Pillole di felicità per tutti
Berthony Mélord, ad Haiti, sfoggia sulla spalla un’ardita torre conica, dove fanno bella mostra di sé, impilati l’uno sull’altro, decine e decine di blister di pillole colorate che compongono una sorta di allegra scultura. Allettante anche per necessità, come spiega Aristil Bonord, altro venditore di medicine a buon prezzo, sempre ritratto dal fotografo Paolo Woods, che a Haiti è praticamente di casa: «Vedete, metto un pacchetto di pillole rosa accanto a quelle blu. I colori devono stare bene assieme. Se la mia presentazione non attira lo sguardo, non avrò clienti». Aristil, 36 anni, diacono presso la Missione evangelica battista del sud di Haiti, arrotonda così i suoi guadagni: vende, come decine di altri suoi connazionali, medicinali presentati come una boutique portatile a spalla.
Ad Haiti, dove ci sono solo 170 farmacie per 11 milioni di abitanti, i farmaci vengono offerti soprattutto da ambulanti che girano per le strade con le loro pillole cura tutto, vendute anche una a una, come dimostra un’immancabile forbice in cima a questi coni delle meraviglie. Pillole per altro danneggiate dal caldo (la maggior parte delle medicine non deve essere esposta a più di 25°), spesso contraffatte, e per di più prescritte a vanvera senza una sia pur minima diagnosi. In sintesi, come scrive Arnoud Robert, «sono delle torri di Babele chimiche, pericolose come una roulette russa».
Inizia così, con questi ritratti su fondo bianco, che fanno risaltare volti e torri di pastiglie ben ordinate, Happy Pills (Delpire&Co, Parigi, 2021, pp. 260, € 39), libro e ricerca che Paolo Woods e Arnaud Robert, giornalista e regista svizzero, hanno condotto in giro per il mondo interrogandosi sull’uso sempre più massiccio dei farmaci, capsule della felicità e lenimenti dell’anima, ma anche strumenti di morte, di sfruttamento e ingiustizia sociale, frutto di una società che crede solo nell’efficienza, nel potere, nella giovinezza e nelle prestazioni a tutti i costi.
Paolo Woods non è un fotografo che parte per una ricerca avendo già in testa preconcetti da dimostrare: come nella migliore tradizione del fotogiornalismo e della fotografia di documentazione, lui usa la fotografia come uno strumento per capire, per interrogare la realtà, per sollevare domande, convinto – giustamente – che il mondo vada indagato nella sua complessità, nelle sue sfumature e nei suoi aspetti contraddittori. E la utilizza senza far prevalere uno stile fotografico valido per ogni occasione, bensì come un mezzo flessibile e pensato per uscire dagli stereotipi visivi e culturali, per informare e sollevare interrogativi che toccano temi nevralgici di grande attualità.
Tra il 2007 e il 2008, ad esempio, ha raccontato, in anticipo sui tempi, la sempre più pervasiva presenza economica e politica cinese in Africa con la ricerca e il libro Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero. Un libro vero e proprio, composto da testi e immagini, nato in collaborazione con i giornalisti Serge Michel e Michel Beuret, che è stato tradotto in più di dieci lingue e ha venduto più di 40.000 copie solo in Francia. Poi, con l’amico fotografo Gabriele Galimberti (che ha collaborato anche a Happy Pills assieme a Edoardo Delille) ha realizzato il libro The Heavens, indagine sui paradisi fiscali sparsi nel mondo che, tra molteplici mostre e successi, è stato scelto nel 2015 tra i migliori fotolibri dell’anno.
Successi che anche Happy Pills è senz’altro avviato a conquistare: già presentato in una grande mostra a La Ferme des Tilleuls (Svizzera) dal celebre curatore François Hébel, è ora esposto in parte alla galleria Valeria Bella di Milano (via Santa Cecilia 2, fino al 28/2/2023) che presenta le sue immagini realizzate a Haiti. E questa primavera si appresta a viaggiare in Germania e in Giappone. Il libro, edito in francese, si presenta pure in veste di film: giusto per rimanere in Italia, è stato presentato in anteprima al Festival dei Popoli di Firenze e sarà prossimamente proiettato al cinema Beltrade di Milano, alla presenza dell’autore (24 febbraio, ore 19)
Perché tanti apprezzamenti nazionali e internazionali? In un universo dove spesso i reportage dei fotogiornalisti sono facilmente riferiti a eventi o a luoghi specifici, spesso suggeriti dalle news, Woods propone invece ricerche di ampio respiro che evidenziano fenomeni politici e sociali poco o nulla indagati, ma senz’altro scottanti e di grande interesse; realtà misconosciute che, nella loro gravità, toccano tutti da vicino – come risulta evidente nel caso di Happy Pills. Ognuno di noi non è forse assalito ogni giorno da pubblicità che promettono pillole miracolose e guarigioni istantanee?
Grazie a *** il naso si “stappa” e la voce ritorna squillante; se prendi *** dormi come un bebè, torni sereno e puoi lavorare più di prima, meglio di prima; con l’integratore*** eccoti prestante e saltellante come un adolescente anche se hai oltrepassato gli ottant’anni; mentre la bustina *** ti fa sparire il mal di testa per incanto... Il messaggio è chiaro: la malattia o il disagio psicologico è un tuo difetto, una colpa di cui tu sei responsabile, un intralcio al lavoro o allo studio. Ma tu lo PUOI, anzi lo DEVI superare subito: il sintomo, il disagio va immediatamente annientato, se non ci riesci è una tua mancanza perché non hai preso la giusta happy pill. Già, ma se il sintomo sparisce grazie alla magica panacea, qual è invece la causa del sintomo che ti affligge? Dove sta la diagnosi, di quale malattia si tratta? E quale sarebbe la terapia più appropriata, una volta raggiunta la diagnosi giusta? Be’, questa è tutt’altra questione.
Che cosa determini un sintomo al medico in molti casi non interessa (ammesso che la medicina sia prescritta da un medico) e così pure spesso al paziente: capire che cosa determini un sintomo è complicato da diagnosticare, meglio quindi puntare sul rimedio più rapido, più efficace, anche se alla lunga magari pericoloso o pericolosissimo. Manca il tempo, oppure mancano gli ospedali, o i soldi per fare le analisi e curarsi davvero.
In molti casi l’imperativo sociale all’efficienza perfetta presenta costi altissimi e non solo in termini economici. Basti un dato riportato nel libro: tra il 1999 e il 2019 negli Stati Uniti sono morte circa 450.000 persone in seguito a un’overdose di farmaci a base di oppioidi, ovvero un numero che supera di quattro volte quello dei soldati americani morti nelle guerre in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan. In pratica un’ecatombe nascosta, nata per alleviare dolori fisici di cui spesso s’ignora la causa.
Di pastiglia in pastiglia antidolorifica nasce la dipendenza, il bisogno di aumentare le dosi fino a esiti spesso mortali. Il libro propone, infatti, doppie pagine con cifre precise e grafici per ogni tema; e in più presenta svariate storie individuali, raccontate e fotografate. Per rimanere ancorati al capitolo “Dolori” ecco in Niger la storia e il ritratto di Alzouma, venditore ambulante e lavoratore in campi minacciati dalla desertificazione: lui, per reggere la fatica e le sofferenze fisiche, prende ogni giorno con il caffè la sua bella pillola di tramadolo, oppioide antidolorifico a basso prezzo che crea dipendenza. Nel suo paese – come racconta un medico dell’ospedale di Niamey – «quest’anno sono state assunte 17 milioni di compresse di tramadolo contro i 7 milioni dello scorso anno». E Woods, in un’impressionante sequenza di più di 70 fotografie, ci mostra scatole e blister vuoti di oppioidi di tutti i tipi e di tutte le marche abbandonati nel terreno che circonda un unico villaggio, quello di Louga Banda, in Niger.
L’epidemia data dall’abuso di tramadolo, in Africa, è quindi una variante ancora più oscena e atroce della crisi degli oppioidi americani. Qui una parte consistente di lavoratori poveri assume tali farmaci – spesso prodotti in Cina e India, ma destinati al mercato africano – per non sentire più alcun dolore e continuare a lavorare. Dallo schiavismo vero e proprio, si è così passati a una forma di schiavitù più astuta e subdola, perché le spese sono tutte a carico dell’uomo sfruttato, costretto a comprarsi di tasca sua le pillole che gli permetteranno di trasformarsi in una macchina da lavoro usa e getta.
Negli Stati Uniti il ruolo di “sterminatore” più che il tramadolo, l’ha giocato il lanciatissimo oxycontin, prodotto da Purdue Pharma (in questo caso a base di ossicodone): un prodotto che vanta il record di aver ricevuto più di 1600 cause legali. E l’oxycontin è oggetto anche della battaglia sostenuta dall’artista e fotografa Nan Goldin, rimasta invischiata nella dipendenza da questo farmaco, il quale – quasi un caso di beffarda ironia – viene prodotto dalla famiglia Sackler, generosa sostenitrice di arte contemporanea e musei connessi (la campagna dell’artista americana contro la famiglia Sackler viene ben illustrata nel recente film dedicato a Nan Goldin Tutta la bellezza e il dolore, della regista Laura Poitras). Ma i grotteschi paradossi non finiscono qui.
Visti i troppi casi di dipendenza creati dall’assunzione di oxycontin, la stessa ineffabile Purdue Pharma ha pure pensato di trarre ulteriori profitti creando un comodo e prodigioso antidoto agli effetti nefasti della sua fantastica medicina: lo spray nasale narcan. Sei stramazzato a terra (come si vede in una fotografia di Woods) a causa di un eccesso di oxycontin? E voilà, basta una spruzzatina di narcan nel naso e, se non sei già morto, ritorni pimpante come prima, pronto a riprendere oxycontin e subito dopo narcan, in un ciclo rovinoso... Big Pharma, Big Profit e Big Marketing vanno infatti a braccetto. Come riporta il libro Happy Pills in una delle sue molte schede: «9 su 10 delle maggiori compagnie farmaceutiche investono più soldi nel marketing che nella ricerca». Ricerca che, per altro, si concentra sulle malattie più redditizie, non certo su quelle endemiche nei paesi “in via di sviluppo”, come la malaria e il dengue: quelli sono malanni spesso mortali che possono aspettare.
E poi, davvero le medicine si prendono solo per curare o alleviare dolori dell’anima e del corpo? Happy Pills ci dimostra che non sempre è così: molte altre pillole vengono assunte infatti per trasformare e scolpire il proprio corpo come si desidera, oppure per rendere il comportamento e la concentrazione adeguate alle aspettative sociali. «Bisogna riuscire a tutti i costi (…) La mediocrità è considerata come una patologia» – scrive il coautore Robert nel raccontare la vita di Addy, graziosa ragazzina americana con felpa e jeans strappati, cui hanno diagnosticato la TDAH, ovvero disturbo dell’attenzione con o senza iperattività, per imbottirla di farmaci atti a farla rendere meglio a scuola. Poi non a caso – come si vede nei selfie che Woods ha trovato nei suoi post – la vediamo sempre mentre ci fa la linguaccia come ultimo moto di ribellione.
Altre medicine ancora permettono invece prestazioni sessuali garantite, o sicurezza anche nelle più goduriose esperienze erotiche gay: 4 miliardi di pastiglie di Viagra vengono inghiottite da maschi che vogliono esibire prestazioni sessuali smaglianti, e soprattutto garantite al 100% (esigenza irrinunciabile, se si è gigolò a pagamento); altre, come PrEp, vanno altrettanto alla grande perché garantiscono una protezione dall’HIV e permettono quindi di fare sesso senza più paure delle conseguenze. Paolo Woods ci mostra la festa del Gay Pride di Tel Aviv, la più grande e gettonata del Medio Oriente: una folla immensa di corpi maschili dai toraci glabri e in bella vista, immersi nella musica techno e in luci stroboscopiche. Poi con Arnaud Robert si concentra sull’esperienza di Maris, 27 anni, che ha modellato il suo corpo a suon di ginnastiche per presentarsi al meglio a questo evento, dove il sesso si fa dalla mattina alla mattina.
Per “rimorchiare” con rapidità chi potrebbe essere di suo gusto, Aris consulta febbrilmente il cellulare. Qui Paolo Woods, con grande acume, riproduce proprio quel che appare sullo schermo del cellulare di Maris: una carrellata di toraci e addomi scolpiti “a tartaruga”, tra i quali lui farà le sue scelte. E ancora più scolpiti e arrotondati come palloni sono i muscoli dei body builder indiani. In questo caso però più delle pillole contano le iniezioni di steroidi. Parodie inquietanti del genere maschile, i corpi di questi culturisti si presentano con muscoli ipertrofici, ma nascondono testicoli – colmo dell’ironia – resi mignon proprio dagli anabolizzanti.
In una foto scenografica li vediamo mentre si esercitano e fanno bella mostra di sé in un alto e squallido edificio abbandonato, mentre sullo sfondo s’intravede la periferia di Mumbai, a propria volta “malata”, immersa in una densa foschia da inquinamento. Poi, in un’impressionante serie di ritratti in bianco e nero, il fotografo mostra questi stessi “guerrieri del muscolo” mentre in un’esibizione sono obbligati a sorridere tendendo i bicipiti fino allo spasimo.
Peccato che il loro diventi spesso un ghigno forzato e innaturale, tra gocce di sudore che scendono impietose dalla fronte. Sono sorrisi esasperati e in qualche modo anche tragici: se ci colpiscono così tanto è perché, in fondo, appaiono come una grottesca e cupa parodia dei nostri stessi sorrisi, spesso anche da noi dispensati per dimostrare che stiamo bene, sempre bene, sempre “alla grande”, malgrado le fragilità che magari ci affliggono. Fragilità che tanto più dobbiamo celare se ci ritroviamo presi nel mondo, ormai dominante, del lavoro occasionale.