Sanguemisto: corpi singolari
Sanguemisto, edito da La Nuova Frontiera, è una piccola opera di nemmeno duecento pagine. È difficile definirne il genere. A metà tra il romanzo e l’autobiografia è un originale ibrido che a volte si fa saggio a volte intima saga familiare. Risulta un libro abbastanza inclassificabile che ci mette tuttavia di fronte a tematiche con cui è inevitabile fare i conti.
Gabriela Wiener, protagonista e autrice del libro, è una scrittrice e giornalista peruviana che vive in Spagna. Il pretesto attorno al quale si sviluppa la sua narrazione è la ricerca che sta svolgendo sul suo trisavolo, Charles Wiener. Charles era un esploratore austriaco, incarna lo stereotipo dell’antropologo colonizzatore ottocentesco che viaggia per il Sud America razziando reperti archeologici, scrivendo libri di dubbia scientificità e ingravidando “selvagge” locali.
L’incoerente viaggiatore, come lo canzona l’autrice, passa dall’arrendersi di fronte alla sontuosità del passato inca allo sguazzare in atroci giudizi razziali definendo i peruviani “gente con una costituzione esagerata e malsana”, un popolo dedito allo squallore e al vizio.
Per i suoi tempi il “ricercatore” è un luminare, infatti Charles riceverà importanti riconoscimenti all’Esposizione Universale di Parigi, porterà un piccolo indio con sé da esporre come fosse un animale da zoo e a centocinquant’anni di distanza la protagonista si ritroverà a osservare la collezione Wiener in un museo di Parigi. Uno strano scherzo del destino, i manufatti di terracotta saccheggiati dallo zio huaquero hanno la sua fisionomia, ci si riconosce. Una donna, la presunta María Rodríguez, più di un secolo fa, ha dato alla luce il figlio illegittimo di Wiener, di cui l’autrice è discendente.
Gabriela è una persona aperta, colta e a suo modo sovversiva. Vive in una relazione poliamorosa con il marito peruviano, da cui ha una figlia, e una compagna spagnola. Il triangolo amoroso e l’equilibrio familiare sembrano funzionare bene finché Gabriela non è costretta a tornare in Perù a causa della morte del padre. Nei giorni di lutto, influenzata dalle riflessioni sulla paradossale discendenza dal trisavolo oppressore, ripercorre la storia della sua famiglia; la doppia vita di suo padre, intellettuale militante incapace di fedeltà verso la moglie, i nonni troppo bianchi per metterla a suo agio, il suo desiderio di tendere verso la parte “Wiener” della famiglia.
Ma Gabriela porta sul viso e sul corpo i tratti delle esotiche statuette di terracotta che stanno nei musei e che società progredite e illuminate hanno sradicato e reso “un bene per l’Europa”. I bons sauvages da studiare, da mostrare, da compatire. I sauvages che diventano un po’ meno buoni poiché incolti e dediti al vizio, giudicati dall’eurocentrismo delle cosiddette società evolute. I capelli corvini, i fianchi larghi, i seni prosperosi, un certo taglio degli occhi (“quelle ferite allegre e tristi che noi marroni portiamo sulla faccia da secoli”). Il suo aspetto è inequivocabile. È una donna marrone, è inferiore.
“Quando sono venuta a vivere a Madrid e ho scoperto cosa voleva dire sudaca non mi sono sorpresa. A Lima tante volte avevo sentito associare il colore della mia pelle al colore della cacca”.
Il lutto per la prematura scomparsa del padre arreca un grande dolore alla protagonista che ci riporta, grazie alle intense descrizioni, a L’anno del pensiero magico di J. Didion. La mancanza del papà, figura controversa ma indubbiamente positiva, guida politica, intellettuale e sentimentale – durante la nostra ultima conversazione ricordo che mi ha detto con un pizzico di ironia che mi è bruciata dentro: “Ah, se ai miei tempi fosse esistito il poliamore” – innesca una sorta di sradicamento. Per dirla con le parole di Joan Didion: “La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante”.
Partendo da questo accecante dolore, Gabriela ripercorre la sua storia, che è storia personale, ma anche racconto di due continenti, approdando su un territorio comune, il corpo. Corpo dell’autrice, corpo di chola, corpo di donna. Ciò che è interessante è che il corpo di Gabriela a un certo punto è diventato anche il mio corpo e qui sta la bellezza ed il potere della sua opera.
L’autrice inizia a dubitare, dubita delle sue scelte, dei suoi gusti, di un costrutto che ha difeso con vigore, ma che improvvisamente comincia a sembrarle l’ennesima impalcatura occidentale; sono i bianchi a scegliere cosa è progressista, lei può solo adeguarcisi. Del resto “il poliamore è una pratica bianca che non tiene conto di come funziona la circolazione della desiderabilità e i suoi limiti per persone come noi, le brutte della festa”.
Roci, la sua compagna spagnola diventa incarnazione di questo concetto. Colta, femminista, bianca, bisessuale, ma comunque privilegiata e desiderabile per il suo biancore e per la sua magrezza. Roci la desidera per annullare la macchia coloniale dal suo DNA. Lei la ricambia per una sorta di sindrome di Stoccolma.
Quando Gabriela si troverà di fronte il corpo nudo di una donna colombiana rifletterà sul fatto di non aver mai desiderato nella vita un corpo così voluttuoso e scuro, ma di essere sempre stata attratta nelle donne da ciò che voleva in sé. Corpi bianchi, magri e normativi. Ha sempre disprezzato ciò che le assomiglia.
Non c’è conclusione in Sanguemisto, non c’è morale, non c’è risoluzione. Quelli che attraversano l’autrice sono pensieri, crisi a tratti amplificate dal dolore della perdita, vecchie ferite, riflessioni che sul finale si ridimensionano ovattate dalla praticità del rassicurante quotidiano.
A questo proposito mi ricollego a uno spettacolo teatrale che ho visto di recente, il fortunato MDLSX (di cui ha scritto un po’ di anni fa Rossella Menna su Doppiozero), in cui l’attrice e performer Silvia Calderoni mette in scena, attraverso una baraonda di musica, immagini e movimenti sfrenati, la sua fluidità; il suo corpo androgino difficilmente inquadrabile nel genere maschile o femminile, che diviene bandiera della sua rabbia. La Calderoni è sfrontata, disarmonica, casinista. Per qualcuno è superata, per altri ha un ego gigantesco ed ostenta in modo caotico e provocatorio la sua condizione. Concordo con le parole di Rossella Menna (che cito testualmente) per cui “MDLSX non racconta di crescita, miglioramento, costruzione, rivoluzione, emancipazione, diritti. […] non brilla, non promette, non conquista, non costruisce, perché è”. Questo è il motivo per cui l’ho apprezzato e che mi porta a collegarlo a Sanguemisto.
Il libro non propone soluzioni e non cerca di educare la società all’inclusione, non traccia un percorso lineare né ci dona una formula. Gabriela non si pone come una figura al di sopra di tutti, non ha la presunzione di giudicarci e illuminarci, mette a nudo i suoi difetti e le sue contraddizioni, le sue bassezze, le sue attitudini patriarcali, il patetismo della sua sofferenza. Lo stesso fa la Calderoni nel suo spettacolo, non ci è particolarmente simpatica nonostante ci sbatta letteralmente in faccia la sua sofferenza e sembra non arrivare mai a un punto, ma perché mai dovrebbe farlo?
Questa modalità narrativa e performativa dà vita a un importante processo di immedesimazione.
Ho guardato il mio corpo, sicuramente più normativo di quello di Gabriela Wiener e di Silvia Calderoni e ci ho visto sopra tutte le sue ferite. Ho sentito quante volte ha dovuto essere qualcosa che non era, quante volte ha cercato cose che non voleva, quanto è stato reificato, giudicato e osservato senza consenso. Ci ho visto sopra tutti i segni che mi rendono, in quanto donna (bianca, etero e quindi infinitamente privilegiata), un essere umano vittima di una disuguaglianza.
L’autrice e l’attrice si mettono a nudo e si raccontano, sono furiose, fragili, profonde, strafottenti; sono le prime a mettere in atto i meccanismi che tanto detestano. Non creano distanza con chi riceve la loro opera, ma vicinanza. Non c’è un “diverso” che ci prende per mano e cerca di istruirci sulla sua diversità, ci sono due individui che fanno della propria esperienza personale un’esperienza collettiva. Si fanno specchio e ci obbligano a guardarci dentro. Se da una parte ci portano a fare i conti con il dolore di persone che non rappresentano quello che è ritenuto il “giusto modello” e che sono costrette a lottare per essere accettate, dall’altra ci fanno interrogare sulle nostre contraddizioni e sofferenze, su tutto ciò che la società ci richiede facendoci sentire spesso totalmente inadeguati.
Un’opera che ci fa dubitare, a mio parere, è un'opera importante.
L'illustrazione di copertina è The Moon di Manuja Waldia.