Fine della lentezza
Lamberto Maffei ha scritto, per la collana “Voci” del Mulino, un Elogio della lentezza (Il Mulino, 2014) percorso dal gusto rinascimentale ed erasmiano per il paradosso. Il libro si apre con l’immagine di una tartaruga sul cui dorso è issata una grande vela gonfiata dal vento, accompagnata dal motto Festina lente, “affrettati lentamente”, l’emblema al quale Cosimo I de’ Medici affidava la sintesi della sua filosofia politica. Anziché inscenare un conflitto schematico, da risolvere unilateralmente, tra lentezza e velocità, Maffei, riprendendo alcuni degli spunti contenuti nel suo precedente, importante libro La libertà di essere diversi (Il Mulino, 2014) mostra la complessità delle relazioni tra due modalità del pensiero, tra due attitudini cognitive biologicamente radicate. Da un lato il pensiero rapido, prevalentemente automatico e inconscio, che guida le reazioni irriflesse e immediate agli stimoli ambientali, legate alle necessità primarie della sopravvivenza, ed è riconducibile alle aree più arcaiche del cervello, alle facoltà tradizionalmente associate all’emisfero destro. Dall’altro lato il pensiero lento, riflessivo, logico, il pensiero razionale associato all’emisfero sinistro, strutturato secondo sequenze temporali, espresso e messo in forma attraverso il linguaggio, modellato da un alto quoziente di plasticità neuronale, dalla plasmabilità delle connessioni sinaptiche, che si modificano a contatto con l’ambiente e nell’interazione sociale e culturale.
Se il pensiero lento ha bisogno di stabilità e di durata, si fonda sulla continuità e sulla stratificazione dinamica di elementi concatenati nel tempo e legati da rapporti consequenziali, il pensiero rapido crea una dimensione temporale discreta, in senso matematico, o saltatoria, che tende a dissolvere sia la continuità retrospettiva costituita dalla memoria, sia quella proiettiva della progettazione del futuro. Il tempo rapido si compone di una serie di esplosioni isolate, è una costellazione di punti separati, ognuno con il proprio inizio, il proprio momentaneo svolgimento, la propria fine che non lascia tracce. È il tempo funzionale al consumo e ai suoi aspetti compulsivi, alimentati dalla necessità di rilanciare continuamente sul desiderio, di stimolare il godimento attraverso la quantità e la frequenza drogata degli impulsi.
Maffei non nasconde che lo spunto del libro è situato nella condizione individuale dell’autore: al contrario, tematizza lo scarto, la differenza, tra la situazione di un mondo deformato da un’accelerazione senza precedenti di tutti i paradigmi conoscitivi e abitativi, e la situazione dell’intellettuale, dello scienziato-umanista, e dell’anziano, quindi soggetto a una doppia lentezza, culturale e biologica. Dentro il vortice dell’accelerazione la difesa della lentezza diventa un’istanza politica e una questione civile, che pone il problema della cura. In un mondo lanciato a tutta velocità, come vengono gestiti gli spazi residui di lentezza? La lentezza culturale, il tempo lungo richiesto dall’elaborazione del pensiero e della conoscenza, sono destinati a essere spazzati via, attraverso lo smantellamento, simbolico e materiale, della scuola, dell’università, dei centri di ricerca? E, ancora più sinistramente, la lentezza biologica attraverso la quale si costruisce l’individuo, e che inevitabilmente ha come esito la vecchiaia, va incontro alla propria ineluttabile liquidazione, agita rottamando in fretta gli anziani, le loro esigenze, il loro modo di stare nel mondo? Cosa se ne fa il mondo rapido, consumato in tempo reale, della – scrive con sarcasmo Maffei – “saggezza che la società dei consumi spesso considera decadimento cerebrale”?
Maffei interroga la mutazione cognitiva prodotta dalla ristrutturazione del sistema comunicativo, e abilitata dalla tecnologia digitale, sempre più aderente ai processi della mente umana e all’anatomia del corpo. Il passaggio dal pensiero lento al pensiero rapido si sovrappone allo slittamento da un universo a dominante analogica a uno a dominante digitale. Mentre il pensiero analogico funziona per separazione, distinzione, taglio, il pensiero digitale tende all’ibridazione tra il continuum corpo-mente e le sue protesi tecnologiche, che diventano protesi cognitive, e contribuiscono a modificare la struttura delle connessioni cerebrali, e perfino la conformazione e le attitudini del sistema motorio. L’ambiente della comunicazione digitale, con la compressione di tempi e spazi, la ripetizione di pattern ricorrenti, la richiesta continua di interattività, sta modellando quello che Maffei chiama un “cervello globalizzato”, un cervello collettivo che sposta in una dimensione relazionale il baricentro dei processi cognitivi, creando una sorta di mente diffusa. Non si tratta però dell’intelligenza collettiva spesso attribuita alla società delle reti: Maffei parla piuttosto di un cervello automatizzato nel quale prevale l’istintualità dell’emisfero destro, le funzioni reattive che eludono l’elaborazione razionale. La rapidità del pensiero digitale del resto produce l’immersione dell’individuo in una sorta di ambiente neoprimordiale, in cui ritorna predominante la necessità di attivare risposte immediate: la sopravvivenza è ora legata alla capacità di decifrare rapidamente i segni della foresta comunicativa. Già Marshall McLuhan aveva equiparato l’ambiente cognitivo strutturato dai media elettrici a un villaggio globale, a un ipermoderno contesto tribale risonante di echi, destinato a decostruire le capacità della razionalità classica di fare presa sulla realtà, ad annullare le distanze prospettiche per instaurare un regime della prossimità: dalla conoscenza visiva e spaziale della modernità si passa a modalità di conoscenza tattili e multisensoriali.
Proprio come per McLuhan il villaggio globale incarnava l’implosione della Galassia Gutenberg, ovvero della storia del pensiero moderno e delle sue forme simboliche, modellate dall’invenzione della stampa, l’attuale senso di inadeguatezza, registrato da Maffei, del pensiero lento e dei dispositivi concettuali analogici, è il punto di dissoluzione dell’intera tradizione umanistica, delle sue istituzioni culturali e politiche, delle sue forme di organizzazione sociale. Recentemente Nadia Urbinati[1] ha associato la lentezza alla democrazia, in quanto mediazione della rapidità del potere esecutivo, e la velocità al dispotismo, all’assenza di mediazioni tra potere e corpo sociale, notando come la pressante richiesta di processi decisionali rapidi stia erodendo la tenuta delle regole democratiche. Lo schema binario costruito da Maffei non è rigido e non è univoco. Una zona intermedia, quasi un punto di contatto tra le due modalità del pensiero, è costituita secondo Maffei dall’intuizione, una declinazione del pensiero rapido che richiede l’attivazione del cervello immaginativo, ed è libera da servizi routinari. Sganciata dalla risposta automatica agli stimoli esterni e dalle funzioni di elaborazione della continuità psichica interna, l’intuizione è una facoltà cognitiva dinamica, che permette alla mente di scartare di lato, di collegare ambiti diversi, di creare relazioni inattese e non previste. Coerentemente, l’intuizione insiste su circuiti neuronali plastici come quelli del pensiero lento, e non sui circuiti rigidi del pensiero automatico. L’intuizione anzi diventa produttiva soltanto quando le associazioni di idee possono depositarsi nel tempo lento dell’elaborazione razionale e della verifica, dell’interazione con la memoria, della combinazione con l’archivio mentale.
Maffei fornisce una affascinante descrizione del “rumore cerebrale”, dell’attività elettrica libera, non strutturata, che circola attraverso i neuroni, ed è rilevabile nel cervello durante i momenti di minore concentrazione e impiego funzionale: dalla combinazione di questa attività spontanea, dalla sua disposizione casuale in pattern significativi, si genera la scintilla che aziona la creatività. La descrizione di questa dinamica, tuttavia, potrebbe essere applicata con aggiustamenti minimi a quello che accade nella semiosfera contemporanea, e particolarmente nell’universo comunicativo digitale: dal roboante rumore di fondo, apparentemente insensato, si staccano inattesi frammenti di senso, figure ritagliate dalla nebulosa dei segni. Nella sua accezione positiva, accreditata anche dallo stesso Maffei, il cervello collettivo diventa l’insieme di processi sociali e relazionali attraverso i quali si incubano le idee innovative e i germi della creatività, sintetizzati e messi in forma da alcuni cervelli individuali.
Pensiero digitale e pensiero intuitivo, in definitiva, hanno un funzionamento analogo: sono entrambe dimensioni discrete, che si attivano per emergenze puntuali e improvvise, e strutturano i significati secondo processi di aggregazione rapida, lasciandoli fluttuare in galassie e costellazioni compresenti, anziché disporli lungo una linearità temporale e consequenziale.
Andreas Gursky, Chicago Board of Trade II, 1999
Nella fortunata serie televisiva Sherlock, prodotta dalla BBC, che ha reinventato il personaggio di Conan Doyle immergendolo nell’era digitale, si concretizza una rappresentazione quasi parossistica della potenza dell’intuizione. Il detective risponde all’opacità di un mondo affollato di segni attraverso una vertiginosa velocità di esecuzione, un esercizio sistematico della conoscenza intuitiva che si declina quasi come una accelerazione quantica della razionalità classica e del suo patrimonio di saperi. Sherlock è un cultore della logica, del metodo deduttivo, della razionalità calcolatrice, e quindi del pensiero lento: ricorre perfino, quando entra nel suo mind palace per recuperare le competenze più riposte, a una mnemotecnica che ha una tradizione antichissima (riscoperta attraverso studi come quelli di Frances Yates[2] e di Lina Bolzoni[3]). Tuttavia i suoi contesti di applicazione della razionalità lo costringono a tali accelerazioni dei processi cognitivi che il paradigma tradizionale ne risulta trasfigurato, irriconoscibile: e i ragionamenti impeccabili di una logica da emisfero sinistro sono elaborati a una velocità e secondo una dinamica associativa da emisfero destro.
Nel corso della tarda modernità l’immaginario occidentale ha investito la detective story, verso la quale l’industria culturale ha indirizzato ingenti risorse economiche e creative, di una richiesta di senso diffusa, di una missione di ricomposizione dell’universo frammentario e incomprensibile della contemporaneità. Come segnalava già nel 1979 Carlo Ginzburg, il “paradigma indiziario” ha incarnato una forma di pensiero divergente, puntuale, empirico, che segna uno scarto rispetto alla logica classica e alla sua lentezza, e si offre come una delle possibilità di superamento della crisi della ragione cartesiana.
Il requiem per la lentezza intonato da Maffei, dunque, può essere rovesciato nella consapevolezza di dover affrontare un mutamento paradigmatico profondo, che probabilmente richiederà di perfezionare le qualità ibride dell’intuizione, permettendo finalmente alla tartaruga di spiegare al vento le vele.