Lo spazio domestico e la felicità / Emanuele Coccia: la mia casa è la tua
Ai primi di luglio del 1975 ho attraversato il giardino di casa e ho visto il mio amico Luciano che già mi aspettava al di là della strada, anche lui con lo zaino in spalla. Ci siamo salutati contenti, e con il pollice teso verso l’alto abbiamo cominciato a chiedere un passaggio alle auto: facevamo l’autostop. Così siamo andati dal Piave in Norvegia. Per circa due mesi abbiamo peregrinato di città in città, di casa in casa, come dei veri nomadi. Come i pellerossa nella prateria. Ogni sera ci si inventava una soluzione per la notte, spesso finivamo ospiti nelle case delle persone che ci davano i passaggi in auto, o in un ostello della gioventù. E non sono mancate anche certe splendide notti estive nella campagna tedesca o danese o svedese.
Un’amica conosciuta in viaggio ci ha trovato alloggio in una casa di “amici di amici”, un luogo meraviglioso nella via delle ambasciate di Oslo (un edificio interamente ligneo del Settecento) dove abbiamo riposato per un paio di settimane andando pressoché ogni giorno a mangiare i gamberetti crudi appena pescati nel Baltico che i pescatori vendevano per pochi soldi al porto. Una grande esperienza di vita che Luciano ed io ci portiamo ancora dentro. In quei due mesi abbiamo vissuto senza casa, questo è il punto, la nostra psiche ha soggiornato nel mondo percependo e respirando senza il riferimento a uno spazio conchiuso. Le case che abbiamo frequentato sono state solo dei meri accessori, strumenti. Tutto il resto è avvenuto nel mondo in cui siamo stati. Questo capitolo del mio romanzo personale d’ora in poi si chiamerà “Casa del viaggio”, per dirla alla maniera di Andrea Bajani che nel suo Il libro delle case fa diventare casa ogni sentimento definito e descrivibile, perché le case, appunto, non sono semplicemente luoghi, ma entità psichiche. Su questo torneremo dopo.
La casa in effetti, prima che un luogo è una categoria cognitiva. Un qualcosa attraverso cui possiamo conoscere il mondo, come individui e come collettività. Tutti noi abbiamo in mente costantemente un gran numero di riflessioni sulla nostra casa, a prescindere dalla condizione di vita di ciascuno. Essa è il luogo della nostra sicurezza emotiva, della pace interiore, di salvezza dalle burrasche del vivere. Un’entità che va ben oltre lo spazio perché ha a che fare con il nostro modo di essere nel mondo. E nel mutante contesto epocale in cui viviamo anche la casa, come “categoria”, deve in qualche modo essere rivista e riformulata.
È ciò che propone il filosofo Emanuele Coccia in Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità (Einaudi, 2021). Per secoli, dice l’autore, si è pensato di poter essere uguali solo fuori dalla casa, nello spazio pubblico della città; scuole, teatri, chiese e parlamenti, “era fuori casa che il mondo diventava davvero esperienza”. Mentre la Filosofia rimaneva patrimonio dei luoghi della collettività, della dimensione pubblica, del potere, la casa era il territorio-altro, formalmente residuale, lo spazio del privato (dal verbo “privare”). E la città moderna aveva il compito di “produrre la libertà e la felicità che non era possibile generare a casa” (p.8-9).
Ridiscutendo la nozione di casa abbiamo la possibilità di portare nello spazio domestico la Filosofia, quella con la maiuscola, e permettere di liberare un nuovo pensiero che a pieno diritto è un pensiero per niente “privato”. Nell’era antropocenica la realtà è stata adattata e sottomessa agli imperativi dell’uomo che ha “cucinato” il mondo e che, mettendo le mani in ogni angolo del pianeta, ha prodotto una post-natura. Ma è negli ultimi decenni, scrive Coccia, che il mondo è entrato in casa e con esso la Filosofia. Soprattutto con l’industria rivolta all’abitare, la TV e i social media, la città ha invaso anche gli spazi un tempo trascurati. Le persone si sono ritrovate in connessione sempre più stretta e imprescindibile con il fuori, in un enorme processo di mutazione e oggi, in mezzo al guado, non sono più-ma non sono ancora. La casa è diventata “una sorta di caverna platonica, una rovina morale di un’umanità archeologica” (p.11).
Di sicuro quella che stiamo vivendo è una radicale e per molti aspetti rischiosa transizione nella quale le stesse nozioni di Io e Sé sembrano rimettersi in gioco. Ci mancava giusto la pandemia che venisse a spargere ancora più dubbi e incertezze. Ma proprio in questa fluidità storica la casa si delinea sempre più come “una realtà puramente morale”, qualcosa che noi costruiamo “per accogliere in una forma di intimità la porzione di mondo – fatta di cose, persone, animali, piante, atmosfere, eventi, immagini e ricordi – che rendono possibile la nostra stessa felicità” (p.6). È nel pieno di questa turbolenza collettiva che avvertiamo il bisogno di “fare della nostra abitazione un vero pianeta, uno spazio capace di accogliere tutte e tutti. Al progetto moderno di globalizzare la città si è sostituito quello di aprire i nostri appartamenti per farli coincidere con la Terra” (p.11). Una casa-territorio, in un magnifico meccanismo di reciprocità.
Questa casa è fatta di infinite materialità e immaterialità: i traslochi, i bagni, gli armadi, le cucine, gli amori, le camere e i corridoi, gli animali e i giardini. In ciascuno dei capitoli Coccia verifica la sua idea di metamorfosi della casa contemporanea; non è certo alla ricerca di definirla o tanto meno di descriverla, non c’è in questo libro un materiale “tecnico” per architetti o arredatori o immobiliaristi (tutte figure che comunque giocoforza dovrebbero sentirsi coinvolte). È un tour affascinante nella complessità dell’Io in cui le diverse “reazioni” afferenti alla nozione di casa vengono smontate e analizzate per spiegare che “«Casa» è solo il nome per questo aggregato di tecniche di adeguazione tra sé e il pianeta, una piega cosmica che fa coincidere per un attimo psiche e materia, anima e mondo” (p.15). La verità è che le case non esistono, “esiste solo il far casa” (p.17), come si dimostra tutte le volte che si fa un trasloco (la riflessione dell’autore comincia proprio dai suoi trenta traslochi…).
In questa casa-territorio solo l’amore sembra rimasto, a dispetto di tutto, come “declassato”, dentro le mura domestiche; l’amore (non l’innamoramento, che avviene nello spazio pubblico) è ancora imprigionato nella colpevole dicotomia della modernità occidentale: l’amore dentro casa, il lavoro fuori casa. E il bagno è “una sorta di sentinella morale che staziona in tutte le case del mondo”, lo spazio della scissione sociale dove si staziona soli, dove l’Eros diventa una vittima (p.36).
Gli oggetti, per contro, diventano soggetti, in questa “macchina panpsichista di animazione universale” le cose mostrano un loro io con cui interagiamo (p.44). Negli armadi mettiamo i vestiti nei quali la casa smette di essere “lo spazio del privato e dell’invisibile per diventare uno spettacolo pubblico” (p.51), i vestiti sono gli oggetti che noi mandiamo fuori, in un incessante moto di cambiamento, è ciò che del dentro diciamo in pubblico. La casa è infatti scrittura, un processo incessante di reinvenzione: “Abitare il mondo significa trasformare la sua struttura, diventare noi stessi la scrittura del pianeta” (p.75).
La casa, quella dell’infanzia, la prima delle trenta abitate, è stata per l’autore un teatro dei sé, un gioco vorticoso e in qualche modo folle della costruzione/ricostruzione di sé in un altro identico sé nella condizione della gemellanza con il fratello. “Gemelli” è il capitolo forse più struggente del libro, in cui si vedono messe in gioco le profondità più umane e fragili, quelle “cose di casa” come si dice quando intendiamo riferirci alle nostre intimità più delicate e difficili.
Il passaggio più cruciale di Filosofia della casa è certamente quello dedicato ai nuovi media nel quale si coglie bene (nonostante qualche approssimazione, come riconosce l’autore) l’essenza delle mutazioni che noi, i nuovi soggetti, e le nostre case, stiamo vivendo. Oggi, scrive Coccia, “il compito che era stato per secoli affidato alle arti, quello di plasmare il nostro io, è stato assunto da altre forme simboliche, piú ibride e sporche, ma anche piú universali e radicali di quelle che il sistema delle arti era stato capace di classificare. I social media sono questo: una sorta di romanzo collettivo a cielo aperto, in cui tutti sono al tempo stesso autori, personaggi e lettori di come la propria vita si intreccia a quella degli altri. È una forma aumentata ed estesa di letteratura. Una forma aumentata perché la frattura propria della letteratura che divideva i personaggi dagli autori e gli spettatori è saltata. Per questo realtà e finzione non sono piú contrapposte” (p.84). Esattamente questo a me pare sia il futuro che i ragazzi di oggi hanno già intercettato e stanno praticando. Se il mondo non è più composto da eventi, ma “da una psiche diffusa, da una coscienza in cui siamo tutti immersi”, la casa, con l’avvento delle macchine psicomorfe, perde ogni confine spaziale e geografico per assumere dimensioni planetarie (p.88). Mi vien da chiamarlo “effetto Banksy”, un ragionare e produrre pensiero costruendolo proprio sul corpo della realtà.
Che il territorio diventi il largo orizzonte di espansione delle nostre case mi pare sia una precisa tendenza culturale. L’architetto Stefano Boeri nel suo recente Urbania (Laterza 2021), in sintonia con la riflessione di Coccia, parla del “tempo polifonico” in cui abitiamo che “è nostro tanto quanto lo è delle altre specie” e propone una città come “arcipelago di borghi” in cui diluire le nostre vite senza perderne la ricchezza (Huffpost, 31 luglio 2021).
Rimangono degli irrisolti relativamente all’idea di “fusione” dello spazio interiore nello spazio esteriore. Lo ha segnalato la filosofa Laura Boella nella sua conversazione con lo stesso Emanuele Coccia. “Dal mio punto di vista però – dice Boella – anche la città, anche un paesaggio urbano «ci fanno». Dunque, sì, sicuramente la casa dovrà essere riconsiderata nell’immediato futuro, ma il dentro e il fuori possono comunque mantenere una funzione che resta vitale, energetica” (Corriere della Sera, 6 giugno 2021). Ricordo che una volta Andrea Zanzotto mi disse che lui non riusciva a scrivere al di fuori di Pieve di Soligo, il suo paese. Pensava e prendeva appunti ovunque, ma la scrittura definitiva aveva profondamente a che fare con il suo stare lì.
In realtà i fili che ci tengono legati alla nostra esistenza sono di inaudita complessità, è evidente che non bastano le connessioni materiali, i luoghi, i colori, ma è dentro a quei luoghi e in quei colori che si sono sviluppate le note della musica unica che ciascuno di noi è. I tedeschi la chiamano Heimat, una “entità” psico-territoriale in cui una persona trova la verità della sua armonia, che è costituita da memorie, persone, luoghi, e le loro infinite interazioni, appunto, che ti restituiscono la tua solidità. A volte è un territorio, una città, un villaggio, un bosco, uno scoglio sul mare: lì è la tua casa. Magari non coincide con le quattro mura, ma certamente è un fulcro psichico, un “lì” che se non c’è ti sconvolge. Ecco: quel “lì” lo chiamiamo casa, è quel “lì” che probabilmente ci permette di “fare casa” ovunque. Il mio “lì” mi ha messo nelle condizioni di costruire la mia “Casa del viaggio” norvegese. Ma il mio viaggio prevedeva un ritorno, un rientro in quel “lì” in cui, in tempi non digitali, sapevo che avrei ritrovato la “psiche diffusa” che mi faceva vivere. La casa proiettata nel mondo è certamente una dimensione ormai necessaria, ma in quella casa estroversa ci dovrà pur stare in qualche modo anche una introversione equilibratrice.
A margine, giusto per senso di responsabilità storica, vorrei tuttavia anche ricordare che ci sono intere popolazioni che sono immerse nel mare profondo della guerra e della distruzione e non possono godere delle libertà “occidentali”. Che vivono, anzi sopravvivono, nell’arcaico mondo del “non avere una casa”, nemmeno in muratura. Alle quali non resta che dire: “la mia casa è la tua”. Vogliamo aprire la discussione?