Conversazione con Massimo Mezzetti, assessore alla cultura Emilia-Romagna / Cultura, sogni e ricchezza
Siamo in piena campagna elettorale. Nessun partito ha messo al centro del proprio programma la cultura. Tasse, immigrazione e sicurezza sono ritenuti dalla politica, e dai media, temi di interesse degli italiani, e quindi leva di voto; la cultura no. Forse per un equivoco di fondo sul senso della cultura stessa, che invece implicherebbe domande molto meno accessorie di quanto è diventato costume lasciar intendere. Che idea di mondo ha in testa la nostra classe dirigente? Quale visione della società e dell’essere umano guida le scelte di chi ci governerà? Come se lo immaginano l’essere umano ideale per il quale lavorano? In quale forma di città, di ufficio, di casa, di famiglia, di corpo? Cosa mangerà? Quali viaggi farà? Cosa indosserà? Come occuperà il proprio tempo? Come trascorrerà le domeniche? Che lingua parlerà? Con quale tono e quale spirito si rivolgerà agli altri? Come tratterà le sue coste, e le sue montagne e gli animali? Come tratterà il suo Dio, o l’assenza di Dio o il Dio degli altri? Da cosa trarrà felicità? E poi, subito dopo: come costruirlo quest’uomo ideale? Quale è lo stato dell’arte della nostra civiltà e cosa si può fare in Italia, in Europa e nel mondo? Gli approfondimenti eludono regolarmente le questioni di fondo su cui, in fin dei conti, si gioca la partita concreta degli ideali, dei valori e delle visioni di futuro, sulla base della quale diamo mandato a un candidato piuttosto che a un altro di governare la cosa pubblica. In occasione della presentazione di EmiliaRomagnaCreativa, un imponente portale regionale dedicato alle attività culturali in Emilia-Romagna, abbiamo rivolto alcune di queste domande a Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità della Regione Emilia Romagna, all’ultimo anno del suo secondo mandato, durante il quale la Regione ha raggiunto e superato l’obiettivo di un raddoppiamento dei fondi assegnati al settore e ha varato due importanti leggi di settore (Cinema e Musica, quest’ultima in fase di approvazione in questi giorni).
Cosa c’entra la cultura con la nostra vita quotidiana? Con la sopravvivenza? Con le tasse, la sanità, la sicurezza, l’immigrazione?
Thomas Eliot diceva che la cultura non è una somma di attività, ma un modo di essere e di vivere di una comunità, ovvero tutto ciò che concorre a definirne l’identità e i fattori fondamentali di coesione sociale. Cultura è tutto ciò che ha a che fare con un sistema di relazioni che rifiuta la violenza e la prevaricazione, fondandosi invece sulla conoscenza, come sapere, ma soprattutto come incontro tra le persone. Noi dimentichiamo spesso che senza l’altro non esiste neppure l’“io”, perché non posso conoscermi “da solo”. Il dialogo presuppone il silenzio, invece noi sovrapponiamo i suoni, e il tempo in cui non parliamo è vissuto come tempo sprecato e improduttivo. Ma è la conoscenza reciproca, la ri-conoscenza, a produrre naturalmente il rispetto. Perciò investire sulla cultura, anzi sulle culture, è la strategia più intelligente per migliorare la condizione umana da tutti i punti di vista.
Quale modello di società e di essere umano ha in mente lei?
Non un modello, perché implica già una chiusura, ma un’idea di relazione tra gli uomini in cui si superi anche la logica dell’integrazione a favore di quella dell’interazione, del dialogo e della riconoscenza, appunto. Integrare significa che l’uno ammette l’altro in uno spazio, in un sistema di regole, in un universo di usi, abitudini e valori che si presume superiore, dominante. Non mi piace.
Cosa produce una visione di questo tipo?
Beni immateriali incommensurabili, nel senso che non si possono misurare direttamente, strettamente intrecciati a beni materiali, perché determina un benessere sociale, che ha una ricaduta su quello sanitario, e allo stesso tempo implica lo sviluppo di imprese e industrie creativa, e quindi ricchezza. Mentre produce ricchezza, poi, determina risparmi derivati, e soprattutto, promuove un’occupazione di qualità, un’idea di lavoro che non frustra la passione personale, le inclinazioni, ma le traduce in professione.
Il paese dei balocchi. Come mai non lo abbiamo ancora fatto?
Perché la realtà è fatta di tanti livelli, e bisogna conquistare terreno anche imparando a districarsi concretamente tra gli indici e gli argomenti degli economisti. Se io sono in grado di far comprendere alle mentalità contabili che in Emilia Romagna il lavoro in campo culturale e creativo incide nella misura del 6% nella formazione della ricchezza, e che se ci aggiungo il turismo culturale supero le due cifre, la cultura comincia a essere riconosciuta come un elemento fondamentale del Pil. Allora i contabili cominceranno finalmente a pensare che l’investimento che propongo non solo non è a fondo perduto, ma può dare anche un ritorno economico, in termini di occupazione e imprese che nascono. Le imprese culturali e creative sono le uniche che in questi dieci anni di crisi hanno avuto il segno più davanti agli indici, in Italia. In Europa hanno capito già quindici anni fa che i tre vettori di investimento fondamentali erano economia dell’ambiente, economia della salute ed economia della cultura. Proprio i tre settori in cui l’Italia invece di investire ha disinvestito, tagliato. A onore del vero adesso c’è qualche timido segnale di inversione di tendenza. Ma come avrebbe potuto crescere un Paese che ha disinvestito proprio sui tre settori fondamentali usati come motore di sviluppo per uscire dalla crisi dagli altri? Poi ci meravigliamo di essere il fanalino di coda della ripresa mondiale.
Basta dare un’occhiata ai bandi europei per capire quali siano le linee guida su cui investe l’Unione. Tra l’altro, a proposito di argomentazioni che fanno breccia nei contabili, la cultura e l’istruzione sono tra quei pochi settori in cui gli uomini non potranno mai essere sostituiti dalle macchine.
Eppure la nostra giurisdizione sul lavoro norma la cultura come un lavoro di serie b. Esempio: il terremoto devasta un’area del modenese; il produttore di ceramiche e i suoi dipendenti, durante tutto il periodo in cui vengono riscostruiti i muri della sua azienda, godono di ammortizzatori sociali; quello di fianco, che opera in un teatro che è venuto giù, no. Perché nel nostro immaginario e secondo le nostre leggi chi lavora nella cultura coltiva un hobby, e quindi deve fare altro, un lavoro “vero”, per vivere.
Dall’altro lato poi, i discorsi economici allarmano i puristi della cultura, che in certi casi buttano via il bambino con l’acqua sporca. Lei, per esempio, in che relazione pone turismo e cultura?
Turismo e cultura non sono la stessa cosa e non si possono confondere. Una volta precisato questo, andiamo avanti nel ragionamento. Discutiamo da anni sulla dicotomia valorizzazione/tutela del bene culturale (che non è solo un museo, ma anche un festival, una rassegna). Ebbene, il tema è fuori fuoco, il punto è semmai in che tipo di pratica traduciamo tanto la valorizzazione che la tutela. Se la valorizzazione implica uno sfruttamento commerciale del bene culturale, provocandone uno snaturamento, allora io sono contrario e critico. E quando parlo di sfruttamento mi riferisco anche a un certo tipo di turismo non sostenibile.
Qualche sera fa in un confronto televisivo lo storico dell’arte Tomaso Montanari accusava il ministro della cultura Dario Franceschini di avere sacrificato la qualità dell’esperienza dei visitatori e la tutela dei beni culturali, per fare cassa e per macinare numeri con cui fare propaganda. Con interventi, per esempio, come le domeniche gratis, che fanno accalcare la gente nei musei in determinati momenti. Franceschini, a sua volta, lo accusava di difendere un’idea di cultura che allontana la gente e fa dei musei meri uffici dei sovrintendenti.
Nonostante si presenti come un leader della sinistra rivoluzionaria, Montanari ha una visione elitaria e classista, che consiste nel tornare a riservare la cultura a studiosi, specialisti, e cultori della materia. Eppure già cent’anni fa gli artisti che parteciparono alla rivoluzione russa avevano capito l’importanza di portare l’arte nelle strade! Chiediamoci come organizzare la gestione per coniugare le due istanze. Bisogna fare in modo che le risorse che provengono dalla fruizione di un bene, e dunque dalla sua valorizzazione, vengano reinvestite per la tutela del bene stesso. Il turismo culturale può portare risorse economiche da reinvestire sulla tutela di un’opera, e sulla qualità della fruizione di quell’opera stessa. Ma con intelligenza ed equilibrio, perché snaturare un bene culturale, o metterlo a rischio, non è valorizzazione ma distorsione. Esporre auto nel Colosseo, o fare matrimoni nella Reggia di Caserta, nell’area in cui sono vietati, significa violare la legge, tra l’altro.
Un esempio virtuoso nella sua regione?
Il comune di Ferrara ha deciso di investire le risorse derivanti dalla tassa di soggiorno sulle mostre allestite al Palazzo dei Diamanti. Quelle risorse, che non erano a budget sulla cultura, e che il comune avrebbe fatto fatica a mettere a bilancio, ora esistono.
La capitalizzazione della cultura può essere considerata come un tradimento del senso della cultura stessa, perché il sistema capitalistico non tiene conto della sua natura e della natura dell’esperienza di fruizione che richiede. Un’esperienza che ha molto a che fare con un tempo improduttivo e uno spazio di libertà.
Giusto, il nostro compito, infatti, è trovare le risorse da destinare a questa libertà. E quelle derivanti da un turismo culturale gestito con equilibrio possono essere reinvestite proprio in questo senso, andando a finanziare attività di ricerca, alfabetizzazione, approfondimento. Bisogna sfatare il mito che i discorsi economici limitino l’autonomia degli artisti e li renda subalterni al potere. Anche perché poi, alla fine, vengono quasi tutti a batter cassa per finanziare i propri progetti.
Il denaro d’altronde esiste, noi non viviamo in una tribù basata sul baratto. Per cui bisogna trovare il modo di usarlo a proprio vantaggio, anche, paradossalmente, per contrastare il consumismo culturale. A proposito di autonomia: cosa fa concretamente un assessore o un ministro della cultura? È un bene o un male che si facciano anche direttori artistici, che gli assessorati promuovano e curino progetti direttamente?
Io sono assolutamente contrario ai politici che fanno i direttori artistici. Le nostre leggi regionali funzionano esclusivamente nel rapporto con i soggetti operatori culturali del territorio. Un assessore ha due compiti precisi: farsi generatore di curiosità e voglia di conoscenza e creare opportunità perché questo desiderio di conoscenza possa incontrare l’offerta degli artisti che nel frattempo operano nella propria totale autonomia.
Cosa vuol dire creare le opportunità?
Consentire a chi opera sul territorio di svolgere la sua attività finanziandone il lavoro, e poi generare curiosità nel pubblico perché si muova per andare a incontrare quelle attività.
Cosa vuol dire autonomia?
Che non concorderò la stagione di Emilia Romagna Teatro Fondazione con il direttore artistico. Lui la costruirà con la sua squadra di esperti, e quando sarà pronta, semmai, me la presenterà. Però mi riservo di dare indicazioni rispetto a uno specifico indirizzo. Che nel campo delle arti, dal teatro alla musica, si traduce in un investimento sulla ricerca e sulla sperimentazione.
Quindi secondo lei i soldi pubblici vanno investiti nella ricerca?
Certo. L’intrattenimento non ha bisogno di denaro pubblico, perché in quel settore investono i privati. Si chiama teatro commerciale proprio per questo. Un privato non investirebbe sulla ricerca, perché per lui in quanto soggetto singolo è diseconomico. A sostegno della sperimentazione interviene invece il soggetto pubblico perché quei gruppi e quegli artisti possano avere spazio e tempo per crescere secondo dinamiche di ricerca e non puramente commerciali.
In realtà è anche una questione di che cosa intende lo Stato col concetto di “cultura”. La famosa visione dell’uomo per cui lavora la politica… Non ha molto senso usare il denaro dei cittadini per riversare loro addosso altro consumismo.
Appunto.
Qui si pone la questione più spinosa. Decidere cosa ha valore culturale e cosa no. I fondi, anche del Fus, si assegnano in base a criteri qualitativi e quantitativi. Quale è l’indirizzo del suo assessorato rispetto alla qualità?
I nostri parametri sono di altra natura, perché chiediamo requisiti qualitativi in termini di strutture ospitanti, posizione contributiva del personale, capacità di gestione. I parametri specificamente artistici sono sempre scivolosi, per cui proviamo a lasciare un margine di apertura, in cui interviene anche il pubblico. Se io finanzio il primo film di un giovane regista del territorio, e lo proietto tre volte, investendo su promozione e comunicazione, e quello non riscuote attenzione da parte di nessuno, non posso non tenerne conto. Siamo pieni di opere prime rimaste nel cassetto, finanziate con soldi pubblici.
Però questo vuol dire che abbiamo sprecato denaro pubblico: allora perché li abbiamo finanziati?
Perché rispondevano a certi requisiti, come un contratto di distribuzione già sottoscritto, un rapporto già in essere con una casa di produzione etc... Se manca la capacità minima di gestione di un progetto, io so già per certo che il film finirà al macero. Quando i requisiti ci sono devo rischiare, alcuni andranno avanti e altri no.
Non tutti gli artisti validi come registi, scrittori, musicisti, sono altrettanto bravi imprenditori, bravi pr, bravi distributori di se stessi. E viceversa ci sono artisti, o sedicenti tali, che rispondono a tutti i requisiti posti dai bandi perché sono straordinari imprenditori e comunicatori e venditori di se stessi (e magari qualcuno ci ha anche messo il cappello sopra legittimandoli), ma in sala, anche dopo due anni di tournée, ci sono sempre quindici studenti cammellati.
Ha perfettamente ragione. Proprio per questo ci siamo dotati di due strumenti legislativi complementari. Con la legge 13 sulla promozione dello spettacolo dal vivo sosteniamo i soggetti già qualificati in termini numerici, di struttura, fatturato etc... Con la legge 37 per la promozione delle attività culturali, interveniamo negli altri casi.
Come funziona la legge 37?
Con la 37 la Regione può finanziare, per un anno o più, il progetto di un artista che pur non avendo tutte quelle caratteristiche numeriche ritiene di interesse culturale, permettendogli così di avviare la sua “startup”. Senza chiedergli nulla se non una associazione iscritta all’albo regionale. Ovviamente, se dopo un po’ di anni quell’artista non è cresciuto e non si è minimamente dotato di una struttura, non avrà più senso sostenerlo con fondi pubblici.
Nella sua visione conta molto la ricezione delle opere, nel giudicare l’esito di un certo investimento. Ma secondo lei il pubblico è immediatamente ricettivo nei confronti delle opere o va educato, formato, allenato a riconoscere la qualità?
A me non piace la parola “educare”, perché sembra che lo spettatore sia un essere inferiore cui un essere superiore insegna cosa prendere da un’opera e come giudicarla. Si tratta semmai di alfabetizzare il pubblico a un linguaggio che ancora non conosce. Poi deciderà da solo. A me per esempio piace molto il jazz, e mi è capitato spesso di parlarne con persone che lo trovavano noioso, e che invece dopo una chiacchierata si incuriosiscono, si appassionano.
Faccio ancora l’avvocato del diavolo. Oggi i teatri di ricerca investono molto sulla formazione del pubblico. In molti casi è utile e perfino provvidenziale, in altri si corre il rischio che intorno ai venti minuti di un primo studio di un giovane artista, ci siano mille incontri e approfondimenti che schiacciano l’opera stessa sotto la foresta di segni e significati che ci riversa sopra qualcun altro. Finendo così per legittimare qualunque cosa, purché sia programmata dentro il circuito giusto e illuminato, che prevede dibattiti e attività collaterali. Chi tutela l’equilibrio in questo caso?
Pensiamoci!
Lei ha avanzato una proposta, anzi, ha proprio avviato una “trattativa” con il Governo, per una maggiore autonomia delle Regioni nella gestione delle risorse del Fondo unico per lo Spettacolo. Cosa chiede precisamente?
Che lo Stato rimanga titolare del Fus, ma budgettizzi le risorse per ciascuna Regione, in modo che possa gestire direttamente il denaro, dal momento che conosce sicuramente meglio dello Stato centrale le realtà che fanno domanda di finanziamento. Fatti salvi gli enti di dimensioni e carattere nazionali – i teatri nazionali, i tric, le fondazioni – che sono realtà che il ministero deve conoscere per forza, come può la commissione, che sta a Roma, conoscere e decidere su centoventi soggetti dell’Emilia Romagna che fanno domanda sul Fus? Le assegnazioni si fondano solo sulla domanda, sulla forma della domanda, sui numeri. La Regione quei centoventi soggetti li conosce tutti, ha più elementi per gestire le assegnazioni.
Una proposta che favorisce sicuramente le Regioni virtuose. Un po’ più pericolosa per altre, in cui di fronte a certe incancrenite dinamiche locali, un artista non può che appellarsi a un referente lontano, super partes, come il ministero.
Guardiamo il rovescio della medaglia. Tu il ministero lo incontri con molta difficoltà, i funzionari regionali invece li incontri quotidianamente. Il responsabile diventa più vicino al soggetto. La responsabilità delle mie scelte come assessore io me la gioco ogni giorno mettendoci la faccia direttamente.
Il punto è sempre la qualità, la competenza, l’onestà. Chi valuta i valutatori?
Il ministero dovrebbe pretendere una certa omogeneità di parametri e di organismi di valutazione, una griglia di condizioni. Non basta, certo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. D’altronde è un bel problema anche quando il ministero elargisce quattro milioni all’Eliseo, mentre io, pur essendo una Regione virtuosa nella gestione dei finanziamenti, devo tribolare per ottenere 30.000 euro in più da investire.
Contro il degrado, che ormai si vede a occhio nudo, non si può che rilanciare. L’Assessorato ha appena presentato un portale che promuove le attività culturali e creative della regione. Un caso abbastanza raro nel panorama della comunicazione istituzionale, se consideriamo il valore, non aggiunto ma fondante, di un’alta qualità nella gestione generale dei contenuti, oltre che del mezzo.
In EmiliaRomagnaCreativa sono raccontate e valorizzate le attività di una realtà che conta 193 teatri, 540 musei, 1300 biblioteche, 432 sale cinematografiche e circa 8000 imprese culturali. Cartellone, approfondimenti, notizie, webradio, banca dati, dati, rapporti, bandi: dietro questo portale c’è il lavoro colossale di una redazione di non più di cinque persone che curano contenuti selezionati, aggiornamenti quotidiani e approfondimenti giornalistici. Questo progetto intende sopperire anche alle mancanze nella comunicazione di tanti soggetti che invece meriterebbero maggiore visibilità. È un doppio servizio, per i cittadini, ma anche per gli artisti e gli operatori. Dedicherò il 2018 proprio a questo obiettivo: cercare di rendere note le innumerevoli attività culturali di questa regione, con una iniziativa che si chiama “enERgie diffuse”, di cui il portale sarà strumento di comunicazione ufficiale. L’idea è quella di unire ai finanziamenti erogati una rete di servizi di livello alto, la cui ricaduta non è di poco conto. Banalmente, quanto può essere più funzionale un post promozionale sulla nostra pagina Facebook, rispetto a quello su una pagina con pochi followers di una compagnia appena nata? Così l’assessorato non fa la direzione artistica della regione, ma sostiene quella dei soggetti che operano sul territorio, facendo sapere quello che si fa, producendo energia e voglia di fare, perché energia chiama energia, e fare determina altro fare.