C’è vita tra gene e meme / Una tempesta perfetta
L’espressione “andrà tutto bene” è diventata ormai inopportuna, persino insopportabile.
Come può essere diversamente se l’esperienza nega una frase a lungo esibita come un mantra sulle vetrine, sui balconi, sui media, sui social.
Un’espressione diventata rapidamente virale... cos’altro è se non un meme?
Nient’altro che un espediente contro l’oscurità che abbiamo intorno.
Bisognerebbe essere Jorge Borges per poter distillare in versi la paura del buio, lui destinato infine a diventare cieco, consapevole di essere di padre, nonno, bisnonno divenuti ciechi. “Questa penombra è lenta e non fa male; scorre per un mite pendio e somiglia all’eterno. Gli amici miei non hanno volto, le donne son quello che furono in anni lontani... non hanno lettere i fogli dei libri”.
Una paura che il grande scrittore argentino ha distillato in versi come nelle sue ossessioni narrative: il tempo, lo specchio, i labirinti reali e quelli della metafisica con cui ha accompagnato i suoi racconti. Sono ossessioni diverse per la stessa paura, confuse e sovrapposte nelle forme dell’invisibile, dell’ignoto, dell’incomprensibile o delle sue deformazioni (lo specchio).
Per chi Borges non è, resta sempre la necessità di venire a patti con la paura. Ognuno con le sue e solo alcune innate. Tra queste quella del buio appunto, quella dei serpenti, dei ragni, degli estranei: queste sarebbero per tutti certe.
Perché sembra che ancora portiamo con noi l’eredità atavica dei geni paleolitici, epoca in cui per un tempo lunghissimo siamo stati comunità di cacciatori raccoglitori fatte di poche centinaia di individui: fino a diecimila anni fa, un niente per i tempi dell’evoluzione.
Lungo quel tempo lunghissimo siamo stati nomadi, camminando il mondo in piccoli gruppi alla ricerca di quanto necessario alla vita: gli “estranei” e gli animali velenosi tra i maggiori timori. Questi ultimi erano il pericolo per una morte che arrivava “invisibile” come lo è sempre il veleno. Perché la paura dell’invisibile se si vuole è la paura del buio travestita nella luce del sole. Perché l’invisibile e il buio sono simili all’occhio umano; entrambi ci rendono ciechi, entrambi in fondo sono la stessa paura.
Tra i timori e le angosce di queste settimane, confusa a quella del morbo c’è stata la paura dell’invisibile, legata a doppio filo a quei geni paleolitici rimossi dalla nostra modernità, ma a cui siamo ancora vicini. Sempre di fronte alle grandi epidemie che abbiamo vissuto nell’epoca pre-scientifica – quando la nostra “cecità” era tale da rendere impossibile anche solo immaginare i microorganismi – la paura della malattia è stata anche la paura dell’invisibile.
Ma l’auto conservazione vuole che la paura debba avere uno sfogo, un bersaglio visibile e poco allora restava se non la magia, se non terapie inventate ai confini di quella, mentre il bisogno di certezze che scuotessero quel buio faceva guardare ai nemici, agli untori, e si scansavano i malati, gli amici, persino i familiari diventavano sospetti...
Poco dunque sembra essere cambiato.
Si deve a Richard Dawkins geniale e irregolare biologo, etologo ed altro ancora la nozione di meme. Un meme sarebbe per l’evoluzione culturale quello che è un gene per l’evoluzione naturale. Ovvero “un’unità di informazione” in grado di auto-riprodursi e di trasmettersi. Una riproduzione accurata quella dei geni per una loro trasmissione alla generazione successiva, più o meno veloce, secondo il ciclo biologico di ogni specie (lentissima nella specie umana che si riproduce dopo i vent’anni, velocissima quella di tutti i microrganismi). Come una trasmissione velocissima è quella dei memi, verticale attraverso l’insegnamento, e soprattutto orizzontale attraverso la popolazione e il presente che viviamo. Qui non è tanto l’accuratezza quella che conta – le relative storpiature e deformazioni dei passaggi di bocca in nocca – ma conta la diffusione detta non a caso “virale”, vale a dire una diffusione rapida e utile nell’immediato seppur non accuratissima. Il meme sarebbe per una popolazione un’improvvisa modifica e accelerazione della informazione disponibile.; un luogo comune, una moda, un comportamento, l’espressione di un sentimento possono essere memi, ovvero un’informazione da trasmettere ma anche da selezionare certo in base all’utilità, ai vantaggi o alla sua capacità di essere persuasiva, di rendersi “mimetica”, vale a dire facilmente accettabile.
Non esistono memi per le paure innate ma esistono le immagini e le risposte con cui confondiamo quelle paure. Il meme “andrà tutto bene” è stato l’equivalente di un balletto x spiriti benigni, è un esorcismo di fronte all’invisibile, è espressione che i social possono amplificare fino a far diventare idiozia più che una consolazione.
Eppure... eppure oggi non siamo completamente “ciechi” e tutti siamo in grado almeno di immaginare gli invisibili microrganismi che si sovrappongono ai morbi infettivi.
Eppure, nostro malgrado non sembra restare ancora troppo vicina la Milano del Manzoni?
Forse perché in fondo ancora pochi conoscono le differenze tra batteri e virus e pochissimi sanno dei meccanismi di replicazione di questi ultimi, il loro essere “parassiti obbligatori” delle cellule di cui sfruttano le strutture e il metabolismo. Oggi come secoli fa, sembra essere ancora la paura dell’invisibile il problema...
Del resto, tutto questo è il regno della biologia, o meglio, come ha scritto Luigi Luca Cavalli Sforza (Genova, 25 Gennaio 1922 – Belluno, 31 Agosto 2018), a partire dal Novecento è il regno della genetica, che della biologia è la disciplina sovrana, quella decisiva nello svelare i meccanismi della vita e della sua trasmissione. È la genetica che può spiegare il passaggio per cui dei virus ospiti di una specie (pipistrello, scimpanzé o altro animale, improvvisamente saltino di specie – spill over – riconoscendo e riproducendosi nelle cellule umane. È la genetica che ci può dire perché in un tempo sufficientemente lungo un virus generalmente riduce la sua letalità adattandosi alla specie ospite, pur continuando ad esistere e a riprodursi. È la genetica che potrebbe spiegare la differente incidenza del Covid 19 sull’uomo rispetto alla donna o quella, perlomeno supposta, di una minor sensibilità al virus di talune popolazioni africane. Sarà soprattutto la genetica a dire una parola definitiva nella scoperta e nella realizzazione di un vaccino. È ancora è la genetica che può dare ragione e spiegazione della complessità della vita – dalla cellula umana a un’unità infettante elementare quale è un virus – che può spiegare come questa complessità si evolva nel tempo adattandosi alle diverse condizioni ambientali.
Luigi Luca Cavalli Sforza è stato un medico e uno scienziato geniale, i cui interessi per molti decenni hanno spaziato dalla genetica, all’antropologia, alla statistica medica, all’evoluzione della specie umana ricostruendone la storia attraverso i geni come il linguaggio.
Un suo libro recente, L’evoluzione della cultura (2019 Codice Edizioni) può fare luce su molti dei meccanismi e sulla storia che ci rendono una specie così particolare, una specie in grado di evolvere e adattarsi all’ambiente non solo geneticamente ma anche culturalmente, modificando ampiamente quello stesso ambiente in cui vive,
L’incertezza, l’ansia, la vulnerabilità attuale conseguente all’epidemia da Covid 19 è in gran parte scritta nella storia genetica e culturale della nostra specie, così come in quella dei virus, per i quali l’evoluzione è solo genetica.
Quell’incertezza, quell’ansia, quella vulnerabilità sono sì parte della genetica, della biologia, della storia della nostra specie. ma in questi giorni sono state anche la conseguenza di una relativa diffusa incapacità di cogliere la complessità della vita in tutte le sue forme.
Nelle città tecnologiche e certe in cui ci avvolgiamo, in cui tutto sembrava noto, raggiungibile, acquistabile, condivisibile, abbiamo riscoperto la sfuggente complessità dei fenomeni vitali e la nostra fragile ignoranza.
Perché viviamo ancora una scarna consapevolezza rispetto alle conoscenze necessarie a comprendere la complessità della vita nella sua “invisibilità”.
Così, è come se fossimo rimasti travolti da una tempesta perfetta: da una parte la realtà genetica e culturale della nostra specie – siamo quello che siamo e quello che “siamo diventati evolutivamente” – dalla stessa parte la realtà genetica dei virus, che da milioni di anni possono riprodursi solo infettando cellule viventi, dall’altra, improvvisamente e inaspettatamente, l’emergere di paure ancestrali e delle relative immagini con cui proteggersi: le une e le altre, a torto, immaginate come scomparse.
Tra evoluzione naturale ed evoluzione culturale, tra geni e memi può esserci molto della complessità della vita di una popolazione e di quella delle sue comunità.
Chi in questa tempesta cercasse una qualche luce per rischiarare il buio, anche quando questa emergenza sarà passata, può trovarla – in cambio solo di un po’ di attenzione e della consapevolezza di cui sopra – nelle parole, nel libro e in genere in tutta l’opera di Luigi Luca Cavalli Sforza.