si ferma a 9,95 euro.
Il secondo, in grandezza naturale e a colori, raggiunge la considerevole quotazione di 8.900 euro e, forse per questo, non ripara la mancanza oculare ma rispetta l’orbita vuota mai portata a termine.
Come a voler dire, per un cliente che si possa permettere una cifra tanto ragguardevole il rischio di cadere nel kitsch non è previsto. E invece no. Il kitsch sta anche in questo. Anzi, qui si torna alla pošlost’ nabokoviana perché la supponenza in questione coinvolge l’etica oltre che l’estetica. A questo punto la differenza tra il negozio del centro vietnamita e quello del museo sta solo nel fatto, non trascurabile, che il secondo, a poche decine di metri dai falsi, possa vantare la presenza dell’originale, mentre per quanto riguarda il primo abbiamo visto che l’originalità è concentrata in tutt’altri articoli. Ma all’eventuale acquirente della copia interessa qualcosa dell’originale? Probabilmente no, esattamente come per il suo omologo del centro commerciale, ma con quali differenze di base. Non è un tradimento dell’arte vera, un insulto proprio all’originale pretendere di venderne una replica in sede e a un prezzo che di primo acchito può sembrare caro, ma che in realtà altro non è che uno specchietto per allodole danarose e ignoranti? Strizzando l’occhio al filisteo di passaggio a cui non paia vero di portarsi a casa un pezzo di museo, più che da museo, per adornare il comò in camera da letto o l’alzatina nel salone. Da fare invidia al Castello delle cerimonie e al boudoir di donna Imma. Il compratore proletario è sicuramente più autentico e immediato nelle sue scelte, meno proiettato verso retrive aspirazioni. Il vero fruitore camp, nel suo sprezzante snobismo da conoscitore, non avrebbe dubbi tra la copia da pochi euro, arricchita dall’aura kitsch in cui è immersa, e questo tanto falso quanto pretenzioso reperto, se proprio volesse una Nefertiti in casa per ironizzare sulla volgarità. Ma la legittimazione del costo notevole altro non è che un’ennesima freccia nella faretra della volgarizzazione a oltranza. A cui contribuiscono, nel caso del museo, le note illustrative: “Questa copia è l’unico modello disponibile in commercio realizzato da un museo e sviluppato in un processo di lavorazione di 2 anni. La copia del museo è stata creata in cooperazione con il laboratorio di ricerca Rathgen e in stretta collaborazione con il Museo egizio e la Collezione di papiri dei Musei Statali di Berlino. La nuova replica del museo è disponibile per 8.900 euro e può essere ordinata qui”. Insomma, una copia con certificato di autenticità. Concludo questa prima escursione citando Andrea Mecacci quando commenta la pošlost’ nabokoviana nel suo bel libro dedicato al kitsch. Un oggetto come questo stimola “la volgarità del parvenu, l’atteggiarsi a ciò che realmente non si è, l’arrivismo ammantato di eleganza: è la contraffazione del soggetto”. A dispetto del portafoglio. O, forse, proprio grazie a quest’ultimo.