Introduzione inedita a "Canzoniere mio" / Chi sia la poesia
Carissima,
una quindicina d’anni fa, ti ricordi? avevamo parlato di lui, il canzoniere mio, e ti avevo chiesto di aiutarmi a capirlo. A Bologna sotto le due torri abbiamo letto in pubblico Opera della notte – e inoltre hai scritto pagine profonde sulle poesie dentro i libri di Nane Oca, poesie che a Venezia, a Ca’ Foscari, hai letto magistralmente, quasi cantandole. Eppure non sai dove collocarmi, nella poesia, nel teatro, chissà.
Mi sono sorte domande, dubbi – e qualche lume. Mi sembra di aver capito che le categorie con cui gran parte della critica di oggi (non solo italiana) lavora sono inadatte o insufficienti per capire cos’è veramente fin dalle origini la poesia – il suo corpo incandescente, furioso, “impressionante”.
Ricordi quando ti ho parlato di Dioniso e Orfeo, mentre stavo cercando di decifrarli e capirli nel nostro teatro bolognese dove ogni tanto apparivi?
Dioniso e Orfeo, due nomi maschera per stringere insieme due vie che sono la medesima e indicano l’azione dell’in-canto, il canto-ritmo del fare dei pastori, allevatori, agricoltori, scalpellini, costruttori di case e templi, deforestatori di tanto tempo fa, quando eravamo neo-litici.
Orfeo (mai esistito) non è un mitico cantore “arcadico”. Il suo mythos riassume le attività umane nel passaggio da un’epoca a un’altra – quando le nuove tecniche rivelano l’homo sapiens a se stesso. Nel nome/racconto Orfeo si racchiudono il coltivare il grano, il fare innesti, l’alzare muri, il domare le bestie e molto altro. Il sapiens (noi) ha trovato le regole, i modi e i ritmi della tecnica, ha fatto “miracoli” – ecco l’in-canto, l’apparentemente magico in-canto in cui il rito del ballo, del cantare insieme, dell’andare in trance per attingere i modelli nell’oltre (a casa degli dei artigiani, agricoltori, bovari) costituiscono la forma forza della poesia in atto.
E cosa sarà l’in-canto? Un ritmo che accompagna e intride la materia, la celebra (kaleo) e la ricrea (poiesis). Il proto poema greco non è solo un testo – è la sintesi di un’azione millenaria, di una tecnologia piena di visioni (la visione della metamorfosi da sasso a casa, da creta a pentola, da uccello selvatico a gallina) riassunte nel nome dio che guida l’azione, nome che in epoca tarda è Apollo/Peàn farmacista e dottore, Hermes costruttore di strumenti musicali e seppellitore-becchino, Athena olivicultora, Poseidon addetto anche lui agli olivi e ai problemi del mare e dei terremoti, nomi di maestri d’arti e mestieri, artigiani capiscuola venerati nelle botteghe e nelle scholae. A ben guardare sono tutti artieri gli dei greci, quelli più arcaici e quelli più recenti. Non baccalà neo-classici, marmati.
Dioniso non è quel dio matto furioso che si arrabbia con le donne di Tebe e le fa impazzire: no: Dioniso è l’aspetto coreutico di Orfeo, è il capo seminatore, il fecondatore (il toro, il montatore), il suscitatore della fermentazione (il folatore, l’inebriatore), la guida agli stati di trance che fanno parte della festa (orgia) celebrata intorno ai prodotti della coltivazione, grano e uva.
E guarda Esiodo: opere e giorni, azione della poesia sul lavoro e del lavoro sulla poesia. E pensa a quel grumo di intuizione dei legamenti che è l’inizio del Vangelo di Giovanni – En arkè en o Logos – in principio era il Logos. In fondo anche Giovanni è una “forma” di Dioniso – ed è un poeta in azione, un annunciatore del farsi del cosmo, del gran broetón dell’universo nel momento in cui comincia – e comincia per noi anche perché viene detto, lo raccontiamo. Altro che parola/verbo, come di solito si interpreta. In quelle poche righe Giovanni ha capito (come i suoi maestri greci) che tutto è legato e in moto, anche lui poiétes come Orfeo, con l’annuncio che c’è un mondo da rimitizzare agendo tramite il corpo “grano e uva” di Cristo falegname.
E Virgilio? Mica scrive solo per fare le belle belline in versi – no, sta cercando di fissare le linee guida dell’impero, le regole dell’agricoltura (era coltivatore, a Mantova) e ciò che riguarda il rapporto con l’altro mondo: che è un rapporto di azione, ci va veramente col vischio/ramo d’oro. Agisce con la forma più potente di canto (il poema epico) per dare senso all’agire imperiale, cioè alla pax augustea, partendo dalla fondazione e profetando il futuro (IV ecloga).
E Dante? Il poema (epico) Comedìa e tutte le altre scritture sono strumenti di azione – sulla lingua, sul potere, sulle regole civili. Dante ha la penna e la spada, a Lastra a Signa, a Ravenna, in Lunigiana, a Verona a fare e disfare Veltri, papi e imperatori. Sa bene che oltre a tagliargli la testa, se lo prendono, i fiorentini gli bruciano le opere. E si mette perfino al posto di Dio, il motore del mondo. No, Dante non scrive solo per fare belle lettere – i versi sono atti di combattimento per agire nel groviglio di odi e carneficine, case distrutte, esili, condanne a morte – in cerca della pace imperiale – quella di Virgilio.
E Petrarca? Non fa altro che viaggiare, di papa in papa, di fonte in fonte, teorizza Afriche e Rome ma sotto sotto sta sempre coi suoi frammenti a parlare di sé e del suo amore, del suo quotidiano andare per 366 componimenti nella lingua novissima e incredibilmente italiana, una. Mette il suo io a nudo, ora per ora, minuto per minuto – e Laura è sì una forma, ma soprattutto una persona reale, con la sua bellezza e la sua morte: e non una figura in fondo allegorica e costruita come Beatrice. Per me questa è la grande azione di Petrarca – che ancor oggi agisce, almeno su di me.
E, di salto in salto nel tempo, Foscolo rivendicando la libertà del poeta non è sempre in azione? I Sepolcri non sono solo un poema sublime: no, sono un atto politico che riguarda i vivi e i morti in un momento di passaggio sconvolgente dal regime antico al nuovo, nel subbuglio della catastrofe di Venezia, fra al di qua e al di là.
E Manzoni? Nelle sue moderate cautele non sta cercando di agire sulla storia italiana e lombarda – e su quella della sua aggrovigliatissima famiglia (padre, non padre, antenato “untore”, i cattivissimi Manzoni malparlati proprietari delle ferriere) allo scopo di riscattarli o allontanarli tramite la peste e la “santa” autobiografica Lucia?
E Nievo? Nelle azioni garibaldine e nella scrittura gli emerge di continuo, delicatissima, la signora impressionante. Nel suo essere garibaldino è davvero Ippolito Orfeo e la Pisana un’Euridice perduta e no, misteriosa, in apparizioni e sparizioni continue – in ininterrotti risorgimenti.
Ma dove l’abisso infero trabocca (come il magma dai fianchi della montagna Etna) è in Blake. Un magma che travolge le regole (anche metriche) per descrivere l’Inferno come covo dell’Energia, dove il Diavolo (che accanto ha il suo Angelo) è il Signore del creare e la guida del mondo – e fa il bene. A me pare che Blake, quando è là che incide e scrive sulle lastre di rame, stia scavando fessure per guardare, oltre, sotto, il fuoco impressionante della poesia. Non credi?
Non sto dicendo che la poesia è sempre corpo voce in azione, ma che ogni tanto, in certi poeti, la signora impressionante si ricorda di se stessa, e Orfeo e Dioniso si rifanno vivi: e rivelano di nuovo che lei è rombo di tuono, corpo epico dentro la scienza e il lavoro umano, in cerca di dare e prendere senso. Signora impressionante che affiora qua e là proprio come le eruzioni dai vulcani – magari in Cervantes nella prigione dove gli salta in mente don Chisciotte infinitamente in azione, con la battaglia di Lepanto e la schiavitù alle spalle e una mano di meno, e in Rimbaud sul battello cionco e nella lettera del veggente – e nelle crepe epilettiche di Dostojevski – e in Majakovski ghermito dallo smisurato suicidio – e in Lorca nel Cante hondo e nella Barraca quando la poesia è teatro e il teatro è poesia – e in Artaud, quando mi pare di vedere il suo corpo mente deflagrare rompendo tutte le regole dell’educatissima tradizione tragica francese e, sì, quando nella sua follia si rivelano (ormai cosparse di umore nero) le erbe e le bestie di Orfeo e di Dioniso e il corpo imprigionato dalle didattiche spacca tutte le protesi e si vede emergere il magma della vita indistruttibile.
Quando coi matti, i dottori, gli infermieri, i volontari, gli studenti, i cittadini di Trieste abbiamo fatto il Cavallo Azzurro – Marco Cavallo – ero un poeta in azione insieme a tanti altri – cantavamo e ci in-cantavamo – cercavamo insieme di mettere in moto il tremito della vita risorgente, della dignità, della speranza. Cos’altro deve fare la poesia? Marco Cavallo è una poesia azzurra scritta insieme – un poema epico fatto da tanti umili “omeridi”, tutti in-cantati.
E lo stesso vale per il Gorilla Quadrumàno (che conosci bene) – alla ricerca del “selvaggio” per capire il noi di oggi – seguendo nei boschi possibili (fuori e dentro di noi) il pais che canta, il canta-storie.
Quasi tutte le azioni che ho fatto mi hanno rivelato questo – ed è quello che poi trovi nel Poeta albero, in Opera della notte, nel Tremito, nei Canti del guadare lontano, nei canti del Teatro Vagante, nei voli col poeta Blake e altrove su e giù per il canzoniere.
Chissà, lettrice amata, dove metterai il canzoniere mio dopo questa lettera sopra il corpo della poesia. Magari nei tuoi occhi, per dargli luce.