Amy Winehouse, copia conforme
Nel presentare il libro Copia conforme ad Arezzo, lo scrittore inglese James Miller sosteneva che il grande merito di una copia artistica è quello di guidarci verso l’originale, attestandone il valore. James Miller (William Shimell) è, a fianco di una gallerista chiamata semplicemente Elle (Juliette Binoche), il protagonista del film Copie conforme del regista iraniano Abbas Kiarostami. I due sono una coppia in crisi e approfittano della circostanza della presentazione del libro per fare una gita a Lucignano, il paese dove si erano sposati quindici anni prima, nel tentativo di risvegliare il loro rapporto. Come se, mutando in metafora il tema del libro di Miller, per richiamare la felicità passata bastasse sovrapporre lo smarrimento del presente. Tutto combacia, ma nulla è più come prima.
Lo smarrimento presente è la proliferazione, favorevolissima in termini di incassi al botteghino, del bio-pic musicale, ovvero la ricreazione delle gesta artistiche e, sovente, delle vicissitudini private di questo o quel musicista di grido. Negli ultimi anni il bio-pic musicale si è cementato in genere a sé, un po’ come il western, l’horror e il peplum, o soltanto come sottogenere del bio-pic tout court (Oppenheimer o Napoleon, fra gli ultimi titoli). Ha cioè sviluppato un suo lessico cinematografico, una sua estetica e forse anche una sua morale di fondo. Si è insomma strutturato per rispondere a un’esigenza di mercato. Il primo aspetto interessante da rilevare è che il genere del bio-pic musicale non conosce genere, nel senso che può mettere in scena un musicista classico – dall’antesignano Mozart di Milos Forman al più recente Leonard Bernstein di Bradley Cooper – un musicista jazz – il Charlie Parker di Clint Eastwood o il Miles Davis di Don Cheadle – o la star del pop – fate un nome a caso e probabilmente si sta preparando un film su di lei/lui/loro. Funziona perché trova pubblico ovunque punti l’obiettivo, ben oltre il melomane o il fan, sfruttando l’estro artistico e la scintilla che questo provoca non appena s’incontra col mondo, per colpire al cuore lo spettatore.
Nel momento stesso in cui si annuncia la produzione di un nuovo film, come non succede per nessun altro genere cinematografico, sorge spontanea una domanda, forse l’unica che davvero conta: chi sarà l’interprete principale? Poca attenzione è riservata alla trama (vai su Wikipedia) o all’esito il più delle volte scontato (comunemente il trapasso, ancor meglio se in circostanze drammatiche, con amaro retrogusto consegnato allo spettatore di non aver saputo amare a sufficienza la persona e/o di non averne colto appieno il genio – su Amazon o su Apple Music la ristampa discografica per rimediare). Tutto verte intorno a come sarà trattata la vita del/la protagonista, che ruolo sarà assegnato al padre, alla madre, al manager, all’amante, ma soprattutto chi se ne farà interprete. Se va bene, invece del dibattito, seguiranno polemiche. Di recente il naso allungato di Bradley Cooper/Leonard Bernstein, ma già fervono quelle sull’annunciato bio-pic dedicato a Michael Jackson, fra genialità artistica e sospetti di pedofilia: ne uscirà colpevole oppure innocente?
Di recente lo storico della musica Ted Gioia ha pubblicato un articolo intitolato The State of Culture 2024, richiamandosi al consueto discorso sullo stato della nazione da parte del presidente americano. Le cose, secondo Gioia, stanno messe male. Senza entrare nel merito dell’articolo, che verte sostanzialmente sull’infausta prospettiva di una società del post-intrattenimento basata sulla dopamine culture, una cultura fondata sul principio della distrazione continua e della dipendenza: il gioco d’azzardo, lo scrolling, il clickbait, lo scorrere di profili su un’app alla ricerca di un potenziale partner, Gioia fra le altre cose fa notare come oggi, anno di grazia 2024, un musicista in là con gli anni valga molto più, in termini di profittabilità monetaria, rispetto a uno giovane; uno morto infinitamente più rispetto a uno ancora in vita. Per assicurarsi il catalogo musicale di Michael Jackson Sony ha di recente sborsato qualcosa come un miliardo e duecento milioni di dollari: “nessuna casa discografica sarebbe disposta a investire anche soltanto una frazione di questa cifra per lanciare dei nuovi artisti”, scrive Gioia. L’industria cinematografica l’ha capito molto bene e sforna a getto continuo film biografici su questo o quell’artista defunto, non importa se scomparso da mezzo secolo o da poco. (Quanto mi dai se mi sparo? era il titolo provocatorio ma, riletto oggi, preveggente, di un romanzo pubblicato a metà anni ‘90 da Sergio Endrigo).
Chi scrive ricorda con una certa nostalgia Nicholas Cage intento a impersonare Elvis Presley nel film Cuore selvaggio di David Lynch, al punto da chiedersi dove siano finiti gli innocenti concorsi dei sosia di Elvis, con tanto di ciuffo spiovente e basettoni d’ordinanza. Oggi una buona cover band dei Pink Floyd, dei Deep Purple, degli AC/DC o dei Genesis può legittimamente aspirare a una carriera professionale o semi professionale. Assai più incerta si presenta invece la carriera di un musicista che ha l’ambizione di proporre al pubblico del materiale originale. Fenomeno non nuovo – Battisti in spiaggia o intorno al falò, le canzoni dei Nomadi alle feste campestri – ma che oggi conferisce ben altra dignità artistica e può avere ben altro risvolto economico rispetto al passato. Soprattutto, rispetto al passato, oggi il discrimine che premia o squalifica è la conformità. Battisti al campo scout o le canzoni dei Nomadi alle feste campestri avevano un margine di interpretazione ben superiore rispetto a quanto è richiesto oggi alle cover band professionali (e neppure si apre in questa sede il capitolo legato all’uso dell’intelligenza artificiale in ambito musicale). Ciò che conta sempre più è il grado di fedeltà, sonora ma anche di look, con un occhio attento ai costumi, al taglio di capelli con cui ci si presenta sul palco, alle pose da assumere. Ciò che si valuta è il grado di adesione all’originale, proprio come viene chiesto al regista e all’interprete di un bio-pic musicale. Il metro di giudizio sulla bontà di un prodotto del genere, spacciato per artistico o culturale, è in buona parte questo: la verosimiglianza della copia rispetto all’originale.
Back to black, il recente bio-pic sulla vita della cantante inglese Amy Winehouse, in questo senso è una copia pienamente conforme. Marisa Abela, l’attrice che interpreta la cantante, è brava assai nel restituire una versione plausibile di Amy (quanto plausibile è materia per chi l’ha effettivamente conosciuta, e per i fans). Ciò che ne rappresenta paradossalmente anche il limite, dal momento che al talento e all’arte interpretativa non viene offerto altro sbocco se non quello di farsi copia il più aderente possibile all’originale. Vale per Back to black ma vale per la stragrande maggioranza dei bio-pic musicali prodotti di recente. Un conto è il Charlie Parker ricostruito da Clint Eastwood, la proiezione di Lester Young e Bud Powell di Bertrand Tavernier (‘Round midnight), il Kurt Cobain di Gus Van Sant (Last days), o i sei ritratti di Bob Dylan abbozzati da Todd Haynes in I’m not there. Il limite di tanti bio-pic che oggi arrivano in sala è rappresentato dal fatto che registi e produttori sono così preoccupati di raccontare la vita di un dato personaggio, che finiscono col rinunciare a offrircene una rappresentazione. Vale per i bio-pic musicali ma azzardo che l’annotazione possa valere anche per il bio-pic in genere (con le dovute eccezioni beninteso: Oppenheimer non rientra certo nella categoria). I bio-pic che hanno l’ambizione di fare cinema partono da uno spunto biografico ma finiscono poi col raccontare altro. Me ne sovvengono qui due che ho particolarmente amato: Jackie di Pablo Larrain (parabola sul potere riflesso) e La mort de Louis XIV di Albert Serra (l’agonia del potere, o del sovrano come natura morta). O altrimenti si pensi a Martin Scorsese, che quando gira un film musicale lo fa restituendo lo spirito di un concerto (The Last Waltz; Shine a Light), o altrimenti punta direttamente sul documentario (No direction home: Bob Dylan; George Harrison: Living in the Material World; Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story).
Ciò che dobbiamo sapere di un artista sta nella sua storia, ci dicono i bio-pic musicali, ossessionati come sono dallo storytelling. Non è detto che sia sempre così. Le canzoni, quando partono nel film su Amy Winehouse, pare assolvano la sola funzione di illustrare poeticamente ciò che ci è stato raccontato nel quadro di vita precedente. Della serie: adesso ti spiego come si trasferisce sul piano artistico il frammento di vita che hai appena visto. Ma la trasposizione filmica della vita di Amy Winehouse all’appassionato può anche apparire come l’equivalente di una successione di flash scattati dai paparazzi. Un’altra forma di voyeurismo, a ben vedere. Usare le canzoni di Amy Winehouse come espediente di storytelling è certo qualcosa che aiuta la sceneggiatura, ma il fatto artistico dovrebbe sempre essere un fuoco che brucia la realtà, non è compito suo raccordarne i lembi. Da un’opera d’arte ci si aspetterebbe lo strappo, non il ricamo, mentre questo film addomestica la creazione artistica plasmandola alla necessità del plot. E purtroppo questo è quanto accade in troppi bio-pic. Nel tentativo di raccontare la vita di un artista queste pellicole finiscono col consegnarci l’idea che l’arte non sia altro che una copia conforme della realtà, raffinata o sofferta che sia, fruibile in questa luce soltanto, non già il tentativo di sublimarla o di superarla, quella realtà, magari addirittura di sovvertirla.
Mentre vedevo il film Back to Black mi è tornato in mente un verso della canzone Beautiful Boy (Darling Boy) di John Lennon:
Life is what happens to you while you're busy making other plans
(La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri piani).
L’aforisma non è di Lennon, ma di Allen Saunders. Non so perché mi sia tornato in mente proprio mentre guardavo il film. Amy non si è mai persa un respiro, e temo non le importasse granché pianificare la sua vita. Era semmai il mondo intorno a lei che ci pensava, a pianificarle la vita, o forse soltanto a rendergliela più difficile. Chi scrive ritiene sia stata una delle più grandi interpreti vocali dell’ultimo mezzo secolo, un diamante grezzo dal valore inestimabile, troppo autentica per quel mondo, una di quelle voci che appena la senti tutto si ferma, e dentro di te parte un’emozione tanto difficile di sostenere quanto facile da decifrare (senza dimenticare che scriveva le canzoni di proprio pugno, mettendoci il cuore e il sangue, oltre i polmoni), e non stenterei a porre il suo nome accanto a quelli di Aretha Franklin e di Billie Holiday. Esagero? Allora mettiamoci anche Nina Simone ed Ella Fitzgerald, che facciamo cinquina. Se la conoscete solo di sfuggita o per sentito dire, questa potrebbe essere l’occasione per riascoltare i suoi dischi, meglio ancora per riguardarsi un concerto, il documentario Amy di qualche anno fa. Oppure andate al cinema e cominciate da questo bio-pic. A me ha fatto venire una gran voglia di tornare a casa e metter su una canzone di Amy Winehouse, diciamo proprio Back to black, fra le tante, e di perdermici. Per la durata del film ho sospeso aspettative e riserve, qui c’era anzitutto da onorare la memoria di un’artista che ha lasciato una traccia luminosissima e che ha bruciato di una fiamma troppo viva. Come diceva lo scrittore James Miller (William Shimell), il merito di una copia artistica è anzitutto quello di avvalorare l’originale. Che poi la copia artistica sia anche diventata un business, non è una novità. Miller parlando del suo libro diceva che già nell’Antica Roma era prassi replicare l’arte egizia, non solo a scopo ornamentale, ma anche commerciale.