Una favola sul secondo novecento / Giuliano Scabia: l’azione perfetta

9 Giugno 2016

Si è data tre compiti nella vita, Sofia. Sconfiggere la morte; ritrovare il padre Lorenzo, morto quando era piccola, un violoncellista magico che aveva suonato per il sole e incantato con la sua musica le bestie nella giungla della lontana India; scoprire se il partigiano giustiziato come assassino di un prete negli ultimi convulsi mesi di guerra era il giovane ricciuto cui lei, bambina, aveva aperto la porta quando erano sfollati nella canonica di campagna. 

 

È questo il filo che muove L’azione perfetta, ultimo romanzo del Ciclo dell’eterno andare di Giuliano Scabia, uno dei grandi sperimentatori del teatro tra gli anni sessanta, settanta e oltre, l’inventore di Marco Cavallo, simbolo della liberazione dai manicomi, colui che tirò fuori dal bosco delle tradizioni contadine la commedia favola del Gorilla Quadrumàno e la fece girare per paesini di montagna e periferie industriali come una domanda sull’immaginario  e sulla cultura di base in tempi di conflitti, di scontri, di trasformazioni sociali (i primi settanta). Da quel viaggio con venti studenti nel territorio profondo dell’Italia avviata verso il neocapitalismo immateriale nacque l’esigenza di liberarlo, il Gorilla, lo spirito dell’immaginazione, nelle foreste del racconto, praticato in teatro, in romanzi, in poesia nonché in intensi rapporti faccia a faccia con piccole comunità coltivati per decenni. Scabia ha tenuto bottega segreta all’università e fatto ogni tipo di azioni pubbliche, usando il teatro come sonda e come chiave di accesso al mondo e all’interiorità. Ha scritto le commedie e gli altri testi del Ciclo del teatro vagante, in  tutto 93 tra opere e operine al luglio del 2015. Ha narrato Nane Oca e altre storie del Ciclo del Pavano Antico andando dentro la stralingua padana, un sostrato antico per la memoria contemporanea. Ha composto  un vasto canzoniere, chiuso temporaneamente da Albero stella di poeti rari, pubblicato lo scorso anno su doppiozero.

 

 

 

Questo scrittore mette in gioco il corpo e la voce in letture pubbliche cui arriva in groppa a un cavallo, con il sole e la luna, con un albero totem fiorito di immagini o con il Teatro vagante nave cigno culla, tutti costruiti con la cartapesta. Tesse in cicli forme letterarie e sceniche diverse, facendo germinare in modi vari e imprevedibili alcune ricorrenti visioni. Scabia non è solo uno scrittore e neppure solo un uomo di teatro: è un incantatore, uno di quegli antichi magi che con la parola, con il suono, con le storie, le frasi, il ritmo cerca, indaga l’origine e il destino del mondo. Nominando crea legami, flussi, tra le cose, le azioni, i personaggi, le persone, reinventa o inventa paesaggi, orizzonti mentali, piccole comunità. Apre strade a teatri della mente che attraverso fantasmi rimandano ai corpi pulsanti, al desiderio, al nostro faticato meraviglioso vivere. Poesia, narrazione, come in-cantamento.

 

L’eterno andare

 

Ho lasciato fuori, nell’elenco delle tante opere di questo autore viandante magico se-duttore, l’Angelo e il Diavolo con cui dal 1979, la prima volta a Perugia, poi nel Casentino, a Venezia a Parigi, Roma, Firenze e  in altri posti, girò l’Italia con azioni di strada, di piazza, di cortile, di casa, di convento, sulla torre Eiffel perfino (vedi il libro Il Diavolo e il suo angelo preceduto dalla lettera a Dorothea, la casa Usher, 1982). Andava, con rosso costume e maschera e forcone, legato con cordone a un bianco arcangelo violinista e flautista (Aldo Sisillo) a contrastare in versi e musica in mezzo alla gente, dappertutto. Poco dopo, nel 1980, iniziò a lavorare al suo primo romanzo, In capo al mondo, il capostipite del Ciclo dell’eterno andare, raccolto poi con il secondo, L’acqua di Cecilia, in Lorenzo e Cecilia (Einaudi 2000).

 

E un giovanotto con un rigonfiamento (di ali) sotto la giacca, la barbetta, gli occhi celesti, spandente odore di ozono, e un altro, dall’eloquio dissacrante o perfino infantilmente birbante, con gli occhi rossi, costellano le storie di Lorenzo, poi di Cecilia, infine questa Azione perfetta di Sofia loro figlia, studiosa della mente, psichiatra. Solo loro tre vedono l’arcangelo in calzoni corti e l’arcangelo caduto, dannato, tentatore, che peta e irride, che sciorina insieme all’altro quesiti sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte, e scioglilingua infantili. Perché il mondo di Lorenzo, Cecilia e Sofia (nei tre romanzi, e ne è annunciato uno in elaborazione sul fratello di Sofia, Ercole, affascinato dai ciclisti) è ancora un ridotto arcaico e magico, che si nutre di sogni veri, di voci, di venti, di domande per comprendere la vita e affrontare (e forse rasserenare) i lati d’ombra. Un mondo però anche terribilmente simile al nostro, in metamorfosi verso non si sa quale altrove.

 

Nel primo romanzo Lorenzo sogna di incantare le bestie con il suo violoncello, e arriva fino in India per farlo, novello Orfeo che smarrisce nella morte la sua Irene-Euridice durante il viaggio di ritorno in nave (ma tutto era nato da una partita a carte persa con quello dagli occhi rossi, come in tante storie o nell’Histoire du soldat di Stravinskij). Siamo in un’Italia di inizi Novecento e dei primi anni del fascismo, con il tono dominante della favola.

Con gli altri due romanzi la narrazione, la felicità del raccontare, si cala nella nostra storia recente: le acque che Cecilia, seconda sposa di Lorenzo, teme diventano la tragedia del Vajont, ma anche le fonti del dio Gerione, voce del mondo gorgogliante, fonte di salute aperta dalla caduta di Fetonte, legate al culto del dio sole e di Aponus, dio eponimo di Abano, gorgoglio del mondo, oracolo. Cecilia muore ascendendo al cielo su un tiro a quattro cavalli mentre intorno baluginano e ballano tutte le sue parole care, tutto il mondo nominato.

 

Sofia ricerca l’azione perfetta. E questa dell’azione perfetta è una vox media, quella dove si trova tutti se stessi e forse si vince la morte, ma anche quella dell’ideologia, delle “paturnie di salvare il mondo”, che agitano chi vuole formare una società senza difetti, l’uomo nuovo, il comunismo, il paradiso in terra, e per farlo non esita a distruggere, ferire, massacrare, far esplodere. La protagonista attraversa il novecento, salendo verso il concerto dei violoncelli di Lorenzo, dopo aver ritrovato mano e suono dello strumento abbondonato durante l’infanzia, in una notte vicina al giorno in cui due aerei si lanciarono contro i grattacieli di New York. Sofia vive i tempi della distruzione del passato, delle ideologie e del terrorismo, dagli anni cinquanta, dall’interramento dei canali di Pava ai primi discorsi radicali indirizzati verso la lotta armata (il demone del romanzo), fino alle soglie del nuovo millennio. I personaggi che la circondano assomigliano a Toni Negri, all’editore Feltrinelli morto su un traliccio e ad altri finiti decisamente nella clandestinità che spara per rinnovare il mondo. La sua amica Rosetta, che aveva cospirato, ferito, ucciso, fatto il carcere, dirà verso la fine della storia: “In fondo la lotta armata era, oltre che un errore, un’esplorazione dell’ombra”.

 

Proprio quest’anno a Bologna il regista Paolo Billi ha ripreso un testo teatrale di Scabia del 1984, Visioni di Gesù con Afrodite (pubblicato da Ubulibri), dove per la prima volta lo scrittore metteva in scena la tragedia del destino messianico, dell’“ideologia”. In esso Gesù ha un compito, segnato dal Padre, che lo porta a ignorare il suo corpo e le seduzioni della donna uscita dalla spuma del mare, della felicità possibile, per seguire un fato di predicazione e crocifissione. Rivisto oggi, quel testo suona come una ferita non rimarginata in corpi sociali martoriati ormai da vari decenni di diversi terrorismi radicali. 

 

Il romanzo di Sofia e della mente teatro

 

L’azione perfetta è aperta in ogni suo capitolo da una delicata poesia-didascalia, quasi un brechtiano “cartello” che introduce e sposta il discorso sul piano del canto, del piede poetico, del ritmo che batte e dà agli avvenimenti la distanza, l’astrazione, la passione coinvolgente della poesia (della danza delle parole, che non si usano solo per scambio, ma per felicità o tristezza di tono, di suono). Ma anche la narrazione, pure nei suoi momenti più chirurgici (e ce ne sono, perché della realtà di anni bui e bellissimi che abbiamo passato si tratta), non abbandona mai il tono apparentemente sognante, per porre domande filosofiche sulla storia – e come la viviamo, e come la narriamo – sulla verità, il bene e il male. Sulla lotta continua che ingaggiamo con la morte da quando nasciamo, che appare per esempio in alcune bellissime pagine sull’ultimo comizio di Berlinguer, fino alla fine del respiro. 

 

Tali quesiti e ritmi e storie Scabia li avanza con gioia di teatrante conscio che “se quelli della Lotta Armata si mettessero a fare i burattini… chissà”, come dice Sofia in uno dei suoi incontri più intensi, con il professore di Psicologia (controfigura di Guido Petter, ex partigiano vittima di una violenta aggressione per la sua opposizione alle violenze di Autonomia Operaia). In quello stesso dialogo la nostra protagonista dice: “Studiando la mente mi sono resa conto che il gioco, il teatro, possono aiutare a liberarsi della parte più pericolosa della violenza…” E poco dopo, galoppando in altri cavalli della mente, il giovane dagli occhi rossi irride l’azione perfetta, che secondo quello dagli occhi celesti sarebbe per esempio l’annuncio dell’angelo a Maria: “Ma quale azione perfetta! Da quell’annuncio è nato uno finito in croce. (…) Fortuna, barbetta, che esistono le azioni imperfette, altrimenti tutto sarebbe manìa di perfezione”. Gran specchio della psiche, da favola travestito.

 

Angelo Scabia e angelo Aldo Sisillo. Perugia 1980, ph Sebastiana Papa. 

 

Riuscirà Sofia a vincere la morte e a ritrovare Lorenzo? Scopre sicuramente che il giovane cui lei da bambina aveva aperto il cancello in casa del prete era l’assassino, quando vede la fotografia dell’eroe che tutti credono fucilato ingiustamente dai repubblichini per dare un esempio. Si inerpicherà, si avvolgerà nella vita, in amori spezzati, in altri di consolazione, in amanti, in corpi e in pensieri, in figli, in luoghi distanti e nel ritorno in posti cari, in città e sui colli (Euganei, sfondo sussurrante del romanzo), nel tentativo di capire la mente con il lavoro di psichiatra. Tra Pava, Venezia e Milano attraverserà lo smagliante, sperimentale teatro degli anni sessanta, in cerca di forme per ritrarre, per scavare l’ombra, nascosto a volte sotto nomi finti, come le opere di Luigi Nono, o dichiarati, come Gustav Gründgens, il grande Mefisto (il diavolo percorre variamente il romanzo), come il Berliner Ensemble, come l’entusiasmante benché rozzo teatro di strada, di quartiere, a partecipazione della Milano del ‘68, prima della bomba di piazza Fontana, da Scabia stesso praticato (la biografia è uno dei sottotesti segreti di questo romanzo: ma solo uno). Sofia attraverserà da protagonista o da spettatrice perplessa (in un continuo cambio di focale platea-palcoscenco) riunioni di partito, gambizzazioni, l’assurda uccisione di due persone nella sede dell’Msi, uno dei primi omicidi della lotta armata eccetera. 

 

Rosetta finirà in prigione, l’amica di Sofia che già nelle poesie adolescenziali voleva raddrizzare un mondo sbagliato (tutti i personaggi si portano dietro il segno dell’adolescenza, sempre, e tutti i fili della vita, dalla nascita, e oltre…). Vivrà la nostra protagonista dolori, amori nuovi, pensieri affilati, cercando il padre e il suono unico del suo strumento, la madre e il suo buonsenso popolare, sulle orme dei luoghi dell’anima e delle storie che ci legano a tutti gli altri, sempre con i due arcangeli apparenti. Lo farà con stile favolistico e con leggerezza metafisica, che spesso smonta la costruzione della frase, pospone, volge il verbo all’infinito, inverte la sintassi, per creare con cantante stupore quello che in teatro si chiamerebbe “straniamento”, per portare nel ritmo, per dislocare dall’abitudine e con semplicità antica rapire. Perché si vive nel legame, magico (nel senso di intrecciato), con le cose, con la materia del mondo, come con le persone, quelle che ci stanno intorno e quelle che non ci sono più. Perché Fetonte, sfidando il sole, cadendo fece sgorgare acque ancora oggi curative e il suono del violoncello di Lorenzo non può svanire in una necessità naturale, chimica come la morte. E diavoli e arcangeli sono i volti del nostro stesso attraversare, sottoterra, sui tetti, nei boschi, sui colli, nell’aria elettrica, tempestosa o tersa. Sono il nostro contemplare (e vivere e suonare e consonare e raccontare rievocare e far rivivere) il gran teatro dei corpi, delle menti, dei luoghi, degli anni, della morte, dei legami.

 

Sullo sfondo

 

Questo è anche un romanzo storico. Ma la storia può creare inciampi alla voce, che deve intonarsi, accarezzare, sedurre, stridere, approfondire, incavarsi, volare, raddolcire. Allora l’autore inventa una sezione finale, fuori del racconto, dopo l’azione perfetta ritrovata (non dirò come) e la gran musica dei violoncelli. Alcune parti che inizialmente erano inserite nella narrazione sono espunte e si ritrovano in un’appendice intitolata Sullo sfondo. Sono quelle che narrano i tempi attraversati, la storia e la cronaca più precisamente, dalla rivolta di Berlino del 1953 ai fatti di Ungheria al nascere dei gruppuscoli maoisti dell’ultra sinistra italiana, ai dibattiti nella sinistra, al ‘68, alla Primavera repressa di Praga, al teatro liberato di quei tempi (e qui Scabia cita alcuni suoi “schemi aperti”, canovacci di azioni a partecipazione che si possono leggere in quel libro imperdibile per capire il Nuovo teatro che è Teatro nello spazio degli scontri). Eccetera eccetera, fino alla lotta armata e alla caduta del muro di Berlino, con un ritorno di Brecht di fronte ai moti degli operai del 1953, con due sue poesie, e il finale intrecciato con quello del romanzo, l’11 settembre 2001, verso nuovi fondamentalismi e nuovo terrore. 

 

Il sogno e la storia, la favola e la brutale realtà, ancora un Angelo con il suo Diavolo, divisi ma legati con un cordone che non permette di separarli, anche se così intrecciati ognuno mantiene un proprio ritmo, una propria aria.  Con una domanda sulla storia: qual è la vera storia, quella delle stragi, dei crolli delle utopie, delle gambizzazioni, delle false testimonianze, dei processi tirati per le lunghe tanto da far dimenticare i delitti, persi ormai nelle nebbie, o quella dei personaggi d’invenzione, quella interiore delle menti e delle anime? La storia del secolo passato o quella di Sofia, “perché di lei, avendola inventata, [l’autore] può forse fare la vera storia”. Con una domanda inquieta che Scabia rivolge da anni alla verità e al genere miticamente storico, storicamente mitico, certamente incerto, realisticamente immaginario, dubbiosamente scientifico della “Vera storia”.

 

Giuliano Scabia, L’azione perfetta, Einaudi, pp. 242, euro 22.

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