Un requiem con stile / Wes Anderson, The French Dispatch
Wes Anderson è ovunque. Spot pubblicitari (Prada, H&M), videoclip musicali (Aline, di Christophe), design (il Bar Luce della Fondazione Prada, il British Pullman Train per la catena alberghiera Belmond), persino un progetto espositivo itinerante (Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori, progettato in collaborazione con la moglie Juman Malouf e allestito presso il Kunsthistoriches Museum di Vienna e la Fondazione Prada). Piaccia o meno, l’opera multimediale del regista texano è l’esempio vivente e lampante di come ci si costruisca una personalità autoriale nell’era dei social media e del self-branding. Potremmo dire, alla McLuhan, che per lui lo stile è contenuto (The Substance of Style è appunto il titolo di un importante video-essay su Anderson, realizzato anni fa da Matt Zoller Seitz), la profondità superficie. È così che è riuscito a crearsi un fandom devoto e onnipresente. Fra YouTube e Instagram non si contano i riferimenti, gli omaggi, i supercut amatoriali, i reels dedicati al dietro le quinte. Per non parlare poi dei sempre più numerosi epigoni o semplici imitatori, da entrambe le sponde dell’Oceano.
Giusto per fare un esempio, a partire dal profilo Instagram Accidentaly Wes Anderson, Wally Koval ha raccolto nel corso degli anni luoghi, oggetti, edifici e interni dal sapore inconfondibilmente andersoniano: tutti fotografati, ovviamente, secondo le rigorosissime prospettive simmetriche delle sue inquadrature, con un effetto d’iperrealtà a tratti perfino conturbante. Nel 2020 Koval ne ha ricavato un libro con lo stesso titolo, ora disponibile anche in italiano (Wes Anderson, quasi per caso, edito dal Saggiatore), accompagnato da una prefazione del regista in persona che echeggia analoghe considerazioni di Fellini: “Ora capisco cosa significa essere quasi per caso se stessi”. Insomma, sembra quasi che si stia materializzando il sogno cantato qualche anno fa da Niccolò Contessa di I cani e diventato ben presto l’inno di tutti gli andersoniani d’Italia. Forse davvero viviamo ormai in un film di Wes Anderson. Senza inquadrature simmetriche però, né canzoni dei Kinks: e semmai vengono i brividi a ripensare oggi, a soli tre anni di distanza, all’Isola dei cani e al suo futuro distopico funestato da una misteriosa e letale febbre canina.
Se in definitiva possiamo dire, parafrasando Gadda, che andersoniano è il mondo, che cosa rimane da fare al Nostro? Questo suo decimo lungometraggio, The French Dispatch (titolo completo: The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun), già pronto per Cannes 2020 e rimasto nel congelatore per un anno intero a causa della crisi pandemica, è probabilmente quanto di più andersoniano vi possa essere, già pronto a mandare in solluchero gli ammiratori e fuori dai gangheri i detrattori. E mentre l’Anderson regista si sbizzarrisce fra ralenti, carrellate, alternanza fra bianconero e colore (con esiti talvolta stucchevoli), variazioni nel formato del quadro, citazioni dai registi amati (ai limiti del plagio quella da Mon Oncle di Tati), debordando perfino nel tableau vivant e nel disegno animato, l’Anderson sceneggiatore, non più tenuto a freno dagli abituali compagni d’avventura (Roman Coppola, Jason Schwartzman e Hugo Guinness si limitano qui a co-firmare il soggetto), è libero di moltiplicare a più non posso (e spesso un po’ inutilmente) i flashback, le digressioni, le cornici narrative e gli effetti di vertiginosa mise en abyme.
Stavolta la cornice è quella di un periodico di lingua inglese – The French Dispatch, appunto – stampato in un’immaginaria cittadina francese con un nome che più snob non si potrebbe: Ennui-sur-Blasé. Immaginario è anche il periodico, anche se è in tutto e per tutto uguale al “New Yorker”, bibbia dell’intellighenzia liberal d’Oltreoceano. Nel 1975, in seguito alla morte improvvisa del fondatore e direttore, il burbero Arthur Howitzer Jr. (un Bill Murray che nei modi ricalca un po’ Harold Ross e un po’ Bill Shawn, storici editor in chief del settimanale newyorkese), la rivista si accinge a chiudere i battenti, assecondando le ultime volontà del defunto. Non prima, però, d’aver confezionato un “numero speciale d’addio” (che poi è il film che stiamo vedendo) con la ristampa di tre articoli scelti fra i migliori.
Ecco quindi, per la rubrica di arte, Il capolavoro nel cemento, firmato da J.K.L. Berensen (Tilda Swinton), in cui si racconta la vicenda di un pluriomicida detenuto (Benicio Del Toro) che finisce per diventare suo malgrado un quotatissimo artista d’avanguardia grazie ai maneggi di un mercante d’arte di pochi scrupoli (Adrien Brody, che allude a Lord Joseph Duveen); per l’articolo a sfondo politico, Revisioni a un Manifesto, nel quale la giornalista Lucinda Krementz (Frances McDormand, che si ispira all’inviata del “New Yorker” Mavis Gallant) si lascia coinvolgere sentimentalmente da un giovanissimo leader delle proteste del maggio ’68 (una versione caricaturale di Daniel Cohn-Bendit, interpretato dall’onnipresente Timothée Chalamet); infine, per la rubrica di cucina, La sala da pranzo privata del commissario di polizia, firmato da Roebuck Wright (Jeffrey Wright, che mescola gli scrittori James Baldwin e A.J. Liebling), dove il reportage sul cuoco-poliziotto Nescoffier (Stephen Park) si trasforma in una sorta di poliziesco francese d’antan alla Henri-Georges Clouzot.
“Ho una memoria tipografica”, ammette Wright nel film. Lo stesso potrebbe dire Wes Anderson, che mai come qui riesce a sfogare la sua vocazione di scrittore mancato, evidente in fondo fin dai tempi dei Tenenbaum (2001). Fra titoli, sottotitoli, indici e didascalie, The French Dispatch, suddiviso in episodi come certi vecchi film italiani (il regista ha citato L’oro di Napoli di De Sica, ma la struttura richiama semmai il coevo L’amore in città, la “rivista cinematografica” ideata da Zavattini che non andò mai oltre il primo numero), è tutto da leggere oltre che da guardare. A dispetto di questa incontenibile verve affabulatoria, però, non sembra che Anderson abbia poi molto da raccontare. Salvo il primo episodio, breve e succulento apologo su amore, morte e creazione artistica che parrebbe ideato da Nathanael West (è invece la ripresa di The Rosenthaler Suite, progetto abortito del regista), gli altri appaiono indubbiamente più irrisolti: il secondo per difetto, con una vicenda stiracchiata e appesantita da un dialogo fin troppo colto e saccente; il terzo per eccesso, per cui uno spunto narrativo che sarebbe piaciuto ad Aldo Buzzi viene inutilmente complicato dal proliferare di flashback e cornici narrative.
Ogni film di Wes Anderson rappresenta l’eccezione e al tempo stesso la regola. La regola è evidente agli occhi di chiunque: l’ossessiva cura per il décor (di Adam Stockhausen) e i costumi (disegnati dall’abituale Milena Canonero), i colori pastello (fotografati da Robert Yeoman), un’eclettica colonna sonora che mescola Erik Satie con Thelonious Monk (le musiche originali sono composte da Alexander Desplat, la supervisione è affidata a Randall Poster); un cast affollatissimo, come in passato soltanto Altman o Allen potevano permettersi, nel quale però gli interpreti vengono utilizzati alla stregua di marionette, o persino di statue di cera: come la Léa Seydoux del primo episodio, guardia carceraria e modella di nudo part-time, immobilizzata nelle pose più grottesche. L’eccezione, invece, è ciò che di volta in volta si cela (o dovrebbe celarsi) dietro questo plateale formalismo. Come dice Herbsaint Sazerac (Owen Wilson), il reporter su due ruote dal nome quasi pynchoniano: “Ogni grande bellezza nasconde profondi segreti”.
Quasi per ribattere a coloro che l’hanno tacciato d’essere niente più che un abile arredatore d’interni, nel corso degli anni Anderson ha progressivamente allargato il proprio sguardo ad altri tempi e altri luoghi: il New England anni Sessanta di Moonrise Kingdom, l’Europa anni Trenta di Grand Budapest Hotel, il Giappone futuribile dell’Isola dei cani. Qualche volta il meccanismo funziona, qualche altra un po’ meno: Anderson è un regista che nella sua irriducibile coerenza stilistica ci ha anche abituati a esiti altalenanti. In questo French Dispatch si ha l’impressione che il meccanismo ogni tanto si inceppi. Lo sguardo sull’altrove (la Francia dei Trenta gloriosi), per quanto mediato dallo sguardo dei soliti innocents abroad (che sono poi altrettanti doppi dello stesso regista, lui pure “espatriato” da Houston a Parigi), non va oltre il facile stereotipo, e gli agganci alla Storia (il Maggio francese) risultano alquanto fiacchi.
Al contrario, il Nostro riesce ancora egregiamente quando ripropone i propri temi prediletti: la metariflessione à la Salinger su genialità e disadattamento, per esempio, con il mito tutto americano del successo che trova paradossale compimento nel suo opposto (come dice il mercante d’arte a proposito del suo recalcitrante protegé, “il suo bisogno di fallire ha avuto la meglio sui nostri tentativi di fargli avere successo”); lo scontro fra generazioni, dove gli adulti sono sempre un po’ bambini e gli adolescenti sembrano malgrado tutto più adulti di loro; la rinegoziazione-reinvenzione dei legami famigliari (la redazione del French Dispatch è raffigurata da Anderson come una sorta di eccentrica famiglia allargata).
The French Dispatch è soprattutto un film dominato dall’idea della morte. Più ancora che Grand Budapest Hotel, che pure era ambientato alle soglie della Seconda guerra mondiale e metteva in scena un mondo spazzato via per sempre. Qui la morte non solo fa da innesco alla vicenda (l’improvviso decesso del direttore-padre-demiurgo), ma ne costituisce l’anima stessa (quello che scorre sotto i nostri occhi è l’ultimo numero della rivista prima della chiusura definitiva). Anche per questo, ha scritto Ilaria Feole su “Film TV” n. 45/2021, si tratta del “più cerebrale” tra i film di Anderson, il “meno allegro, meno vitale, più raggelato”. Se, come sempre, la posta in gioco è quella di costruirsi un mondo a propria immagine, un teatrino mentale, una comfort zone all’interno della quale preservare a mo’ di feticci i resti di un mondo perduto, qui Anderson, oltrepassata la soglia dei cinquant’anni e divenuto padre a propria volta, sembra far rivivere nientemeno che la propria collezione di numeri del “New Yorker” sui quali sognava da ragazzo.
Come osserva ancora Feole (peraltro autrice qualche anno fa di una bella monografia dedicata al regista, Wes Anderson. Genitori, figli e altri animali), con The French Dispatch il regista “porta a compimento il suo discorso […] sulle immagini mediate e sull’incapacità della sua generazione (e di quelle a seguire) di toccare il mondo con mano, di esperirlo senza che un bagaglio di già visto-già detto si sovrapponga all’immediatezza del reale”. Una resa di fronte alla cronica incapacità di emanciparsi dal passato, di (ri)leggerlo all’occorrenza anche criticamente: in una parola, l’incapacità di diventare adulti, che in questo inizio di XXI secolo sembra proprio accomunare neocinquantenni e neotrentenni. Un tema, questo, che attraversa l’intera filmografia di Anderson e che qui assume connotazioni anche tragiche: “Non posso più immaginare me stesso nel mondo adulto dei nostri genitori”, confessa, prima di gettarsi dalla finestra, il personaggio di una pièce teatrale in una delle tante digressioni che costellano il film.
Eppure, a pensarci bene c’è qualcosa che stona in questa inguaribile (novecentesca?) nostalgia del reale. Non riguarda questo film nello specifico, ma più in generale la piega che l’opera di Anderson ha preso negli ultimi anni. Davvero la Storia può essere ridotta a un cumulo di oggetti più o meno preziosi, per quanto elegantemente (e maniacalmente) riordinati e presentati? Era questa l’impressione che lasciava Il sarcofago di Spitzmaus, per esempio: dietro la “sfida i canoni tradizionali che definiscono le istituzioni museali” lanciata nel press-book, al rivendicato “approccio non accademico e interdisciplinare” e ai richiami a esempi illustri del passato (dalla Wunderkammer sei-settecentesca alla duchampiana Boîte en-valise), si faceva strada l’idea di fondo che l’intera Storia dell’arte non fosse che un costoso giocattolo alla mercé di un americano WASP, colto e ricco.
Senza tirare in ballo a sproposito lo sguardo “neocoloniale” o l’accusa di “appropriazione culturale” (che pure è stata mossa da più parti al regista in occasione del precedente L’isola dei cani), viene da domandarsi se davvero la nostalgia di Anderson nasca dalla sofferta constatazione di una tara generazionale o dai limiti di una visione irrimediabilmente ristretta. All’indomani dell’uscita del bellissimo Fantastic Mr Fox, vale a dire in tempi non sospetti, in un articolo apparso sulla rivista online “Gli Spietati”, Roberto Tallarita si interrogava sulle “sfumature ideologiche” sottese al discorso del regista, viziate da “una prospettiva etnica e socio-economica ben precisa, quella dell’upper-class bianca americana”: quella che se ne va in India con un set di valige Louis Vuitton per ritrovare se stessa (Il treno per il Darjeeling), che in Europa cerca soprattutto la “Cultura” (il cortometraggio Castello Cavalcanti) e che conosce il Sol Levante soltanto per averlo visto nei film di Kurosawa (L’isola dei cani). Se già all’epoca Tallarita faceva notare come Anderson e la sua estetica dell’horror vacui fossero “tra gli esemplari più emblematici di quel mainstream hipsterism che ha confinato la contestazione giovanile nel dominio del ‘gusto’ e dello ‘stile’, l’ha fatta ritirare nelle pieghe più intime della sfera individuale, l’ha cristallizzata nella valenza formale dell’oggetto di consumo”, a dieci anni di distanza è evidente come questa tendenza sia andata accentuandosi, facendosi al tempo stesso più complicata: “Forse troveremo ciò che ci sfugge nei luoghi che un tempo chiamavamo casa”, dice Anderson per bocca di Jeffrey Wright.
Disagio nei confronti di un passato mitico (perché mai vissuto) o semplice volontà ludica venata di irritante autocompiacimento? Wes Anderson si è sempre guardato bene da risolvere la questione, talvolta eludendola, talvolta sprofondandoci dentro con tutte le contraddizioni del caso – e magari regalandoci alcuni dei suoi film più belli: Fantastic Mr Fox, Moonrise Kingdom. Difficile fare previsioni, tanto più che il regista ha già annunciato l’undicesimo lungometraggio, Asteroid City. Da bravo film “della crisi”, The French Dispatch può davvero segnare uno spartiacque: da un lato come prototipo di un brand ormai replicabile all’infinito sotto forma di film, allestimento, articolo di lusso; oppure come “numero d’addio”, una sorta di “meglio di” in attesa di una nuova e più matura fase creativa.