Reddito / Branko Milanovic, Capitalismo contro capitalismo
Leggere di economia mentre tutto sta cambiando (anche) nell’economia non è facile. Libri e saggi che cominciano a trarre bilanci sulla nuova fase – il grande ritorno degli Stati, la crescita del debito pubblico in tutto il mondo, i nuovi equilibri commerciali e geo-economici – sono forse prematuri, si ha l’impressione di tecnici che lavorano ad aggiustare un aereo mentre vola (per citare una frase sentita di questi tempi). Libri scritti prima del grande choc che, tra le tante cose, potrebbe portare un salto di paradigma nella scienza economica – come scriveva qualche mese fa l’Economist, in un articolo intitolato “ricominciare da capo” – potrebbero apparire superati. Così non è però per quei lavori che ci danno gli strumenti per aggiustare l’aereo mentre vola, a partire dall’individuazione dei guasti. E in particolare per quegli economisti che hanno uno sguardo globale, che attraversa le parti del mondo e non ignora le altre discipline. È il caso del libro di Branko Milanovic Capitalism, alone, uscito nel 2019 e adesso pubblicato in Italia con il titolo Capitalismo contro capitalismo. Il titolo inglese (non ce ne voglia l’editore Laterza che lo ha meritatamente tradotto) è più chiaro e significativo. La tesi di fondo è che nel mondo ora c’è solo il capitalismo: che non è più il sistema dominante, o vincente, ma l’unico modello di produzione esistente.
L’autore spiega nella prima pagina in che senso interpretare questa affermazione: se intendiamo il capitalismo come quel sistema nel quale la produzione è finalizzata al profitto, con l’uso di lavoro salariato libero e capitale prevalentemente privato, e con coordinamento decentralizzato, tutto il mondo è capitalismo. Dopodiché, il capitalismo ha varie versioni, categorizzate da Milanovic in tre varianti: liberal-meritocratico, socialdemocratico, politico. Il primo corrisponde grosso modo al sistema anglosassone (e va chiarito: l’aggettivo “meritocratico” non sta a significare che il sistema premia il merito, né dà un giudizio di valore, ma è usato nella definizione di Rawls, e indica l’assenza formale di ostacoli legali per ogni individuo all’accesso a un lavoro o a una posizione); il secondo a quello europeo, con le sue differenze evidenti (ma secondo l’autore declinanti) nei correttivi sociali al mercato; il terzo a quello cinese.
Il capitolo cinese è tra i più importanti e affascinanti del libro; in un recente seminario con il quale ha presentato il libro (online) alla London School of Economics, lo stesso autore lo ha definito “ambizioso”, dato che parte con una ricostruzione del ruolo del comunismo nella storia globale per arrivare a spiegare perché la Cina deve essere considerata il prototipo del “capitalismo politico”: dove quello che in Max Weber è “l’uso del potere politico per raggiungere obiettivi economici” viene assistito da una burocrazia efficiente e tecnocratica, che ha come suo dovere e ragion d’essere la crescita economica (“la crescita è necessaria per la legittimazione del suo ruolo”) ed è allo stesso tempo la prima beneficiaria di un sistema la cui ulteriore e necessaria caratteristica è l’assenza di uno stato di diritto.
L’analisi di questi tre modelli è un racconto non solo economico, ma anche storico e sociale. È fatta alla luce dell’altro grande cambiamento epocale, avvenuto in parallelo con l’espansione del capitalismo come modello unico: ossia l’ascesa dei Paesi asiatici e dunque il riequilibrio del potere economico tra Stati Uniti ed Europa da un lato, e l’Asia dall’altro. “Per la prima volta dai tempi della rivoluzione industriale, i redditi dei tre continenti si sono avvicinati, tornando più o meno agli stessi livelli relativi di allora” (anche se, ovviamente, da un livello assoluto molto più alto).
Lo sguardo globale è quello che caratterizza Milanovic nel panorama degli studi sulla diseguaglianza, per i quali è famoso (in italiano: Ingiustizia globale, Luiss University Press 2017; Chi ha e chi non ha, Il Mulino 2014). Il suo “grafico dell’elefante” – con il quale ha mostrato l’andamento dei redditi mondiali negli ultimi 20 anni per ogni scalino della distribuzione del reddito – lo ha reso anche pop, mostrando visivamente i pochi super-ricchi mondiali impennarsi sulla proboscide del mammifero. Ha dimostrato che se si guarda all’insieme del mondo, la diseguaglianza tra i Paesi si è ridotta, mentre è aumentata quella nei Paesi, e in particolare in quelli del primo blocco, il nostro: il trasferimento di ricchezza e benessere dalle classi medie occidentali a quelle orientali ha aumentato la diseguaglianza nella nostra parte del mondo, e ridotto la diseguaglianza mondiale. Anche in questo libro il racconto dei tre capitalismi corre parallelo a quello sulle diseguaglianze esterne e interne; e il loro impatto sulla tenuta dei diversi sistemi è discusso, anche nella prospettiva delle riforme possibili per affrontare la crisi sociale e politica che ne deriva. Il tema della diseguaglianza dunque non è, in Milanovic, la trattazione di un “effetto” del funzionamento dell’economia, magari sgradito e da tamponare; ma di un elemento costitutivo, che può portare a una implosione dei sistemi e pertanto è da correggere nei suoi meccanismi strutturali. I più pericolosi sono, per il capitalismo liberal-meritocratico, la tendenza alla plutocrazia, ossia al controllo da parte dei ricchi del sistema politico; per quello cinese la corruzione, trattata scientificamente alla stregua di un “fattore della produzione”.
Capitalismo contro capitalismo è un testo denso e ricchissimo, che per un verso sintetizza la vasta letteratura sulla diseguaglianza e per l’altro apre, continuamente, ciascuna delle sue pagine: il ruolo dei “working rich”, della ricchezza che viene dal lavoro e non solo dalla proprietà e accentua così le diseguaglianze anche tra i redditi da lavoro, non solo tra lavoratori e capitalisti; la cementificazione delle diseguaglianze dovuta alla “omogamia” (la crescente tendenza a sposarsi tra simili, formando nuove caste); il blocco della mobilità tra generazioni; il declino dei sindacati e del lavoro organizzato. Ma questa densità e ricchezza non sono ostacolo alla lettura, per i non specializzati in economia, ai quali invece il libro è assolutamente accessibile. Leggendolo appena dodici mesi fa, ci si sarebbe soffermati a questo punto sulle conclusioni, cercando la ricetta proposta dall’economista serbo-americano, che per un verso sembrava prevedere una inevitabile “vittoria” del sistema cinese, ossia della versione politico-autoritaria del capitalismo, per l’altro introduceva visioni di riforma del capitalismo democratico, come “il capitalismo del popolo”, oppure un capitalismo “egualitario”. Leggendolo oggi, si cercherà soprattutto di capire l’effetto della pandemia sui diversi modelli, quali tendenze sono rafforzate e quali indebolite, quali proposte politiche reggono ancora.
E di certo “reggono” tutte quelle che prendono per le corna il toro della diseguaglianza, come lo stesso Milanovic ha ribadito nell’incontro pubblico citato prima, citando le terribili conseguenze delle diseguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari e nell’istruzione nel sistema americano. Al livello-mondo, invece, soccorre uno scritto dello stesso autore sul suo blog, all’alba del Covid-19, intitolato “The world after corona”, nel quale fa alcune ipotesi sui possibili effetti della pandemia sulla distribuzione globale del reddito: è possibile, scrive, una ulteriore riduzione del gap tra mondo occidentale e orientale, se – come pareva allora ed è confermato adesso – la riduzione della produzione sarà maggiore negli Stati Uniti e in Europa che in Cina. Sarebbe una riedizione della grande crisi del 2008, con una riduzione delle diseguaglianze esterne e un aumento delle diseguaglianze interne, quantomeno nel mondo occidentale. Ma attenzione, avvertiva Milanovic in quel post: siamo ancora completamente al buio. “Molto di quel che diciamo oggi potrà rivelarsi sbagliato domani. E se qualcuno la dice giusta, non è necessariamente perché è bravo, ma perché ha fortuna. Ma in crisi come questa, la fortuna conta parecchio…”