The Day We Fight Back
La battaglia contro la sorveglianza di massa si arricchisce di un nuovo capitolo. L'11 febbraio 2014 i combattenti per la libertà della Rete, insieme a tutti coloro che non si rassegnano all'idea che gli strumenti tecnologici siano utilizzati come mezzi di controllo e di oppressione, sono chiamati ad aderire all'iniziativa The Day We Fight Back, che alcune sigle storiche del movimento per la difesa dei diritti nel mondo digitale come l'Electronic Frontier Foundation hanno lanciato in collaborazione con altre più recenti (Fight for the Future, Demand Progress, Open Media ecc.), e con il significativo coinvolgimento di alcune tra le più note piattaforme del Web, come Mozilla.
L'obiettivo è quello di ripetere il successo della protesta dello scorso 18 gennaio (SOPA strike) quando oltre settantacinquemila siti web (tra cui importanti realtà come Wikipedia, Reddit, WordPress, Wired, O'Reilly Media ecc.) hanno oscurato la propria home page per protestare contro le proposte legislative liberticide e censorie denominate SOPA (Stop Online Piracy Act) e PIPA (Protect Intellectual Property Act). Proprio in forza di tali proteste il 20 gennaio 2013 il Congresso degli Stati Uniti ha accantonato a tempo indeterminato i due disegni di legge, sancendo una vittoria di importanza epocale per i movimenti a difesa delle libertà in Rete, che sono così riusciti a consolidare la tenuta interna dei propri network e a coinvolgere un numero sempre crescente di nuovi sostenitori.
L'obiettivo degli organizzatori di The Day We Fight Back è ottenere che il più alto numero possibile di siti web (al momento ci sono già migliaia di adesioni) ospitino banner, che invitino i cittadini a scrivere mail o a telefonare ai propri rappresentanti politici (membri del Congresso nel caso degli Stati Uniti) per chiedere di opporsi a provvedimenti che costituirebbero un'ulteriore erosione della sfera privata (come il FISA Improvements Act che consentirebbe ad agenzie investigative quali la NSA di continuare le proprie attività di spionaggio alla luce del giorno, in quanto godrebbero del consenso congressuale) e di dare il proprio appoggio a quelli in grado di aumentare la libertà (come l'USA Freedom Act che impone limiti all'attività di spionaggio vincolandola a principi e a regole precise).
Il giorno scelto per The Day We Fight Back ha una forte valenza simbolica, in quanto è esattamente tredici mesi dopo la scomparsa di Aaron Swartz, paladino della libertà di accesso alla cultura morto suicida proprio un anno fa. L'ondata emotiva provocata dal gesto estremo di Swartz agita ancora l'eterogeneo oceano dell'attivismo digitale e le rivelazioni di Snowden sui programmi di spionaggio della NSA e delle principali agenzie di intelligence mondiali hanno aumentato oltre ogni aspettativa il livello di consapevolezza circa le forme di sorveglianza di massa alle quali un po' tutti gli utenti di Internet sono sottoposti, al punto che oggi è difficile abitare la Rete senza interrogarsi sul destino dei propri dati personali, sulla sicurezza di conversazioni e di scambi di informazioni, sulla legittimità di alcune barriere alla circolazione della cultura e così via. Cresce dunque il numero di quanti, divenendo consapevoli dei propri diritti di netizen, sono pronti ad aderire a forme di protesta che montano nei network della comunicazione contemporanea e – meno frequentemente – nelle piazze e nelle strade.
Proprio la difficoltà di mobilitare i luoghi della politica tradizionale rappresenta un primo elemento critico che rischia di limitare la portata di iniziative quali The Day We Fight Back. Il pericolo è quello che la protesta sia incanalata e, in qualche modo addomesticata, in percorsi che non riescono ad andare oltre le adesioni estemporanee e troppo spesso modaiole che contraddistinguono le campagne di raccolta firme (ad esempio quelle condotte su piattaforme come Avaaz e Change.org) o le 'cause' lanciate all'interno dei social media.
Il mito delle rivoluzioni condotte a colpi di click è ancora forte nell'immaginario collettivo sebbene un'ormai imponente letteratura scientifica abbia gettato acqua sui più facili ed ingenui entusiasmi (sul punto cfr. anche il mio recente InfoWar). Il problema è che l'idea di poter ribaltare un regime autoritario mobilitando i propri network digitali continua ad essere più affascinante rispetto alla prospettiva di lunghe battaglie, condotte a rischio della propria incolumità personale, con la prospettiva di finire in carcere o di soccombere a gogne mediatiche alimentate da falsità infamanti.
Le esperienze degli ultimi anni, in particolare le 'rivoluzioni' che hanno deposto alcuni dittatori nordafricani, i movimenti Occupy, le proteste contro i già citati SOPA e PIPA e, a maggior ragione, quelle contro il trattato ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement), hanno dimostrato che le nuove modalità e i nuovi linguaggi politici aumentano considerevolmente le proprie possibilità di avere la meglio sulle forme istituzionali del potere quando la protesta è preceduta da una chiara identificazione degli obiettivi politici da perseguire e quando si riesce a rinforzare le azioni poste in essere negli ambienti digitali con quelle condotte in prima persona nei luoghi più tradizionali della politica: piazze, strade ecc. Come ricorda il teorico dei media olandese Geert Lovink, i rapporti di forza che governano ogni tipo società si sovvertono solo a condizione di “impattare il reale”, occorre dunque che – a un certo punto – ci si allontani dagli schermi per portare le proteste (anche) in quei contesti dove sono in grado di recare maggiori insidie alla stabilità di chi esercita il potere.
Un'altra criticità, alla quale non possono sottrarsi né The Day We Fight Back né le future iniziative di questo genere, è rappresentata dalla difficile sfida che il movimentismo digitale nella sua totalità deve necessariamente affrontare se vuole provare a non disperdere la preziosa eredità di attenzione e di consensi conquistata negli ultimi anni. La sfida è quella di maturare e di radicare nei differenti movimenti per la libertà della Rete una visione politica comune, una prospettiva di ampio respiro che si spinga al di là della battaglia del giorno per affrontare la grande complessità dei conflitti sociali contemporanei.
Per fare solo alcuni esempi: ha senso continuare a contrastare le azioni delle aziende globali che proliferano sfruttando i dati personali degli utenti se non si affronta, a monte, la questione del reddito? In tal senso, atteso che viviamo in una network society nella quale il valore è dato dalla circolazione delle informazioni, un reddito commisurato esclusivamente al lavoro, inteso in senso tradizionale, è in grado di rispecchiare la realtà economica attuale? Non sarebbe forse il caso di legarlo anche alla produzione e alla veicolazione delle informazioni, aprendo quindi a forme di basic income (reddito di cittadinanza, di esistenza ecc.)? È possibile continuare a tenere insieme la difesa di diritti individualistici, come la privacy, con la rivendicazione di interessi collettivi come i commons? Si può sostenere la libera circolazione delle informazioni e della cultura senza preoccuparsi di quella degli esseri umani tout court? E ancora: è il caso di insistere sul miglioramento della sicurezza delle attuali infrastrutture tecnologiche oppure è venuto il momento di focalizzare idee e progetti sulla costruzione dal basso di alternative basate su reti di pari?
Si avverte con sempre maggior urgenza la necessità di una visione politica complessiva da opporre al neocolonialismo delle aziende globali nonché all'incompetenza e all'arroganza di ciò che rimane dei governi nazionali. Solo così iniziative importanti e meritevoli di sostegno come The Day We Fight Back potranno evolversi da episodiche azioni di resistenza, ancorché a volte vittoriose, a battaglie decisive sullo scacchiere di una battaglia senza confine per la libertà e la giustizia.