Anni Zero, à rebours
Tirano venti amari sul Nuovo Teatro italiano? Per certi versi, è stato l'argomento di quest'estate di festival. A partire dal gesto emblematico con cui pathosformel ha deciso di chiudere pubblicamente il proprio percorso nel teatro (con un progetto web curato da WorkOfOthers, seguito da una retrospettiva integrale e una festa di saluto al festival di Centrale Fies, che li ha accompagnati in questi anni); per finire con un lucido e un po' amaro articolo di Renato Palazzi, che ha cercato di fare il punto della situazione e ha avuto una certa eco fra chi si occupa di teatro di ricerca emergente.
Generazione T, 00, Zero, quarta ondata. Comunque lo si voglia chiamare, è fuor di dubbio che il fenomeno di nascita ed emersione dei nuovi gruppi abbia scosso il Nuovo Teatro italiano degli anni Duemila. Ed è altrettanto vero che è almeno da un paio di stagioni che il fenomeno sembra aver perduto la sua carica esplosiva: rimpasti e riassetti nelle formazioni si sono accompagnati a una diffusa sensazione di stallo, fra reiterazioni di linguaggi consolidati e arditi tentativi di sviluppo, mentre i festival (luoghi elettivi di produzione e visibilità per questi gruppi) soffrono di una crisi economica profonda e non si sono individuate ulteriori possibilità produttivo-espositive.
Anagoor tempesta. Foto Roberto Rognoni
Cosa può essere accaduto in questi ultimi tempi? Cosa può aver scosso così in profondità quella che si presentava a tutti gli effetti come una nuova fioritura del teatro italiano? E cosa sta accadendo ora, che tutti parlando di crisi?
Elogio della biodiversità
Era la metà degli anni Duemila quando una serie di nuovi artisti sembrarono invadere le scene, i festival e i pensieri di critici e operatori. Proprio in un momento della ricerca che – a leggere le pagine di quegli anni – si presentava un po' impantanato, una volta esaurite le spinte degli Invisibili, delle “scene ardite” e della narrazione degli anni Novanta. A un certo punto tutti cominciano a parlare di nuovi gruppi, di artisti emergenti. Rassegne indipendenti come Ipercorpo e Ubusettete, qualche edizione d'oro del Premio Scenario, l'attenzione di alcuni festival particolarmente in ascolto (Prato, Dro, Castiglioncello, Santarcangelo, Bassano) decretarono i tempi e i modi di quella che sembrava a tutti gli effetti una nuova ondata del teatro italiano.
Andando a ripercorrere i profili di quei gruppi, però, il tratto ricorrente che pareva osservarsi fra i loro lavori era proprio che non c'era alcun tratto ricorrente. Quanto piuttosto una trasversalità a 360 gradi.
Trasversalità della formazione e della tradizione, ma anche di lingua e linguaggio. Si respirava un'aria di ricca ed estrema biodiversità, dove le proposte più performativo-visuali potevano pacificamente convivere con progetti di ricerca drammaturgica in senso stretto, la dimensione installativa con afflati pop che facevano i conti con la cultura mass-mediatica, i riferimenti teatrali con quelli artistico-visivi, musicali, cinematografici, ecc. La sensazione era quella di un'irriducibilità senza pari, con gruppi, artisti, percorsi e spettacoli che sembravano dribblare ogni tentativo di inquadramento, categorizzazione, sfuggendo a qualsiasi etichetta o linea di tendenza.
Babilonia teatri made in italy. Foto Marco Caselli Nirmal
Una prospettiva strutturale
Se i gruppi nati ed emersi nel primo decennio dei Duemila parevano non condividere alcunché dal punto di vista estetico, forse un possibile filo rosso si può andare a ricercare a livello strutturale, produttivo e organizzativo.
Ci sono innanzitutto due elementi che saltano all'occhio, a guardare queste esperienze à rebours. Il primo è quello della creazione collettiva: si trattava di artisti (spesso di provenienza diversa) che si riunivano andando a comporre un'autorialità a più livelli e di ampio respiro intorno allo specifico progetto scenico. Il secondo, si potrebbe definire nel quadro di una sorta di frammentazione produttiva: tante volte, l'opera non è creata col sostegno di un unico ente, ma realizzata attraverso micro-contributi che mettono fra loro in rete più realtà produttive.
I lati positivi, distintivi di questo tipo di approcci sono molti: in primo luogo, i gruppi emergenti sembrano tentare una rifondazione del linguaggio scenico, che viene di volta in volta modellato per lo spettacolo che si va creando, in una dinamica di lavoro in cui spesso l'autore è indecidibile e supportato da diversi componenti dell'ensemble. Per l'altra questione, si creano reti, traiettorie, percorsi che lasciano emergere veri e propri circuiti alternativi, accomunati da una sensibilità simile; e si fornisce una risposta valida, efficace ai sempre crescenti problemi economici del Nuovo Teatro (soprattutto emergente), laddove il sistema-teatro consolidato non prevedeva opportunità di emersione solide e di sostegno per i giovani gruppi.
Codice Ivan Pinl me and the roses. Foto Marco Caselli Nirmal
Nell'uno e nell'altro caso, però, non mancano rischi all'orizzonte. Ad esempio, la finalità condivisa di un progetto comune (tanto per quanto riguarda la composizione del gruppo che quella della macro-struttura produttiva), a posteriori, lascia trapelare un senso di fragilità o almeno di precarietà: per il discorso dell'unità del gruppo, forse ponendo il rischio di un esaurimento della spinta del lavoro collettivo una volta ultimato il percorso progettuale-produttivo; similmente, per quei circuiti di fatto, composti spesso da realtà che a livello istituzionale dovrebbero basarsi su caratteri di episodicità ed eccezionalità (anche se per fortuna molti festival hanno resistito in ogni modo).
Si tratta senza dubbio di lineamenti di una certa salienza per definire l'originalità di questo fenomeno, che probabilmente resteranno come sua eredità nel sistema-teatro italiano. Sono scelte che hanno segnato una generazione della scena, che ne hanno scandito la processualità creativa, che ne hanno forse anche influenzato orientamenti e interessi; sono anche risposte intelligenti, a volte sorprendenti, ai venti di crisi che già si affacciavano ai teatri dei primi Duemila.
Daniele Timpano. Ecce robot. Foto Antonella Travascio
“Non ho mica vent'anni”,“thirtysomething”... e poi?
Come ha constatato lucidamente Lorenzo Donati qualche anno fa, uno dei rischi più grossi che sembravano minacciare questa generazione del Nuovo Teatro consisteva nella possibilità che il fatto di essere giovani ed emergenti diventasse un dato strutturale, convertendo la contingenza dell'elemento generazionale in categoria estetica. E che diventasse opzione di sfruttamento e ghettizzazione, proprio di quei giovani che stavano rivitalizzando le scene di quegli anni (qui il coro critico si fa piuttosto folto).
Niente di strano. L'unione fra l'invenzione della cultura giovanile di massa e il boom del Nuovo Teatro (della musica, dell'arte, ecc.) si può considerare parte della cultura novecentesca, uno dei territori estremi in cui il consumismo capitalista ha provato (con un certo successo) a riciclarsi. Così, le esperienze dei gruppi degli anni Duemila si inseriscono a pieno titolo fra le croci e le delizie di quella “tradizione del nuovo” delle nostre avanguardie, che, da un lato, ne ha autorizzato l'emersione indistinta e, dall'altro, le ha veicolate verso ragioni più di consumo e commercio, che di ricerca e crescita. Tutto questo, amplificato da una particolare fortunata congiuntura economico-politica, che ha visto – proprio in quegli anni – l'attivazione di progetti e la diffusione di risorse ad hoc per i giovani del Nuovo Teatro (su tutti, il progetto Eti Nuove creatività).
Fibre parallele. Mangiami l'anima e poi sputala
Non sempre queste opportunità sono state utilizzate con un ampio respiro progettuale; nonostante i molti e seri sforzi di alcuni, in altri casi si è investito nell'entusiasmo del presente, senza curarsi troppo di cosa sarebbe accaduto in futuro. Esempio emblematico – sempre a scorrere le pagine dei primi Duemila – sono le parole spese per mettere in guardia dalla tendenza all'iper-produttività imposta a quei giovani che si affacciavano al teatro. Erano tempi in cui si produceva uno studio dopo l'altro, in cui quasi ogni anno debuttava un nuovo progetto, in cui forse si è investito più sulla produzione che sulla distribuzione, sul singolo spettacolo che su un ragionamento di sistema.
Gioventù bruciata, si potrebbe dire, dalla fame dello stesso sistema che l'aveva portata alla ribalta (ma che, invece che nutrirla, sembra piuttosto essersene alimentato fino allo sfinimento). Nonostante tutti gli sforzi messi in campo da alcune realtà – alcune di cui ancora tenacemente all'opera – per difendere la fragilità dei primi passi dei nuovi gruppi, di proteggere la loro ricerca ancora embrionale, di permettere loro di verificare la tenuta del proprio lavoro.
Nati – come anche noi, cosiddetti “giovani critici” che furono – in un'epoca d'oro del Nuovo Teatro (anche se allora poteva sembrarlo poco), dal “non ho mica vent'anni” (progetto a loro dedicato a Longiano da Silvia Bottiroli, nel 2007) al “thirtysomething” (più o meno trentenni, come recitava il titolo del festival di Dro nel 2010), ora si trovano a dover compiere uno scarto verso la maturità artistica e professionale (che comunque molti già dimostrano da tempo). Solo che le risorse a disposizione vanno via via assottigliandosi, così come le occasioni tanto di visibilità quanto di confronto. E il prodotto da veicolare non è più – o non vuole più essere – “giovane” come l'abitudine produttiva richiedeva. Mentre il nostro sistema-teatro ripete quello che si vede (non) accadere più ampiamente nel sistema-cultura e più in generale nell'approccio del mondo del lavoro, della politica, delle istituzioni: le possibilità di compiere lo scarto verso un'età adulta professionale sono minime, quasi nascoste o addirittura eluse.
Lev mutaimago. Foto Luigi Angelucci
Soldi e non solo. Il tempo del futuro
In questi anni di profonda crisi si è spesso tentati di ragionare a tutti i livelli da un prospettiva economica (il che spesso ha portato a mascherare e giustificare ulteriori mancanze, più istituzionali e culturali che economico-finanziarie tout court). C'è chi ha giustamente parlato in merito di “sbornia economicista”. In effetti, non si può parlare della crisi (più o meno effettiva) dei giovani degli ultimi teatri soltanto in termini economici; però si deve anche analizzare questo livello della questione. Altrimenti, com'è possibile comprendere le ragioni che – nonostante le profonde differenze estetiche – hanno condotto all'incirca nello stesso esatto momento quei gruppi al rimpasto a livello di ensemble e alla rifondazione a livello di linguaggio?
Si potrebbe ipotizzare, seguendo questa linea, che le modalità produttivo-organizzative messe a punto da questa generazione del Nuovo Teatro abbiano fatto il loro tempo; che i mutamenti profondi nel sistema socio-politico, economico e culturale abbiano invalidato la loro proposta o che quantomeno abbiano scoperto qualche nervo di quel modello.
Pathosforme. La più piccola distanza. Foto Antonio Ottomanelli
Viene legittimamente il dubbio che questi artisti che stanno cercando in tutti i modi di varcare (o forzare) le soglie dell'età adulta, proprio per crescere, abbiano bisogno del tempo per sperimentare il proprio linguaggio e lavoro; di risorse per produrre e spazi per lavorare in un'ottica diversa da quella sperimentata finora (cose che dovrebbero essere garantite a livello istituzionale e strutturale, non soltanto difese dall'instancabile buona volontà di alcune realtà indipendenti).
Mi vengono i brividi quando sento parlare di crisi e di stallo a carico di questi gruppi, sarà perché ci rivedo vanificati anche i miei e nostri sforzi. Nessuno nega la crisi generale e il suo strutturarsi a livello permanente; nemmeno si vuole contraddire un senso di crisi più specifico, legato a questa generazione “forever young” (un altro fortunato titolo di festival, B.Motion 2013) e neanche a un livello ancora più microscopico, quello della crisi (sotto gli occhi di tutti) di quei teatri degli anni Duemila. È vero che ci sono sempre meno soldi, spazi, occasioni; che le formazioni si riassettano e non sempre producono capolavori. Ma si tratta di artisti che hanno cominciato un percorso, che stanno cercando un linguaggio (fra l'altro alcuni dando già prova di una certa serietà): vogliamo lasciare loro tempo e modo di trovarlo?
Santasangra. Sei gradi. Foto Laura Arlotti
Forse bisognerebbe fare un respiro profondo e riconoscere – non senza una certa amarezza – che è stata quell'esplosione la vera anomalia: la sua fame irriducibile e la sua visibilità accecante, quell'attenzione ventiquattr'ore al giorno, combinata alla caccia dell'ennesimo spettacolo, la velocità e la voracità. Il boom ha avuto sicuramente anche tante buone intenzioni e una serie di conseguenze positive importanti (la visibilità dell'impatto, per dirne una). Il fatto che poi, ci vogliano tempo e risorse per sviluppare a livello profondo quelle emersioni, quei primi passi e quei tentativi è quasi dire una banalità; ma è una banalità forse poi non così scontata e che va ribadita in questo momento.
Forse l'unico modo per verificare quali siano le altre ragioni e gli ulteriori orizzonti verso cui si sta muovendo questa generazione della scena, è innanzitutto provare a darle finalmente il suo tempo, il tempo che richiede fondare e sperimentare un nuovo teatro.