Piccolo trattato di consolazione / Vivere con i nostri morti
Chi vive a stretto contatto con la morte può abituarvisi? A lungo andare la prossimità al dolore degli altri ci rende più o meno sensibili ed empatici? O semplicemente ci deprime? Delphine Horvilleur, rabbino appartenente al Movimento Ebraico Liberale di Francia, racconta la sua esperienza di accompagnamento nel lutto in un libro, Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti, pubblicato recentemente da Einaudi, in cui attraverso la memoria personale, il racconto di sé, le leggende ebraiche, i testi della Torah e le interpretazioni talmudiche, introduce il lettore nella ricchissima e polifonica cultura ebraica sul tema della morte.
Nell’edizione francese è in primo piano, nel titolo, quello che nell’edizione italiana è il sottotitolo, Vivere con i nostri morti, un cambiamento sottile che segnala, forse, la preoccupazione degli editori che, spesso, ritengono poco incoraggiante, per catturare il lettore, mettere in primo piano la parola morte. Nel caso di questo Piccolo trattato, tuttavia, è proprio il sottotitolo a evidenziare il cuore del libro, cioè l’invito che percorre tutta la sapienza ebraica a tenere aperta la soglia che separa e unisce, a un tempo, i vivi e i morti, nella certezza del legame continuo e vitale che ci lega per sempre a chi abbiamo amato, a chi ha avuto parte nella nostra vita.
Per Delphine Horvilleur il contatto frequente con il lutto e il dolore non ha addomesticato il pensiero della morte, non l’ha resa più familiare né tantomeno più facile da affrontare. Piuttosto, l’ha costretta a pensarci sovente, a cercare una via che permetta alla vita di continuare il suo cammino anche quando la morte l’attraversa e la spezza. Confessa di avere «adottato alcuni riti e abitudini che potrebbero essere scambiati per gesti apotropaici…che in un modo decisamente arbitrario mi aiutano ad arginare lo spazio della morte nella mia esistenza. Di ritorno dal cimitero, ad esempio, non rientro mai direttamente a casa… mi impongo sempre una deviazione per un caffè, un salto in un negozio, qualunque altra cosa. Creo una barriera simbolica tra la morte e casa mia… Devo a tutti i costi seminarla… accertarmi dunque che abbia perso le mie tracce e che, soprattutto, non conosca il mio indirizzo». L’ironia ebraica trapela da queste parole che riportano alla leggenda dell’angelo della morte Azrael, minaccioso e terribile, eppure si dice che può essere ingannato. Come, lo racconta Horvilleur e bisogna leggerlo nel suo libro.
La soglia resta aperta quando si permette che vi sia, tra chi muore e chi resta, lo spazio di un dialogo in grado di tenere annodati i fili delle loro storie così da potere ancora procedere insieme, andando oltre la disperazione e il non-senso. Spesso capita che si chieda al rabbino di presidiare alle esequie di persone che lei non ha conosciuto, racconta Horvilleur, di ebrei che non frequentano la sinagoga eppure desiderano essere accompagnati, secondo la tradizione, alla fine del loro viaggio dalla recita del qaddish, la preghiera tradizionale sulla tomba del defunto. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non si tratta di un lamento e non parla della morte; è un canto che esalta la vita tessendo le lodi di Dio.
Qadosh è attributo di Dio, che traduciamo con santo ma propriamente significa separato, altro, diverso da tutto il resto. Così è Dio, e alla sua alterità partecipa colui che muore. Nell’andarsene non si piange, non si recrimina, non ci si compiange, ma si loda la vita e chi l’ha creata, quel ‘totalmente altro’ nella cui realtà si entra. Fino a poco tempo fa non si permetteva alle donne di recitare questa preghiera, e anche oggi molti non vogliono che sia recitata da una donna. Talvolta è permesso che una figlia la proclami in memoria dei genitori, come accade in un romanzo di Chaim Potok, L’arpa di Davita (Garzanti) in cui una ragazzina, figlia unica la cui madre ha lasciato l’ebraismo, si ostina a recitare in sinagoga questa preghiera in memoria del padre, scombussolando la comunità ma suscitando anche ammirazione per la sua determinazione e il suo amore filiale.
Delphine Horvilleur incontra le persone che le chiedono di recitare il qaddish alle esequie di un loro caro in un bar. «Può sembrare incongruo, scrive, ma ho bisogno di un po’ di vita intorno a me per parlare dei morti. Là dove la gente alza i bicchieri e a me viene voglia di esclamare: Lechaym! Alla vita». Il Dio della tradizione ebraica è vita perciò niente è più sacro della vita, tanto che per salvarne anche una soltanto tutti i precetti e i comandi si sospendono, come ha fatto di recente il primo ministro d’Israele, l’ortodosso Naftali Bennet, viaggiando in aereo nel giorno di sabato per potere incontrare il presidente russo Vladimir Putin, sperando di mettere fine alla guerra.
La vita è tanto pervadente nella cultura ebraica che il cimitero si chiama Beit ha-chaym, ossia casa dei vivi o della vita, quasi ad affermare che chi è vissuto non appartiene alla morte neppure quando la sua vita è finita. La morte non ha dimora tra gli uomini. Su ogni tomba, chi va in visita depone un sasso che «a differenza dei fiori, che appassiscono, … restano tali ed esprimono la tenacia del ricordo», spiega Horvilleur, precisando che l’etimo stesso della parola sasso in ebraico comunica l’unione di padre e figlio, la continuità delle generazioni, un’altra parola chiave nella religione ebraica. Forse solo in ebraico esiste un modo per definire chi perde un figlio, lo si chiama shakul, sostantivo che rimanda all’immagine di «un grappolo strappato [da cui] la linfa cola ma non sa più dove fluire e il butto rinsecchisce perché una parte della sua vita l’ha abbandonato».
Tra la morte e le parole c’è un legame profondo e misterioso forse radicato nella nostra psiche, nel bisogno di tirare fuori da noi stessi tutto ciò che, lasciato semplicemente lì, ci avvelena, ci fa ammalare. Come il rancore e la rabbia, il dolore deve trovare qualche via d’uscita, allo stesso modo del pus da un bubbone infetto. La gioia può, forse, restare intimamente racchiusa e trasparire soltanto nei gesti o sul viso, ma il dolore deve trovare parole che lo portino fuori dal cuore, che lo allontanino almeno quel poco che basta per tirare il fiato. «Nessuno è in grado di parlare della morte, dice Horvilleur, [essa] sfugge alle parole, proprio perché segna la fine della parola. Quella di chi se ne va ma anche quella di coloro che sopravvivono e nel loro sgomento faranno da quel momento in poi un uso improprio della lingua, perché nel lutto le parole perdono senso.
Non servono ad altro che a dire questo, che non c’è più senso». Eppure trovare le parole, saper raccontare e attraverso il racconto tenere aperto il varco tra i vivi e i morti è compito primario del rabbino. «Con il passare degli anni mi pare proprio che il mestiere più vicino a quello che faccio io un nome ce l’abbia: narratore» perché, spiega, nei momenti cruciali della vita si ha bisogno di storie che aiutino a comprendere la propria stessa storia e quella di chi ci lascia. Ricordare è un imperativo della tradizione e della cultura ebraiche; bisogna narrare e ascoltare la vita e le azioni di chi se ne va, o se ne è andato da tempo ma proprio in virtù della narrazione resta presente e vivo in chi ascolta. Fanno proprio questo i racconti sacri di cui parla Horvilleur, «aprono un varco fra i vivi e i morti. Il ruolo del narratore è quello di stare sulla soglia, per garantire che resti aperta».
Una soglia, un passaggio ma verso dove? La domanda più dura di chi resta è sempre: dove va, dove è andato? Come chiede, impietrito, a Delphine Horvilleur il bambino che ha perso il suo fratellino: «Devo sapere dove è andato Isaac. Perché non so dove guardare, per cercarlo». A lungo la tradizione ebraica, prima di ipotizzare una vita dopo la morte, ha risposto soltanto: nello Sheol, luogo di non vita e non morte, simile all’Ade dei greci. La radice della parola Sheol significa domanda. Come a voler dire che «dopo la morte, ognuno di noi cade nella domanda e lascia gli altri senza risposta». Sul dopo la morte l’ebraismo non offre certezze, ma lascia spazio all’interrogativo e a diverse risposte possibili: «dopo la nostra morte c’è quel che non sappiamo. C’è quel che a noi non è stato ancora svelato…». Resteremo tra i vivi nelle azioni che essi compiranno grazie al fatto che siamo vissuti. Può darsi, ma forse non basta se, giunta quasi alla fine del suo libro, Horvilleur prorompe in un desiderio che le sgorga dal cuore e dall’essere stata vicina a tante persone in lutto: «voglio credere più che mai a un ideale ebraico atavico: quello della resurrezione dei morti. Voglio sperare che esista una possibilità di ritorno alla vita degli esseri umani, dei loro amori o delle loro idee. Quanto mi piacerebbe assistervi da viva».
Raccontando la sua esperienza, l’accompagnamento di persone famose come Simone Veil e Elsa Cayat, vittima dell’attentato a Charlie Hebdo, o sconosciute come una sua cara amica o il fratellino di Isaac, Delphine Horvilleur parla soprattutto di amore per la vita. E lo fa con delicatezza profonda, con leggera auto-ironia quando parla di sé, con sincera sensibilità e simpatia umana, con il tocco lieve di chi sa di potere soltanto posare la mano sulla spalla di chi soffre per offrirgli comprensione e speranza.